Alcune cose su di lui

Galleria del Deposito
Boccadasse, la stanza dell’immaginazione

Il Gruppo Cooperativo di Boccadasse si costituisce a Genova il 3 settembre 1963, nello studio di Via Roma del notaio Luigi Masnata. Due mesi e mezzo dopo, il 23 novembre, il gruppo inaugura a Boccadasse la Galleria del Deposito. Le date “storiche” sono queste.

Perché una cooperativa, e perché a Boccadasse? La risposta alla seconda domanda è più semplice: Eugenio Carmi nel ’63 abita e lavora qui, nel vecchio borgo di pescatori a levante di Genova.

Carmi è già da qualche anno “art director” (ma l’espressione non si usa ancora da noi), dell’Italsider, è uno dei pochi membri italiani dell’Alliance Graphique Internationale, è già apprezzato come pittore astrattista informale e ha moltissimi amici nei punti strategici del mondo. Ma è impaziente di fare di più.

Una sera d’estate, mentre passeggiamo con Lele Luzzati e Flavio Costantini in Piazza Nettuno, la spiaggetta di Boccadasse ingombra di barche in secco, Eugenio, con il suo consueto tono entusiasta, esclama che “bisogna fare qualcosa di nuovo”. E ripete quello che mi va dicendo da un paio di giorni: produrre della grafica, degli oggetti, suoi e di altri artisti amici italiani e stranieri, disposti a condividere esperienze non ancora tentate. “Questo è il momento giusto, e questo è il posto giusto per farlo”, conclude icasticamente. E noi siamo tutti d’accordo.

Se si pensa a quella che sarà poi la produzione e l’attività espositiva del Deposito, si vede subito che il momento è senz’altro giusto, ma che tutto ha poco a che fare con il paesaggio locale. Tuttavia Carmi, innamorato (come del resto ognuno di noi) di Boccadasse, ha in più la certezza, abitandovi, che questo posto può diventare l’ombelico del mondo.

Eugenio ha sempre cercato di coinvolgere nelle sue passioni gli amici e di far partecipe delle loro qualità, del loro talento, più gente che fosse possibile. E Umberto Eco scriverà tra qualche anno che la sua tendenza a coordinare grafiche e produzioni altrui, la sua curiosità visiva, tradiscono “l’allenamento a una natura industriale a cui – come tanti di noi – è stato condizionato”. Ma “produrre qualcosa” a Boccadasse, lontano dall’industria, in questa piccola enclave di genuinità e di spontaneità sopravvissuta nella città che avanza, vuole anche significare per Carmi un modo nuovo di “fare arte” e di venderla.

Ma come fare? Si discute parecchio, durante l’estate, tra noi e con altri amici (si diranno tra poco i nomi). Quali artisti scegliere, che cosa produrre, con quali tecniche. E dove esporre e vendere le produzioni. Costituire un gruppo di tendenza o che altro? Su un punto concordiamo tutti: l’attività comune, quale che sia per essere, non deve proporsi intenti speculativi. Da questa premessa, la formula cooperativa di associazione appare come l’unica accettabile. E’ bello fondare una cooperativa d’arte.

Dalle parole si passa speditamente ai fatti, come l’impazienza di Eugenio richiede.

Nove è il numero minimo di persone fisiche necessarie, secondo la legge italiana, per fare una cooperativa. Le nove persone che il 3 settembre del ’63 compaiono davanti al notaio per sottoscrivere le carte bollate e versare la quota di associazione, costituiscono tecnicamente un gruppo. Ne fanno parte tre pittori (Eugenio Carmi, Flavio Costantini e il romano Achille Perilli), una scultrice-orafa (Kiky Vices-Vinci, moglie di Carmi), un critico-editore d’arte di Venezia (Bruno Alfieri), un fotografo-regista svizzero (Kurt Blum), uno scenografo-ceramista-autore di cartoni animati (Emanuele Luzzati), un designer italiano a Londra (Germano Facetti) e un giornalista passato all’industria (Vita Carlo Fedeli). Alcuni abitano lontano e in paesi diversi, fanno mestieri diversi e hanno idee talvolta divergenti sul modo di fare e di “vedere” l’arte. Ma sono amici, si stimano reciprocamente e possono mettere in comune una determinazione non ancora ben definita nei dettagli ma ferma: unire le proprie forze, gli interessi e le esperienze differenti per realizzare insieme qualcosa di nuovo.

