Frammenti autobiografici

Sull’opera pittorica di P

Su chi sia l’autore di questo breve saggio (se così lo si vuol chiamare), sulle doti artistiche di P, sono state formulate soltanto ipotesi, una più cervellotica dell’altra. Come esso sia finito tra i frammenti autobiografici di P è un altro  mistero sul quale non vale la pena di perder tempo ad indagare. 

Tutto lascia credere che i quadri di P piacciano a chi non s’intende di pittura. A chi resta incantato, tanto per capirci, al cospetto di quelle distese di primule o di girasoli costruite in rilievo a pastiglia, che si vendono moltissimo a caro prezzo in certe gallerie di cittadine balneari, e di fronte alle quali coppie di ricchi sposini con idee molto particolari sul concetto di verosimiglianza dell’opera d’arte, decidono che quello (con le primule o con i girasoli) sarà il quadro più importante della loro casa, da appendere al centro del salotto, sopra il divano, di fronte alla tv e all’impianto hi-fi.

Eppure P non usa rilievi a pastiglia e non si è mai servito (anche per confessata incapacità tecnica) di certi scontati artifici illusionistici tanto amati anche dai frequentatori delle esposizioni “on the road” nei mercatini settimanali, dove i tramonti marini, le nature morte e i nudi artistici cosi “veri” (e così finti) si vendono ugualmente a prezzi alti ma trattabili e tutto sommato vantaggiosi, perché l’affare comprende la cornice in finto oro zecchino e il vetro.

I soggetti preferiti da P sono sempre a loro modo realistici, se vogliamo, ma anche all’osservatore più disattento non sfugge che tutto è disegnato secondo elementari schemi geometrici da primo anno, non di scuola d’arte ma di liceo scientifico. Pareti e pavimenti, se la scena è una stanza, oppure campi, prati, alberi, muri e quant’altro, se vi si rappresenta un paesaggio, sono sempre delimitati, come nei fumetti, da sottili contorni tracciati generalmente in nero con la riga e il tiralinee oppure, nel caso degli alberi o di altri soggetti che presentino profili arrotondati, con cerchi e semicerchi fatti col compasso. Strumento sostituito dall’apposito curvilineo (quando si tratti di metter giù delle curve raccordate), o da quelle mascherine indispensabili un tempo ai geometri e ai disegnatori tecnici, prima dell’avvento della computer graphics, per risolvere i problemi delle ellissi, e che P persiste ad usare per definire in prospettiva sezioni coniche di tronchi recisi o di alberi assimilabili agli abeti. E’ stato notato che nei quadri non figurano mai né persone né animali, né altri soggetti chiaramente difficili da ridurre a forme schematiche, con mascherine o meno.

All’interno dei profili, il pittore stende semplici campiture di colori piatti, senza sfumature e senza ombre “portate”. Poche variazioni di tono, scelte a quanto si dice con fatica, servono a definire in modo molto generico le parti supposte in luce.

Le leggi della prospettiva sono grossomodo rispettate, a meno che l’autore non abbia deciso, di quando in quando, di trasgredirle. Come si sa, la trasgressione (probabilmente presente da sempre nel campo dell’arte), è da un secolo d’obbligo, quale segno distintivo dell’indipendenza intellettuale dell’artista, del suo coraggio, della sua “modernità” e capacità di guardare il mondo con occhi nuovi. Ma, per giudizio unanime di quanti hanno avuto modo di conoscere nella sua totalità l’opera di P, le trasgressioni (se così possiamo chiamarle) da lui messe in campo sinora non appaiono tali da far cogliere aspetti nuovi e inediti d’alcunché. Si sostiene semmai che siano tentativi un po’ scontati, non privi tuttavia di una loro patetica ingenuità,  di stupire chi guarda.

In qualche quadro alcuni oggetti, generalmente i soliti alberi, si sollevano dal suolo e si librano nel cielo, rappresentato da sfondi bianchi o giallicci (l’uso dell’azzurro è stato prudentemente e quasi sempre evitato perché colore troppo impegnativo e di difficile dosaggio). Quegli alberi volanti, portati in alto, a quanto sembra, più che da un vento da un improvviso venir meno del peso, alluderebbero all’immaginazione, sempre pronta a sottrarsi alle leggi della gravità e del senso comune. Ma appaiono piuttosto, a dire degli esperti, conati di facili fantasie liberatorie e di fughe dalla realtà, senza sorpresa e senza mistero. Stando così le cose, parrebbe legittimo nutrire dubbi che simili trasgressioni possano stimolare avventure mentali di riguardanti volenterosi.

