Alcune cose su di lui

Italsider
Intervento alla Convention sull’Industria, Venezia (2008)

Questa è la seconda volta in vita mia che mi capita di dire qualcosa a Venezia sul lavoro di immagine, di costruzione di un’immagine aziendale. Un lavoro al quale ho avuto modo di portare anche un mio contributo negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, quindi roba da modernariato, se non d’antiquariato.

La mia prima volta a Venezia fu nel 1961, ad un convegno sulle Pubbliche Relazioni, che si tenne in un’isola, non mi ricordo quale. Dovevo parlare dell’immagine dell’Italsider, azienda IRI a partecipazione statale, nata proprio in quei mesi dalla fusione tra le due industrie genovesi Ilva e Cornigliano.

Più che da una fusione, però, l’Italsider era nata dalla incorporazione della vecchia, pletorica, ingessata Ilva, la maggiore industria siderurgica italiana, dentro l’ultima nata del Gruppo, la relativamente piccola ma già pimpante e ricca Cornigliano.

Quindi: la piccola aveva mangiato la grande. Significava la vittoria (purtroppo temporanea) dei manager allevati ed eredi spirituali dell’appena scomparso Oscar Sinigaglia, presidente della Finsider, la holding cui facevano capo le aziende siderurgiche dell’IRI. Manager che cercavano di portare avanti la linea della modernità, delle nuove tecnologie, dei nuovi criteri gestionali, insomma per quel movimento di idee e di pratiche che si usava definire allora neo-capitalismo manageriale, contro le tradizionali concezioni protezionistiche dell’industria di Stato.

La “vecchia Ilva” (così la chiamavamo noi), nata alla fine dell’Ottocento, battezzata enfaticamente da Mussolini “la pupilla del Regime”, aveva la direzione a Genova ma stabilimenti in tutta Italia, con decine di migliaia di dipendenti, e fabbricava svariati semi-lavorati d’acciaio, dalle grosse lamiere navali alle rotaie alle travi al tondo per cemento armato, e arrivava al filo spinato e ai chiodi. Tutto il ferro o quasi, insomma. La Cornigliano, invece, era una neonata (era entrata in funzione nel ’53) con i crediti del Piano Marshall, era uno dei simboli della ricostruzione, aveva un solo stabilimento siderurgico “a ciclo integrale” a Genova-Cornigliano, specializzato in un solo prodotto: i laminati piani d’acciaio di qualità in rotoli – un prodotto di massa – fabbricato con modernissime tecnologie americane. Un’azienda gestita con criteri nuovi e molto razionali, che stava avendo ottimi risultati e che sarebbe stata di lì a poco uno dei fattori decisivi per il “miracolo economico” degli anni ’60.

A Venezia nel ’61 cercai brevemente di spiegare che l’immagine che stavamo fabbricando per l’Italsider fresca di nascita era e sarebbe stata un proseguimento e allargamento dell’immagine della Cornigliano, con tutti i problemi molto complessi ma anche molto interessanti che sorgevano dall’estensione a 12 stabilimenti disseminati in tutta Italia di ciò che si era riusciti a realizzare per un solo stabilimento.

Finii quindi per illustrare quello che si era fatto, e come, e da chi era stato fatto, a Cornigliano.

A Venezia nel ’61 non c’erano Gian Lupo Gian ed Eugenio Carmi. Osti vi ha già tracciato un quadro generale della razionalizzazione dell’Italsider, e dopo di me Carmi, artista multiforme chiamato proprio da Osti a fare l’art director (termine allora non in uso da noi) vi parlerà in prima persona di come collaborò a creare, anzi come inventò una immagine visiva moderna, positiva, inconfondibile dell’azienda.

Io vi racconterò solo alcuni aspetti ed episodi di quegli anni, visti dal mio posto di lavoro, di capo ufficio stampa e attività editoriali. Queste erano le mie mansioni “scritte”, perché tutti in azienda dovevano avere compiti chiari, ben definiti nell’organigramma ma poi finii per essere coinvolto in altri impegni, che confesso mi appassionarono molto.

