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Illusioni ottime (Campanotto Editore, 2006)

Illusioni ottime
Prima di copertina
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Quelli che seguono sono i testi ed i disegni originali dell’autore.

Illusioni Ottime

Presentazione del libro

Vi dirò che questo mio libretto nasce inopinatamente da una domanda che qualche anno fa mi fece al telefono il qui presente Massimo. Lui è un esperto di poesia e per alcuni premi importanti lo chiamano a far parte della giuria. Così gli mandano malloppi grossi così di poesie dei concorrenti da esaminare per vedere se ce n’è qualcuna che meriti un premio.

Un giorno Massimo stava leggendo uno di questi scartafacci di non ricordo che premio e mi ha chiamato al telefono. Doveva essere molto sconsolato perché, non avendo trovato niente di meritevole di premio, in un momento di debolezza, come un naufrago che si attacca a qualsiasi rottame per stare a galla, mi ha chiesto: “per caso, tu hai scritto qualche poesia?”.

E chi è che non ha scritto qualche poesia? Alzi la mano chi non ne ha scritto. “Qualche verso nel cassetto ce l’ho, naturalmente”, ho risposto, e gli ho portato il mio malloppo. Che non è stato evidentemente giudicato degno di essere presentato a nessun concorso poetico e non ha preso nessun premio. Però da lì mi è venuta la voglia di farne un libretto.

Mi pare che Benedetto Croce abbia detto: a vent’anni scrivere versi è naturale, ma se uno continua a farlo dopo, o è un poeta o è uno stupido. Lascio a voi giudicare a quale delle due categorie io appartenga.

Farete fatica a crederlo, ma vi assicuro che la ragione principale per cui ho raccolto i miei versi in un libro e ho trovato (grazie anche, devo dirlo, al patrocinio autorevole e alla benevolenza di Massimo), un editore, un piccolo editore molto confusionario di Udine, Campanotto, (non so come faccia a tirare avanti, visto che non chiede soldi agli autori e non distribuisce alle librerie i libri che stampa), la ragione, dico, per cui ne è uscito un libro, è che voglio lasciare ai miei figli, bene o male, un ricordo, una testimonianza. Avrei potuto semplicemente lasciare loro uno scartafaccio battuto al computer, ma un libro vero era meglio. E qui deve essere intervenuta anche la mia vanità. Vanità di dire a figli, nipoti e nuore: vedete, i miei versi sono stati addirittura stampati.

Devo dirvi anche un’altra cosa: questo libro contiene alcuni refusi e anche degli errori, dei quali non intendo assolutamente incolpare il solito computer o l’editore. NO, sono errori miei, dovuti principalmente alla mia distrazione. Sono molto distratto e lo so bene, e proprio per questo avevo affidato le bozze a un amico perché ci desse un’occhiata. Purtroppo ho scoperto che anche lui è distratto, e così gli errori e i refusi sono rimasti.

Parlare dei miei versi (attenzione, versi, non poesie, questa è una precisazione alla quale tengo molto, i miei sono piuttosto appunti per poesie eventualmente da fare) è per me facile se si tratta di raccontare delle piccole storie, i motivi, gli appigli ai quali mi aggrappo, i pretesti, cioè le scuse che adduco per giustificare la nascita di certi versi.

Difatti le note, che occupano metà del mio libro, sono tutte fatte di giustificazioni, non so quanto valide, del mio operato di versificatore, e spesso (lo ammetto), diventano delle divagazioni, delle svarianze, come le chiamo io, perché a me piace svariare, divagare, uscire dal seminato, perdermi nelle fantasie.

Ho visto qualche settimana fa scritta su un muro in una mostra una frase del grandissimo scultore Arturo Martini ripresa dal catalogo della Esposizione Quadriennale di Roma del 1935: Ogni spiegazione è quasi offensiva. Lavorare e poi se l’opera dovrà durare si arrangerà con il tempo.

Io non so se sono d’accordo fino in fondo con lui, artista che stimo moltissimo, sempre molto polemico, battagliero, aggressivo (era amico di mio papà, a casa mia una volta fece una delle sue leggendarie scenate). A me sembra che le spiegazioni siano un segno di umiltà, ma forse mi sbaglio.