Vano obiettare che artisti autenticamente dotati hanno, in memorabili rappresentazioni, fatto volare oggetti con ben altra bravura tecnica, efficacia e slancio poetico. C’è chi afferma di aver sentito P sostenere con inconsueta foga di aver cominciato a far levitare cose con anticipo di anni rispetto a molti se non a tutti. Portando a riprova esempi di suoi quadri e di date non contestabili, ammesso che il problema consista nella datazione.

E’ stato osservato che gli alberi in volo e i moncherini di tronco sono sempre ritratti con poche varianti d’angolo visuale. Come mai? E’ semplice: i limiti rappresentativi del pittore corrispondono al limitato campionario di mascherine per ellissi con diverso rapporto d’assi (e quindi con diverso angolo) disponibili presso i negozi di Belle Arti! Non risulterebbe che P si sia mai servito dell’ellissografo, aggeggio troppo complicato per lui, e meno che mai del computer, questo sì strumento di vera modernità o, meglio e più semplicemente, di contemporaneità.

P cominciò tardi, dopo i 40 anni, a mettere mano ai colori. Prima, si limitava nel tempo libero a buttar giù qualche disegno a tempo perso (un paio furono esposti e addirittura premiati in mostre compiacenti di “giornalisti pittori”). Ma anche nel tempo “occupato” P non mancava di scarabocchiare distrattamente e quasi automaticamente sui foglietti da appunti mentre parlava al telefono o durante le riunioni di lavoro (che, in buona parte, erano anche quelle tempo perso).

Molti di quei foglietti furono conservati (P non butta mai via niente, ammucchia tutto e presto se ne dimentica, e quando ritrova qualcosa, si sorprende come se lo vedesse per la prima volta e dice tra sé: “però…”).

Quegli scarabocchi erano e sono i cosiddetti doodles, ai quali l’illustre Rudolf Arnheim si compiacque di dedicare qualche riga in uno dei suoi dotti libroni, ponendoli accanto ai disegni dei bambini, dei primitivi e degli schizofrenici.

Sono disegni fatti non pensando o pensando ad altro, diceva in sostanza l’Arnheim, “soltanto il senso della forma dirige gli occhi e le mani senza che nessuna idea conduttrice rimanga sveglia. Le figure geometriche si generano l’una dall’altra, talvolta raggiungendo delle globalità ben organizzate ma più spesso sono agglomerati casuali…”.

P non voleva (o non sapeva?) cimentarsi nell’impegnativa rappresentazione del paesaggio e della “natura morta” (e meno che mai del nudo e del ritratto!). Aveva percepito, semplicemente guardando le opere di artisti oggi famosi, qualche nozione di quell’arte che da quasi cent’anni tutti chiamano d’avanguardia o modernista, che gli appariva francamente più facile e comoda da imitare. Una volta deciso di prendere in mano i pennelli, ma privo al momento di idee, pensò di utilizzare come spunti alcuni dei suoi vecchi doodles. Anzi, li prese com’erano e li ingrandì pari pari o quasi sulla tela, riempiendo poi diligentemente gli spazi entro le linee disegnate con colori acrilici vivaci e piatti, tipo appunto i fumetti. Si era agli inizi degli anni ’70 del secolo andato.

Ben presto gli scarabocchi utilizzabili si esaurirono e P dovette sforzarsi di partorire qualche altro simulacro d’idea pittorica.

Pensa e ripensa, gli venne dapprima in mente di fare certi armadi-finestre colorati da cui usciva l’asse d’una rudimentale altalena a bilico, con sopra qualche solido geometrico e altre cose del genere. Gli armadi esigevano una qualsiasi illusione prospettica, ma P pensò fosse più comodo farli seguendo linee parallele come nei disegni tecnici assonometrici. Poi s’accorse che così non funzionava sempre e cominciò ad accomodare le linee secondo una sua visione prospettica mezzo e mezzo, in equilibrio instabile tra rappresentazione assonometrica e a punto di fuga (che magari qualcuno avrebbe giustificato scambiandola  per una colta allusione al cubismo e alle sue distorsioni).

A questo punto P passò dalle cose in bilico alla vera e propria altalena pendente da qualcosa. Egli prese a sospenderne una che entrava dall’alto, nel cielo uniformemente grigio della tela, senza che si vedesse dov’era appesa  (non era veramente un’idea sua: altalene così compaiono negli impressionisti e una addirittura in un pre-surrealista).