Penso vi possa interessare anche un sommario accenno alla situazione industriale a Genova negli anni ’50, per capire da dove eravamo partiti. Ero allora un giovane giornalista capitato a Genova da Verona, e dirigevo dal 1954 la redazione regionale ligure dell’agenzia ANSA. Naturalmente avevo rapporti anche con le industrie locali, che erano roba grossa. Oltre all’Ilva c’era l’Ansaldo che fabbricava tante cose ma soprattutto navi e impianti per l’energia, c’era la Società Italia che gestiva le linee di navigazione transatlantiche e aveva in mare barche come l’Andrea Doria, la nave ammiraglia della flotta mercantile italiana, e la gemella Cristoforo Colombo. Tutte queste (ma ce n’erano anche altre minori), erano aziende IRI – a noi giornalisti veniva raccomandato di scrivere “a partecipazione statale” – ma insomma erano aziende di Stato.

C’era poi un bel po’ di cospicue imprese private, specie compagnie di navigazione, che avevano interessi in tutto il mondo ma la cui gestione era ancora, quasi sempre, di tipo famigliare. E si capiva anche dai nomi delle loro navi, grandi navi, che erano tutte dedicate ai membri della famiglia, ai nonni, alle mogli, ai figli, alle nipoti.

A Genova in quegli anni c’erano anche le direzioni italiane delle grandi società petrolifere, come la Shell e la Esso, che già si ispiravano ai criteri di gestione di impronta americana, rivisti secondo gli usi locali. Ma in genere tutte le aziende, pubbliche o private, negli anni ’50 erano ancora ispirate ad un certo autoritarismo paternalistico e, nel campo della comunicazione, a modelli arretrati, molto provinciali, basati su rapporti personali, sulla discrezione, direi sulla assenza di informazione. “Non dire niente o il meno possibile” era la regola generale, e io come giornalista avevo non poche difficoltà a lavorare in quella situazione.

Va però tenuto conto che tutte queste imprese operavano in una città in cui le parti in causa erano schierate su posizioni duramente contrapposte. Si dice ancora oggi che a Genova c’è lo “zoccolo duro” della classe operaia, immaginatevi allora.

In questo mondo imprenditoriale molto chiuso e rigidamente schierato irruppe un bel giorno la Cornigliano. Mi ricordo che una mattina trovai nella posta un opuscolo illustrativo della nuova azienda. Si intitolava Introduzione alla Cornigliano. Poche pagine essenziali stampate su un’inconsueta, buona carta – non la solita patinata – un’impaginazione impeccabile, semplicissima ma che mi parve molto raffinata, fotografie perfette, la pianta dello stabilimento era essenziale, chiarissima, sembrava un quadro astratto geometrico; anche i prodotti erano sintetizzati in simboli geometrici, una serie di cerchi concentrici rappresentavano i rotoli d’acciaio, mentre le lamiere erano semplici rettangoli di colore. Una pubblicazione così a Genova, e non solo a Genova, non si era mai vista.

Io avevo già visitato un anno prima, credo, il grande stabilimento, una vera “città siderurgica” sorta sul mare con una titanica opera di riempimento, e la cui costruzione aveva avuto delle difficoltà, con incidenti ed altro, avvenuti però prima che io arrivassi a Genova. Si dicevano molte cose su quello stabilimento, e non tutte positive. L’ottica con cui si guardava il mondo aziendale era influenzata, più o meno in tutti, dalla stampa e dalla letteratura di denuncia, molto ideologizzata, che tendeva a considerare la “condizione operaia” come uno stato di alienazione. Però io ero rimasto a bocca aperta assistendo alle colate della ghisa e dell’acciaio e poi allo spettacolo esaltante della laminazione di un nastro incandescente che andava ad avvolgersi, alla velocità di 100 kilometri all’ora, in un rotolo fumante. Mi avevano impressionato l’efficienza, l’ordine, la pulizia. Ma, alla fine della visita, mi era stato consegnato un opuscolo stampato e impaginato banalmente alla vecchia maniera, con disegni tecnici inseriti dentro. Uno stabilimento così moderno, pensai, e una spiegazione così antiquata. Qualcosa di completamente diverso dall’opuscolo che stavo ora sfogliando.