Citazioni. Anch’io, come molti versificatori, cito versi di altri, scegliendo naturalmente poeti omologati, garantiti veri. Un po’ perché sono versi che amo e un po’, temo, come paletti di sostegno ai versi miei.

Altra giustificazione che vi devo: i miei versi sono raccogliticci, roba che ho scritto da giovane, poi quand’ero di mezza età e infine da vecchio, mescolando tutte le mie cosiddette “stagioni”, da 20 a 80 anni. E questa è la ragione per cui il libro non è unitario, è un pot-pourri, i miei stili cambiano con gli anni, come sono cambiato io, probabilmente. Cambiano anche secondo come mi viene e mi va in un certo momento.

Il poeta inglese Auden dice in una sua poesia che il poeta (il poeta vero) è incassato nel talento come un’uniforme. Io non ho nessuna uniforme, non ho obblighi verso nessuno al di fuori della mia famiglia. Non ho mai dovuto render conto a nessuno. Da dilettante, posso prendermi tutte le libertà che voglio. Potrei cambiare uniforme, mettermi un cappello serio o un berretto a sonagli come mi gira. In realtà, la mia libertà è solo virtuale. I poeti veri riescono in fondo a fare bene anche i trasformismi. Io, al massimo, ho cambiato un po’ il numero delle sillabe. Sono partito con i classici endecasillabi e poi sono passato a versi più brevi, spesso decasillabi, che mi sembrano meno cantabili, meno versi da “poetese”. Mai cose sperimentali. Confesso che sono refrattario alle sperimentazioni letterarie, forse perché troppo rischiose, o comunque non adatte al mio modo di pensare.

Vi confesso anche che mi sarebbe piaciuto fare versi non basati su misure sillabiche all’italiana ma sui piedi, come per esempio le tetrapodie giambiche molto usate dalla Dickinson. Fare cioè dei versi che sembrassero traduzioni da poesie straniere. Li fanno in tanti e molto bene, li invidio, ma disgraziatamente io non sono capace di pensare versi in questo modo e mi sono dovuto accontentare.

Nelle note del mio libretto c’è anche qualche considerazione sulla definizione di “poesia”. Non ho citato (ma ve lo dico qui), quello che dice Montale in una delle poesie che nella sua opera omnia sono definite “poesie disperse”, ma che per me sono sempre cose straordinarie. Secondo Montale la poesia consiste “nel dire sempre peggio le stesse cose”. E lui si riferisce pur sempre alla poesia dei “secoli d’oro”. Figurarsi nei tempi magri, quando “fare poesia”, dice lui, fa rima con “epidemia”.

Secondo me Montale sembra pessimista ma in realtà è troppo ottimista. In tutti i tempi moltissimi hanno scritto poesie, c’è stata un’epidemia continua. Poi il tempo, come diceva Martini, ha provveduto ad una drastica scrematura, e noi vediamo oggi solo il meglio (o il meglio del peggio) del passato. Il fatto che nel presente le librerie trabocchino di poesie è dovuto al fatto che il tempo non è ancora intervenuto con le forbici, anzi, oggi con il tagliaerba e la motosega. Bisogna solo lasciarlo lavorare e poi si vedrà. E nel superfluo tagliato, scremato, temo che finirò anch’io.

Tutti i poeti scrivono poesie sotto copertura, come gli agenti segreti, le spie. Infatti, come si fa a scrivere sul passaporto, come professione, “poeta”. Difatti Montale non si è sentito a suo agio finché non l’hanno assunto al Corriere della Sera come giornalista, e allora poteva scrivere sul passaporto “giornalista”, e la sua copertura era assicurata. Figuratevi un dilettante come me. Un dilettante è ancora più segreto. Però se scrive “versi” invece di “poesie” può restare per sempre sotto copertura.

Altra cosa che spesso non mi soddisfa nei miei versi è la forma. Sempre Montale dice (non so quanto ironicamente), che in poesia quello che conta non è il Contenuto ma la Forma. Visto che da secoli i contenuti sono sempre gli stessi, l’illusione di dire qualcosa di nuovo si ha quando si vestono vecchi contenuti con una forma “originale”. C’è questa originalità nei miei versi?… A me piacerebbe essere uno “stilista dell’usuale”, come dice Dino Risi, ma non è mica facile. Non ci vuole niente a scivolare dall’usuale nel banale, e allora sei fritto.