E sopra il seggiolino mise, in posizione non baricentrica, una piccola piramide, giallo-rossa, altro oggetto che gli piaceva molto, e abbastanza facile da fare. Anche stavolta, la piramide avrebbe dovuto suscitare in chi guardava il quadro l’impressione di veder oscillare l’altalena in modo sbilanciato. Il contrasto fra il dinamismo del movimento pendolare fermato in un momento dato e la supposta irregolarità dell’oscillazione era tale da destare sperabilmente nell’osservatore una sensazione di “incertezza e i disagio”, la più adatta, a dire di P, al modo di essere del nostro tempo.

Da lì nacque subito un’altra trovata: comporre una serie di altalene (una per quadro), colte nei vari “momenti” di oscillazione e da differenti punti di vista.

Inutile dire che, essendo i momenti e i punti di vista d’ogni altalena infiniti, c’era materia per occupare l’intera vita di infinite generazioni di pittori. La serie fu però ben presto interrotta, quando risultò evidente persino a P la monotonia del soggetto e della sua rappresentazione.

Quelle altalene erano dipinte secondo uno stile che un’amica ben disposta si sbrigò a decretare “interessante”, ancorché ispirato alla maniera di un noto artista di moda in quegli anni (e molto copiato). Altro amico, ancor più generosamente disponibile, ebbe a dire che quelle composizioni gli ricordavano i Costruttivisti.

Non si può negare, comunque, che sin dall’esordio P abbia scelto di dipingere (almeno in questo con una certa coerenza) quadri approssimativamente figurativi, servendosi di tecniche riservate di solito alle composizioni geometriche astratte. In buona sostanza, più disegnati che dipinti. Scenari, ripetiamo, molto semplificati, con poche linee e pochi colori puri non “lavorati”, campiti senza preoccupazione di lumeggiature, variazioni di tonalità e altri accorgimenti d’uso corrente tra quanti hanno davvero familiarità con i pennelli.

Qualcuno ha chiesto a P il perché della sua predilezione esclusiva per una (in verità comoda) pittura piatta, senza ombre. Egli avrebbe d’acchito risposto che “la cosa gli era venuta così”. Poi, sollecitato a ripensarci, avrebbe aggiunto che gli era sembrato in quel modo di poter “svuotare” ulteriormente le immagini di ogni riferimento naturalistico, allo scopo di suscitare nello spettatore “un senso di estraneità, di spaesamento dal reale” (altre abusate parole-chiave dei contemporanei venditori di fumo). E pare che P a questo punto, per rafforzare la sua tesi, si sia arrischiato persino a citare un poeta tra i più criptici della nostra sempre più incomprensibile età, quel Wallace Stevens, che fu folgorato nel 1913, come tanti intellettuali del tempo, dalle opere d’avanguardia esposte alla famosa esposizione dello Armory Show a New York. In una delle 33 sezioni che formano il poemetto L’uomo dalla chitarra azzurra, (ispirato chiaramente ad un quadro del periodo cubista di Picasso), il poeta dice (sezione v):

Ombre del nostro sole non esistono,
il giorno è desiderio, notte è sonno.
Non esistono ombre in nessun luogo.
E’ la terra per noi nudo deserto.
Non esistono ombre…

Ma l’interlocutore avrebbe replicato ricordando che sbarazzarsi delle ombre può esporre a seri pericoli: ne sapeva qualcosa il Peter Schlemihl, che aveva con leggerezza ceduto la sua al diavolo in cambio della ricchezza, e anche la Donna senz’ombra, secondo il complicatissimo libretto dell’Hoffmannstahl, aveva rischiato qualcosa del genere. Dopo le favole, dove l’ombra si porrebbe come causa e fine d’ogni felicità, l’obiettore sarebbe passato a citare Apollinaire, l’inventore stesso dell’avanguardia, e la sua Risposta dei cosacchi Zaporogi al sultano di Costantinopoli:

O mia ombra mio vecchio serpente
al sole perché tu l’ami
ti ho condotta ricordalo bene
sposa tenebrosa che amo
tu sei mia pur essendo nulla
o mia ombra in lutto di me stesso…

Di fronte a questa citazione, pur non molto più pertinente delle altre alla faccenda in oggetto, e piccato soprattutto all’insinuazione di aver scelto la via più comoda, P avrebbe cercato di dribblare con una battuta: “Se davvero volessi star comodo, come lei dice che io faccio abolendo le ombre, potrei mettermi in pantofole a guardare la televisione”. L’altro, risentito, avrebbe allora ribattuto che, se proprio doveva dirlo, ebbene, a lui quella specie di pittura sembrava ridursi ad una eccessiva (e facile) essenzialità, anzi ad una minimalistica povertà.

Non sapendo più cosa rispondere, P avrebbe assunto a questo punto la solita aria dell’artista incompreso, allargando le braccia e lasciando intendere che tutto dipende da chi guarda i quadri. Se questi non suscitano emozioni, pazienza e tanto peggio per l’osservatore.