Telefonai alla Cornigliano per complimentarmi, e scoprii che c’era un nuovo capo ufficio stampa, un napoletano molto simpatico, Aldo Canonici. Novità anche in direzione: c’era un segretario generale, il dottor Gian Lupo Osti, dal quale dipendeva anche l’ufficio stampa. E ora avevano un “consulente artistico” (così si diceva allora) bravissimo, un pittore astrattista ma anche un grafico eccellente. Chiesi di incontrarlo e così conobbi Eugenio Carmi. Eravamo nel 1956. Qualche mese dopo Canonici mi telefonò: pensavano di far uscire una rivista e mi chiedevano di collaborare. Accettai e così divenni un collaboratore, prima dall’esterno e qualche anno dopo, nel ’59, all’interno, prendendo proprio il posto di Canonici, promosso ad altri incarichi impegnativi. Era stato Carmi a caldeggiare il mio passaggio dal giornalismo diciamo “attivo” a quello aziendale (che non è meno attivo, ma che ha finalità diverse), e gliene sono ancora grato. Entravo a far parte di una piccola squadra con la quale avrei lavorato appassionatamente per qualche anno. Un’esperienza molto importante per me, un mondo nuovo che mi si apriva, qualcosa che a andava al di là del giornalismo stesso.

Alla Cornigliano la piccola squadra di collaboratori era formata inizialmente, oltre che da Carmi, da due giornalisti molto validi, purtroppo scomparsi, di cui credo sia giusto fare i nomi.

Arrigo Ortolani era un veneziano, aveva diretto a Genova un bel giornale, il Corriere del Popolo, che aveva minacciato il dominio del Secolo XIX, il tradizionale foglio cittadino, che continua a portare ancora oggi la testata di due secoli fa. Poi però quel giornale era stato travolto dalla clamorosa bancarotta della proprietà.

Un altro giornalista e scrittore era il genovese Luciano Rebuffo. Un giovane molto preparato e politicamente molto “impegnato”, come si diceva allora. Socialista e poi socialdemocratico, ma insofferente delle pastoie politiche. Nel ’58 aveva scritto una bellissima prefazione per un libro, Immagine di una città, che era un omaggio della Cornigliano a Genova, un reportage veramente inedito, con cui il fotografo svizzero Kurt Blum, presentato da Carmi, aveva iniziato la sua lunga e proficua collaborazione all’azienda.

Quanto a Carmi, si era laureato durante la guerra in ingegneria chimica al Politecnico di Zurigo e aveva avuto molte frequentazioni con la cultura artistica e grafica, molto aperta al mondo, di un Paese, la Svizzera, che era avanti di parecchi passi rispetto all’Italia. Nel dopoguerra aveva studiato pittura a Torino nientemeno che con Casorati ma, provvedutosi delle conoscenze tecniche, si era orientato verso tutt’altra tendenza: l’astrattismo (per il momento informale materico). E qui era entrato in conflitto con le idee politiche. Schierato a sinistra, da buon artista del suo tempo, non accettava però la regola del “realismo socialista”.

Carmi, quindi, scontentava tutti. Non piaceva ai comunisti che guardavano a Guttuso e non piaceva alla buona borghesia genovese, ferma alle tradizionali convenzioni figurative.

La scelta di un militante nell’astrattismo come collaboratore evidenzia subito quella che era anche una delle caratteristiche fondamentali di Osti: andare molto spesso contro corrente, ma per cercare il meglio, per trovare soluzioni nuove, originali. Assumere Carmi come consulente artistico aziendale voleva dire mettersi un po’ contro tutti. Ma l’artista portava nel suo bagaglio anche la cultura e i modelli della migliore grafica europea, messi a frutto dalle sue doti di originalità e di gusto infallibile. E su questo non c’era nulla da ridire.