Ho inserito nel libro anche qualche mio quadro o disegno. Anche in pittura sono un dilettante, e ho approfittato dell’occasione per mettere in mostra qualcosa di quello che non ho mai esposto e mai esporrò in una galleria d’arte. Le gallerie, penso, sono per chi dipinge da professionista. Al massimo io posso farmi delle mostre a domicilio, e questo libro è un esempio del genere.

Ho sentito in proposito in un film americano, una frase che mi ha colpito: non sarà mai vera arte se non la mostri a qualcuno. Altrimenti rimane una terapia personale.
Io credo che anche i miei lavori col pennello o la matita siano una forma di terapia. Sono serviti a guarirmi? Anche questa è una domanda senza risposta.

Mi sbaglierò, ma non credo di avere problemi di identità, malattie di questo genere. Quindi forse a qualcosa sono serviti.

Comunque, anche i quadri e disegni che proietto qui da un DVD sono un’altra delle mie mostre a domicilio. Se non altro, soddisfano il mio narcisismo.

Però in campo figurativo qualcosa avevo già pubblicato. Ho fatto una volta un’incisione a colori in acquatinta (una variante dell’acquaforte) per un’edizione numerata francese dedicata alle traduzioni di poesie di una mia amica, Donatella Bisutti. E vi dirò che una volta mi hanno mandato un bollettino di libri rari francesi, in cui figurava anche la mia incisione, con tanto di prezzo in franchi, cosa che mi ha molto inorgoglito.

Molti anni fa, collaboravo con disegni al quotidiano di Verona, L’Arena. E a riviste locali. E ho illustrato anche un libro di poesie di un amico. Sempre gratis. Così, recentemente, non ho resistito e ho raccolto molti dei miei disegni e me li sono stampati a mie spese in un’edizione per gli amici in un libricino che si chiama Figure, probabilmente, che è venuto di quasi duecento pagine. E figuratevi che è stato recensito. Un’unica recensione, per la verità, ma su L’Espresso, altra cosa che mi ha fatto ringalluzzire.

Se mi permettete vorrei chiudere con dei versi che ho scritto pochi mesi fa quando ho cambiato casa.

Io abitavo a Ruta, sopra Camogli, da solo, in un rustico molto isolato, con un bellissimo panorama del golfo, un bel giardino, alberi, cipressi, fiori, silenziosissimo, al massimo sentivo nella bella stagione la mattina le chiacchiere dei passeri e dei merli. Ci sono stato quasi vent’anni. Poi il mio padrone di casa mi ha triplicato da un giorno all’altro l’affitto e io, che sono un pensionato, ho dovuto cercarmi un’altra casa adatta alle mie possibilità. E l’ho trovata a Lavagna, nel caruggio, zona pedonale. Qui i rumori ci sono, ma sono passi e chiacchiere di gente che passa, che fa la spesa. E mi sono accorto che sto benissimo anche lì.

In questi versi ho parlato di “scatole”. Credo che avrei dovuto parlare anche del “cambiamento”, ma non ci sono riuscito. Il mio è stato soprattutto un cambiamento, un mutamento percettivo. Descrivere la somma dei nuovi dati visivi, tattili, uditivi, che mi raggiungono in un sol colpo, cioè in modo indiviso in quella che è la totalità di me. Questo sarebbe quello che succede alle persone quanto sono soggette a un mutamento ambientale, esistenziale, secondo le teorie della percezione più accreditate.

Questo cambiamento vorrei dirlo in pochi versi, e senza tante complicazioni filosofico-percettive, in modo semplice, una stenografia di un momento della mia vita, ma non ci sono ancora riuscito e probabilmente non ci riuscirò mai. E’ troppo complicato e forse importante solo per me, ma insignificante per gli altri.

Ho visto nell’invito che Massimo mi ha definito FIGURA DEFILATA MA IMPORTANTE. Ohibò.

Defilata mi va bene e penso che mi si addica.

Viene da un termine militare: sottrarsi alla vista e quindi al tiro del nemico.

Non credo di avere nemici ma io per prudenza cerco comunque di tenermi fuori dal tiro.

Invece su importante ho delle perplessità. Riferita a me, non mi piace. Ma penso che Massimo l’abbia usata come una di quelle esagerazioni un po’ bugiarde che si usano in pubblicità e nei manifesti per attirare il pubblico. E allora va bene.