Onestà vuole si debba aggiungere qualcosa a proposito della mimica di P in quella circostanza. Egli non sembrava mostrare tracce di superbia o di orgoglio ferito, ma di rassegnata modestia. Comportamento più adatto, in effetti, al suo carattere, che molti definiscono poco combattivo, sostanzialmente remissivo, rinunciatario.

Dicono che negli ultimi tempi l’umore di P appaia mutato, che egli si sia montata la testa e persista con le peraltro oscure e ambigue evocazioni picassiane dello Stevens, che parrebbe essere divenuto uno dei suoi cavalli di battaglia. Venendo meno alla modestia d’un tempo, che se non altro poteva muovere a simpatia, egli proclamerebbe che:

Le cose come sono
si cambiano sulla chitarra azzurra.

Citando ancora (dalla sezione I) del poeta americano, P vorrebbe confusamente sostenere che ciò che i suoi quadri mostrano si trasforma in realtà, grazie alla rappresentazione che egli stesso ne fa. Pare di sentire qui riesumata la voce anarchica di quel bastian contrario di Feierabend, il quale avrebbe scoperto che i testi di certi suoi poeti preferiti “sono autentici manuali di descrizioni fenomenologiche di strani processi che divengono reali soltanto in virtù di queste descrizioni” (testuale dal suo Dialogo sul metodo). E tanto basti.

P è successivamente passato a rappresentare per lo più quelle che egli chiama Illusioni, aggiungendo, con facile gioco di parole, che si tratta di illusioni ottime, il che potrebbe far presumere, dietro tali raffigurazioni, la presenza di accenni sottilmente ironici alla pittura cosiddetta “retinica” e alle relative polemiche (che egli evidentemente ignora essere un po’ passate di moda).

A ben guardare, il pittore s’è limitato, nei quadri di quel periodo, a delineare nel solito modo schematico pochi pannelli o fondali, collocandoli disordinatamente in stanze spoglie, come fossero stati ammucchiati in un magazzino o su un palcoscenico da manovali frettolosi o infingardi. Uno sconosciuto pittore da teatro deve aver abbozzato su qualcuno di quei pannelli forme geometriche che, venuto meno il giusto accostamento delle superfici, risultano ora incomplete o distorte. L’autore sosterrebbe che in tutte quelle rappresentazioni quasi scenografiche c’è sempre un punto in cui qualcosa “non quadra”, come in certe vignette dei settimanali d’enigmistica, dove il lettore è invitato a trovare gli errori e le sviste dell’artista distratto.

Pare che P, fino a ieri propenso a far corrispondere un atteggiamento modesto alla modestia delle sue proposte e delle sue mete, abbia avuto un sorprendente soprassalto d’autoesaltazione e sia giunto addirittura ad escogitare una definizione della propria “arte”, che egli vedrebbe come sub-realistica (quindi “al di sotto” del reale, in contrapposizione al surrealismo, che si proclama “al di sopra” della realtà).

Siffatte idee figurerebbero addirittura in una sintesi poetica in cui P si sarebbe imprudentemente avventurato. Sotto il titolo, appunto, di Illusioni ottime, egli così canterebbe:

All’ottimo lettore andrebbe il compito
di cercare le prove dell’arte
nei pochi decimi di sub-realtà
nascosti sotto i fatti già accertati
nel punto stesso dove i malvedenti
insistono ad aprire finestre.

Ammesso che i traballanti versi qui riportati siano fedeli all’originale e corrispondano effettivamente alle intenzioni dell’autore, sembrerebbe di capire che in quelle cosiddette Illusioni sia stato affidato all’osservatoreil compitodi cercare un montaliano “filo da disbrogliare” (che sarebbe, qui, il nodo centrale di una presunta Arte), in un punto di “sotto-realtà” (cioè di figurazione incompleta, dimidiata, “sbagliata” del reale), in cui si anniderebbe una sorta di contraddizione prospettica. Che paradossalmente cadrebbe proprio nel punto in cui gli assertori pervicaci di una malintesa (e forse obsoleta) pittura “retinica”, fondata sull’illusione ottica, continuerebbero a voler aprire rinascimentali “finestre”, alla tradizionale maniera di Leon Battista Alberti e compagni.

Se tali sono le attuali convinzioni artistiche di P, non possiamo non condividere il diffuso sospetto che il pensiero di questo facitore di quadri non sia molto diverso dalla confusione di pannelli che regna nelle sue tele e si riduca più che altro ad un coacervo di idee orecchiate e velleitarie sui grandi temi dell’arte. Temi che non da oggi occupano menti più dotate e, sinceramente, più informate.