E poi Carmi conosceva tutti, le persone giuste nel mondo artistico e intellettuale non solo italiano. E nel ’57 vinse con un collage astratto il concorso per il manifesto della Triennale di Milano, che allora era un’istituzione “cult”. Va aggiunto che non amava lavorare da solo. Tendeva anzi a coinvolgere in ciò che lo impegnava anche gli amici, artisti e intellettuali che stimava (Osti, sfottendolo, li chiamava “i suoi amichetti”).

E qui devo ricordare che quando entrai in contatto con la gente della Cornigliano mi accorsi con lieta sorpresa che l’atmosfera in cui si lavorava, negli uffici direzionali ma anche in fabbrica, era diversa da quella del mondo aziendale genovese che conoscevo. Dove i rapporti erano molto rigidi e formali, e il rispetto delle gerarchie era tassativo.

Alla Cornigliano, invece, i rapporti erano liberi, aperti e informali, ciascuno poteva proporre e discutere, in un clima creativo, che tendeva a valorizzare il “capitale umano” come chiave della produzione. Mi ricordo che dovetti aggiornarmi con una spolveratura di socio-economisti: Schumpeter, Thorstein Vebler, Galbraith, William White, Whright Mills e compagnia bella. E lo stesso clima rimase anche dopo la fusione con l’Ilva, che apportò all’azienda persone di grande capacità, a riprova che tutto sta nel creare situazioni aperte, in cui ciascuno possa esprimere il meglio di sé. Era il “modello americano” trasferito in Italia, e funzionò, come aveva già funzionato, con criteri analoghi, alla Olivetti. Che era anche stata la prima a compiere – e questa fu un’iniziativa originalmente italiana – l’operazione di trapianto di energie intellettuali dalla cultura letterario-umanistica a quella industriale, negli uffici stampa, delle relazioni pubbliche e del personale.

Alla Cornigliano quella concezione non solo fu adottata ma fu sviluppata in senso altrettanto originale, e divenne parte della cifra stilistica dell’azienda, non solo nella comunicazione verso l’esterno, ma anche all’interno. La presenza di Carmi significò per prima cosa l’irruzione del colore anche nel grigiore degli uffici, come componente psicologica “positiva” indispensabile per poter “lavorare meglio, lavorare bene”. Nessuno lo aveva ancora fatto.

In uno dei “Maigret” di Simenon uscito alla fine degli anni Venti, Il porto delle nebbie, il nostro ispettore entra, in Normandia, in un ufficio, squallido come tutti gli uffici. “I muri erano tappezzati di registratori di un verde lugubre”, scrive Simenon. Ebbene, trent’anni dopo, a Genova tutto era ancora così. I raccoglitori delle carte magari erano grigi, ma l’atmosfera era la stessa. Carmi propose: cambiamo tutto. E così, classificatori, cartelline per tenere i documenti e altri oggetti d’uso comune negli uffici si vivificarono di allegri cromismi. Cosa che piacque moltissimo a tutti, tanto che presto la direzione dovette intervenire a calmare le richieste di tante sezioni e compartimenti aziendali, ciascuno dei quali era desideroso di identificarsi con una cartellina, un colore, un segno particolare. E lo stesso si cercò di fare anche in fabbrica. L’esempio dei cartelli di sicurezza di Carmi è un classico. Ma lo stesso si fece anche con i cartelli che raccomandavano di seguire le norme di qualità, che sono meno noti, ma altrettanto suggestivi ed efficaci nel loro impatto essenziale di colore, segno e parola. E nella scuola di addestramento della Cornigliano, le decine di pannelli d’acciaio smaltato con un segno astratto di Carmi non erano meno efficaci, ed entusiasmarono anche un critico severo come Gillo Dorfles.

Qualcuno dirà: formalismi. Ma qui la forma tendeva a coincidere con la sostanza, con li contenuto, questo era il bello, finché poté durare.

Quanto all’esterno, le cose da dire sarebbero tante. Sintetizzando: noi non avevamo beni di consumo da proporre al pubblico, non avevamo problemi di packaging, che sono pane quotidiano della pubblicità e del design. La nostra produzione era “di massa” solo perché potevamo soddisfare la “fame d’acciaio” in crescita in Italia e porre a disposizione di altre industrie utilizzatrici – fabbriche di automobili, di motorette, di elettrodomestici, di scatolame, industria edilizia eccetera – semilavorati in grande quantità, di ottima qualità e a prezzi convenienti. Noi dovevamo vendere la nostra immagine non soltanto ai potenziali acquirenti, ma anche a tutto il pubblico, a tutti gli italiani, dire quanto eravamo moderni e bravi, e utili alla collettività.

Però una lamiera, un rotolo d’acciaio, erano cose astratte da rappresentare, emblematizzarle era un problema d’astrazione. Rivolgersi ad un artista astrattista, appunto come Carmi, poteva essere la soluzione.

Carmi capì subito cosa si voleva da lui, offrì le soluzioni giuste e nuove e ne intuì gli utili corollari. Per significare che eravamo un’industria d’avanguardia in ogni campo, disse, occorreva ricorrere ad un elemento di paragone che nessun’altra azienda aveva usato in modo così sistematico: l’arte, e in particolare l’arte che lui riteneva assolutamente propria del nostro tempo: l’arte astratta. E più in generale il nostro stile aziendale doveva identificarsi con l’alta qualità di tutte le nostre scelte, degli oggetti simbolici che sceglievamo per rappresentarci.

L’equazione da dimostrare era quindi: arte d’avanguardia eguale industria d’avanguardia. A quel tempo però non potemmo sfruttare questa semplice formula-slogan, che purtroppo mi venne in mente solo più tardi, quando eravamo ormai nell’epoca delle rievocazioni. Ma sebbene non formalizzata, l’equazione era ben presente nella sua sostanza, in modo naturale, indiscutibile, a Carmi, che la trasfuse in tutti noi. Su questa base nacque l’immagine globale o meglio lo “stile” della nuova azienda, fondato su pochi, essenziali elementi grafici, ma improntato sistematicamente all’eccellenza della qualità in ogni campo.

Da lì lo sviluppo di tante proposte, che suscitarono allora molto interesse e talvolta anche polemiche. Ricordo che una delle prime iniziative importanti alla Cornigliano, in quel momento interessata alla diffusione dell’impiego dell’acciaio nell’edilizia, fu nel 1959 la sponsorizzazione di una mostra a Roma, al Museo d’arte moderna di Villa Giulia, che si intitolava Forme e tecniche nell’architettura con temporanea. Venivano poste a confronto le teorie e le realizzazioni di un urbanista funzionalista come Le Corbusier e di uno strutturalista come Konrad Wachsmann. Proposte che hanno resistito al tempo e che ora mostrano, ne sono certo, la loro validità.

Carmi vi parlerà certo di una delle iniziative più note, la mostra del 1962 a Spoleto Sculture nella città: dieci scultori famosi internazionalmente chiamati a realizzare liberamente, come volevano, grandi sculture d’acciaio nelle nostre fabbriche, insieme ai tecnici e agli operai. Da quella esaltante esperienza, a me vennero anche alcune “rogne”. La nostra capogruppo Finsider, preoccupata di un nostro intervento ad una manifestazione che si prestava a molte critiche (qualcuno diceva addirittura che il festival di Spoleto era solo una banda di omosessuali, era un’eresia mescolare con loro noi “uomini d’acciaio”), ci aveva imposto il silenzio fino all’inaugurazione. Giornalisticamente era una grossa notizia, ma dovemmo stare zitti. Comunque mi preoccupai perché tutto il lavoro di costruzione delle sculture venisse documentato. Dissi al fotografo Ugo Mulas: “Va dove vuoi e fotografa quello che vuoi, ma non ne parlare in giro”. Non credeva alle sue orecchie, ma obbedì e realizzò delle fotografie straordinarie.