V’è chi sostiene che l’opera del nostro “pittore” rientri nel gran calderone della cosiddetta arte fantastica. Ipotesi non priva di fondamento, ove si consideri che in quel caotico “buco nero” c’è spazio sia per ogni imitatore di grandi correnti artistiche sia per quegli eterni marginali che sono soliti tirare il sasso e nascondere la mano.

Taluno ha creduto di avvertire, nelle elementari costruzioni “fantastiche” di P, certi ricorrenti echi d’humour e d’allegria che, se effettivamente risultassero presenti, non potrebbero non essere considerati positivamente. Forse più che di echi si dovrebbe, semmai, parlare di sporadici e probabilmente involontari accenni. Non certo di una “atmosfera perenne di felicità” inopinatamente apparsa all’indulgenza d’un altro amico, che si ostina a guardare vanamente alla vita in genere (e in particolare alle opere di P) con ottimistici occhiali rosa (in contraddizione, tra l’altro, con le pretese del dipintore di voler suscitare, in linea con le idee correnti, sensazioni “di incertezza e di disagio”!).

Resta da aggiungere, sempre per dovere d’onestà, che questo autore non ha mai preteso né di esporre né di vendere i prodotti della sua fatica, tranne un’unica volta, quando si sarebbe lasciato indurre a partecipare ad una collettiva del “piccolo formato” tenuta nel dicembre 1975 in una località turistica del Lago Maggiore e intitolata pomposamente Segni di riconoscimento dell’arte d’oggi. Vi sarebbe stato esposto, nella galleria Lanza, tra una miriade di quadretti, un suo bozzetto (sempre su un’altalenina) di cm 20 x 20, probabilmente accettato per far numero. E rimasto invenduto, perché esso ricomparve inesplicabilmente in una successiva ripetizione della mostra tenuta, nell’aprile 1976, alla galleria La chiocciola di Padova (!), per poi scomparire definitivamente.

Sulle ragioni del (quasi) radicale rifiuto di P ad esporre, non mancano le supposizioni. La prima, e più benevola (che metterebbe in luce un insospettabile lato umano), pone l’accento sulla già citata modestia dei suoi momenti migliori, quando egli amerebbe asserire (ma non sarà narcisistica civetteria?): “Sono un artistoide: la mia professione è quella del dilettante”. Effettivamente risulta che P ha regalato una parte consistente dei suoi dipinti a parenti e amici. Disegnare e dipingere sarebbero per lui soltanto “divertimento allo stato puro, come quando sto con i miei figli e le mie nipotine, o anche con i miei pochi amici” (quindi non un mero hobby). Divertimento che non escluderebbe – così riferiscono – momenti di scontentezza e di insoddisfazione, quando un “lavoro” non gli riesce come vorrebbe, nonché (lunghi) periodi di disamore per crisi di idee. “Quando sono in crisi con la pittura – avrebbe confessato P a qualcuno – mi metto a scrivere, quando sono in crisi con lo scrivere leggo, quando sono in crisi con i libri traffico in casa o riordino le carte o mi faccio una passeggiata, e quando non ho proprio voglia di niente guardo un film alla tv o vado a letto e dormo”.

P avrebbe sostenuto di recente che disegnare e dipingere sarebbe per lui solo ed esclusivamente una sorta di terapia. Nessuna ricerca di catarsi né di conoscenza di sé, insomma, ma solo divertimento, anche in funzione curativa. E questo parrebbe essere in linea con la modestia di fondo, vera o presunta, del personaggio.

C’è un accenno di P, come s’è visto or ora, anche ad uno “scrivere”. Non si sa che (lettere? pensieri? un diario? un romanzo? O forse, mio dio, altre poesie?).

Ulteriore ipotesi, forse più plausibile, vuole invece che P sia una tipica figura di solitario dispersivo che si sottrae sistematicamente al salutare confronto con la realtà e con il giudizio del pubblico per un insieme di motivazioni (orgoglio, insicurezza, paura di cimentarsi con tesi troppo impegnative, ma voglia di farlo senza pagare il dazio). Un nodo irrimediabilmente inestricabile, che può indurre anche i meno portati all’ambiguo gioco dolce-amaro del massacro.

Al misterioso e francamente malevolo autore di questo testo (che risalirebbe in origine al 1999, ma sarebbe stato successivamente modificato, riscritto ecc.), si suggerisce, se vorrà farlo, di aggiornarsi sulla più recente – pur sempre frammentaria ‒ attività “pittorica” di P, consultando in particolare proprio alcuni appunti in una specie di diario corrente.