Avevamo notevoli spazi di libertà nel nostro lavoro. Per esempio, in una riunione con i tecnici dello stabilimento di Savona, dove sarebbe stata realizzata Teodelapio, la scultura dell’americano Alexander Calder, che ce ne aveva mandato un modellino, Carmi disse: “Fatela grande, mi raccomando”. E io aggiunsi: “Magari che ci possa passare sotto un autotreno, così diventa una porta di Spoleto”. Un ingegnere tirò fuori il regolo (allora non c’erano ancora i calcolatorini tascabili) e disse che sarrebbe venuta alta 18 metri per 14 e che bisognava studiare delle controventature, saldargli uno scheletro per tenerla su. Così fu fatto, d’accordo con Calder, che era tra l’altro anche lui un ingegnere, e Teodelapio è ancora là ben salda a Spoleto, credo che sia la più grande scultura in ferro del mondo.

Potrei parlarvi di molte altre iniziative, ma per ciascuna ci vorrebbero i 20 minuti concessimi.

La Rivista Italsider nacque alla fine del 1960, sei mesi prima della costituzione della società Italsider. Subentrò, con un progetto più impegnativo e ambizioso, a Cornigliano Rivista, che usciva dal ’57, sempre con grafica di Carmi, e che aveva trovato un’accoglienza molto favorevole, per la veste e anche per il contenuto. Ci ispiravamo anche a Civiltà delle macchine di Sinisgalli, che aveva tra l’altro pubblicato per la prima volta qualche copertina di astrattisti. La nuova rivista bimestrale, massimo 48 pagine, era diretta a tutti i 37.mila dipendenti e ad altre migliaia di selezionati lettori esterni (arrivammo a stamparne 50.mila copie) e aveva essenzialmente due obiettivi: quello interno era di contribuire a creare, tra il personale di due società aventi tradizioni, strutture e politiche diverse, un clima aziendale positivo e unitario; quello esterno era di far conoscere la nuova impresa e suscitare attorno ad essa interesse e simpatia. Al primo scopo dovevano contribuire anche Notiziari mensili redatti, su uno unico schema di impaginazione studiato da Carmi, in ciascuno dei 12 stabilimenti e rivolti principalmente alla vita e ai problemi locali.

In copertina proseguimmo a pubblicare opere di artisti non figurativi del tempo, qualcuno allora pressoché sconosciuto ma oggi famoso, come già si era fatto nell’ultima annata di Cornigliano Rivista, dove però si sceglievano lavori in cui veniva impiegato il metallo. Ora si era esteso il campo ad ogni materiale. Qualche eccezione figurativa (ma erano Alberto Savinio e Carlo Levi!), confermava la regola. Per la copertina del primo numero della nuova rivista fu commissionata a Gino Severini un’opera originale: un omaggio ai “valori plastici della tradizione futurista”, come scrisse poi il critico Pierre Restany.

Allargammo il ventaglio dei temi trattati, di interesse aziendale specifico o generale, cercando di comporre, numero dopo numero, un ritratto non convenzionale, qualche volta provocatorio, del nostro tempo, del mondo in trasformazione, avendo presente che ci rivolgevamo ad un pubblico eterogeneo, con diversi livelli culturali. Qualcuno ci accusava di eccessivo “sociologismo”, ma in fondo la cosa non ci dispiaceva.

A grandi linee, i tre temi di fondo erano: valorizzare il ferro in tutte le sue applicazioni in tutti i tempi; cercar di stabilire rapporti tra arte e tecnica; agitare problemi di attualità in qualche modo collegati con la vita aziendale.

Permettetemi di citare un giudizio sulla rivista di uno studioso della comunicazione come Ignazio Weiss. Secono il quale i due concetti direttivi che la ispiravano erano: “discrezione e coraggio”. Discrezione perché – diceva Weiss – “il superficiale lettore non si accorgerebbe che si tratta di una pubblicazione aziendale”. E aggiungeva che i temi erano sempre trattati con mano leggera senza atteggiamenti paternalistici e pedagogici. Per i lettori meno preparati, illustrazioni e didascalie, di cui ci preoccupavamo molto, offrivano un primo livello informativo, senza venir meno alla qualità. Potrei aggiungere altri giudizi positivi sul “coraggio”, ma questo lo lascio a Carmi.

Non credo di essere una persona particolarmente coraggiosa, ma stimolato da Carmi mi avventuravo anch’io in proposte inconsuete, sapendo che lui, meno vincolato aziendalmente e per il suo carattere, mi avrebbe sostenuto. E poi sopra di noi c’erano altri ombrelli a proteggerci. La capogruppo Finsider aveva preteso che il capo delle P.R. da cui dipendevamo, fosse un suo uomo di fiducia mandato da Roma, Lucio Savarese. Che però fu subito coinvolto dal nostro entusiasmo e per alcuni anni fu in sintonia almeno con me, se non con Carmi. E sopra di tutti c’era Osti (nel frattempo diventato direttore generale), che ci parava i colpi.

Discutevamo molto tra di noi per le illustrazioni degli articoli. Le opere astratte erano perfette in copertina, dicevano la nostra “modernità”, l’attenzione alla “materia” del lavoro siderurgico (ma su questo lascio parlare Carmi) Nelle pagine interne occorreva invece rappresentare le persone che lavoravano. Per questo ci sono piuttosto i fotografi, diceva Carmi (e di fotografi ne utilizzammo di bravissimi, da Blum a Mulas a Patellani eccetera). Ma ci volevano anche degli artisti in qualche modo figurativi. Trovarne di buoni non era facile. E Carmi esigeva sempre la massima qualità. A Genova disponevamo della fantasia solare di Lele Luzzati e del segno depresso, notturno, di Flavio Costantini, che ci diede perfette, sin troppo perfette, rappresentazioni dell’alienazione operaia, che suscitarono qualche critica. Credo poi che Bruno Caruso, Giacomo Porzano e Riccardo Manzi abbiano fatto per noi alcune delle loro cose più interessanti, stimolati anche dalla libertà che gli lasciavamo.

Tra le iniziative culturali dell’azienda non si possono non ricordare i libri. Ho già parlato di Immagine di una città al quale seguì nel ’59, ancora alla Cornigliano, Immagine di una fabbrica, cento fotografie in bianco e nero, ancora di Kurt Blum, scattate nello stabilimento di Cornigliano, svincolate da ogni preoccupazione tecnico-aziendale, che interpretavano perfettamente lo spirito e il senso della fabbrica: Ottima la copertina con un segno “materico” di Carmi. Fu il primo libro-strenna distribuito a tutto il personale. Seguirono, all’Italsider, altri libri-strenna confezionati apposta, tra cui uno, Cinque modi per conoscere il teatro, nel ’62, prese le mosse da un’iniziativa che portò il Teatro Popolare Italiano di Vittorio Gassman in tournée in tutti gli stabilimenti con cinque opere teatrali, da Shekespeare a Ionesco.

Erano libri-omaggio, quindi non ancora veri “libri” da comperare. In una seconda fase, Osti propose di stimolare i dipendenti-lettori ad acquistare i libri. Si promosse una grande inchiesta interna “per una biblioteca”: argomenti di lettura preferiti, tipo di libro, prezzo eccetera. Più dell’86 per cento del personale rispose di volere più libri, non in regalo, ma da acquistare a basso costo.

Peccato, a questo punto, che non sia qui Gianpaolo Gandolfo, che si aggiunse più tardi al gruppo di Osti e che gestiva i rapporti con il personale, i circoli aziendali eccetera, e fece un ottimo lavoro. Fu lui a occuparsi della realizzazione di una collana economica di libri pensata per il personale dell’Italsider. Mi ricordo che organizzammo anche un incontro con gli editori italiani per chiedere la loro collaborazione. Con nostra lieta sorpresa aderirono quasi tutti i più importanti. C’era il conte Bompiani con il suo consulente letterario, il giovane Umberto Eco (che era un “amichetto” di Carmi), c’era Laterza, Boringhieri, Garzanti, se non ricordo male anche Feltrinelli. Era il momento in cui stavano per nascere in Italia le grandi collane di “tascabili” e tutti erano interessati. Fu per noi una conferma che ci prendevano sul serio.

La nostra piccola collana si componeva di dieci libri l’anno in uscita mensile, più un libro-strenna natalizio. Il personale si “abbonava” con 1000 lire, che venivano trattenute sullo stipendio a rate di 100 lire al mese. Fu costituito un comitato redazionale di cui facevano parte impiegati e operai di varie tendenze. Come primo libro scegliemmo su licenza Einaudi una ristampa dell’Italia contemporanea di Federico Chabod. Direi che fu un grosso successo. E andò avanti per qualche anno, fino alla crisi di cui vi ha parlato Osti.

Per il Natale 1963 facemmo un libro-strenna da regalare solo all’esterno che personalmente mi diede altre rogne. Avevamo in archivio moltissime fotografie di tanti fotografi italiani e stranieri che avevano eseguito servizi nei nostri stabilimenti. Affascinati dai colori delle colate, delle lavorazioni, dei prodotti, delle fabbriche stesse, avevano ripreso anche molte suggestive immagini, al limite dell’astrazione, spesso rimaste inutilizzate. Dissi a Carmi: “Perché non le usiamo per un libro-strenna?”. L’idea gli piacque, e la sviluppammo nel volume I colori del ferro, che partiva dalle microfotografie sulla struttura del metallo fino ai segnali, ai simboli, ai dettagli delle opere d’arte in acciaio. Un libro che conteneva anche interessanti immagini post-informali. Prefazione di Umberto Eco, che oggi trovate nel suo volume di saggi La definizione dell’arte. Per le didascalie, che dovevano essere rigorosamente tecniche, senza svolazzi estetici, ricorremmo a un poeta-ingegnere della Terni, Gino Papuli, che sapeva tutto sul ferro. Il libro era evidentemente avanti rispetto ai tempi, e a Roma protestarono. Certe stupende fiancate di carri ferroviari arrugginiti evocavano l’astrazione, ma la ruggine era invisa ai siderurgici. Oggi quel libro lo trovate nella biblioteca del Museum of Modern Art a New York, ma Osti ebbe il suo daffare per evitarmi il licenziamento.

Facemmo naturalmente anche molti film diretti da registi importanti, da Emmer a Orsini ai fratelli Taviani, con testi di Buzzati e di Oreste Del Buono. Ma di questo settore si occupò particolarmente Savarese con un consulente, il critico cinematografico Claudio Bertieri, entrato a far parte del nostro gruppo di lavoro. Va però aggiunto che già in precedenza, nel 1959, Carmi e Blum avevano realizzato un breve documentario, L’uomo il fuoco e in ferro, girato a Cornigliano e nelle ferriere Fiat, che proponeva una rappresentazione del lavoro siderurgico nuova e originalissima, tanto da meritare il massimo premio del documentario industriale proprio qui a Venezia, nell’ambito della XXI Mostra del Cinema.

Ma a proposito di Mostra del Cinema, concluderò ricordando che proprio all’ultima edizione, due mesi fa, fu presentato qui al Lido il film di Gianni Amelio “La stella che non c’è”, ispirato alla chiusura dello stabilimento Ilva di Bagnoli, a Napoli. Osti vi ha parlato della fine confusa e ingloriosa dell’Italsider, sostituita, ironia della sorte, da una Nuova Ilva in dismissione. Il film finiva infatti in Estremo Oriente, dove un tecnico napoletano, impersonato da Sergio Castellitto, inseguiva un altoforno venduto ai cinesi per raccomandare l’uso di un apparecchietto da lui costruito e, a suo parere, indispensabile al funzionamento dell’impianto. Una sciocchezza, e difatti i cinesi prendevano l’apparecchietto e lo buttavano nella spazzatura.

Secondo me, la trama del film è molto debole, basata su un proseguimento del tema della chiusura di Bagnoli, sviluppato nel romanzo La dismissione dello scrittore napoletano Ermanno Rea. Il film è interpretato peraltro da attori bravissimi e ha alcune scene molto intense che documentano le incredibili condizioni dell’ambiente attorno allo stabilimento cinese. Scusatemi, sarò prevenuto, ma mi sembra proprio che con l’Ilva non si riesca a combinare niente di buono.

Carlo Vita