Dopo il cosiddetto delirio informale, in tutto il mondo gli artisti stanno muovendo i primi passi su strade che ci si preoccupa di chiamare “nuove”: nuova figurazione, neodada, nouveau réalisme, nuove tendenze percettive. Nella produzione del gruppo – grafiche e oggetti – si dovrà far posto a molte esperienze artistiche, purché valide e innovatrici, affinché la gente veda com’è la nuova arte, per quali diversificate vie si possa continuare a fare arte.

Quanto alle tecniche, Carmi è in questo momento interessato alla serigrafia, di cui ha visto eccellenti risultati a Zagabria, nel laboratorio dello stampatore Brano Horvat. Procedimento millenario cinese, largamente impiegato dall’industria nei tessuti e per molti altri usi, questa tecnica appare ora un mezzo efficacissimo e ancora artigianale per moltiplicare, in modo relativamente economico ma perfetto, opere di artisti di ogni nuova tendenza, concepite naturalmente in funzione del mezzo serigrafico.

La serigrafia va bene per stampare campiture piatte e uniformi di colori squillanti, collages di carte spiegazzate, fotografie strappate dai giornali, lettere d’alfabeto. Va bene per i segni geometrici netti degli astrattisti concreti svizzeri, per le strutture e le testure degli op-artisti, per le pennellate d’istinto dell’action painting, per le contaminazioni della pop-art.

La Galleria del Deposito

Prima di “produrre”, occorre rispondere all’altra domanda: dove esporre le produzioni. Il problema si risolve subito, perché al numero 3 di Piazza Nettuno offrono per modesto canone un locale di metri 4 per 5 per 6, con retrobottega, in precedenza adibito a deposito di carbone. Lo si affitta immediatamente.

Ora che abbiamo il posto, altre decisioni premono: se farne semplicemente la sede della cooperativa o addirittura una galleria nella quale, oltre alle produzioni del gruppo, si possano esporre anche altre opere, organizzare mostre informative di artisti e di tendenze. Si decide per la seconda ipotesi e il locale è battezzato, a ricordo della pregressa carbonaia, Galleria del Deposito.

Si stabilisce ancora che l’attività del gruppo e della galleria sarà portata a conoscenza di un cospicuo numero di lettori in Italia e nel mondo per mezzo di un foglio mensile in italiano e in inglese, all’insegna della massima economia: due o al più quattro pagine, tutte in bianco e nero. A colori stamperemo invece, in tirature ridotte, piccoli cataloghi delle produzioni facilmente aggiornabili. Ampio spazio sarà riservato in ogni numero del notiziario alle attività dei soci, comunicateci mediante una scheda appositamente predisposta.

Arrivano subito importanti adesioni. Gillo Dorfles è il primo ad affiancarsi ai nove fondatori, seguito da Vera Horvat Pintaric, giovane storica dell’arte all’Università di Zagabria, già internazionalmente nota agli addetti ai lavori per il suo interesse alle nuove tendenze dell’arte contemporanea. Tra i primi ad associarsi è anche l’amico Mario Gavello, alto dirigente dell’Italsider, la cui esperienza manageriale è un prezioso aiuto per il socio amministratore e direttore della galleria, Paolo Minetti.

La presenza di Gavello, semplice appassionato d’arte, fa sorgere l’erronea convinzione che il gruppo goda di segrete sponsorizzazioni “industriali”. In realtà la cooperativa riesce sempre a vivere esclusivamente con le proprie forze. L’Amministrazione della Provincia di Genova è l’unica ad offrire, aderendo ad una proposta del Deposito di realizzare in città una mostra di “sculture mobili nel vento”, un assegno di 200 mila lire, prontamente restituito quando si fa evidente che l’iniziativa non può avere seguito.

Sedici quadri blu

“Iniziare col rosso? col verde? col nero? E perché non col blu? – si è detto il “Gruppo Cooperativo di Boccadasse”. Il blu – oltretutto – come già Goethe affermava nella sua “Farbenlehre”, – produce nell’occhio una particolare e pressoché indescrivibile azione: è, in questo colore, una energia […] costituisce una contrapposizione tra eccitamento e riposo”.

Così si apre il primo scritto di Gillo Dorfles sul primo numero del notiziario, uscito in occasione della prima mostra della galleria, 16 quadri blu, inaugurata alle ore 21 del 23 novembre 1963. Gli artisti invitati sono Max Bill, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Enrico Castellani, Marc Chagall, Piero Dorazio, René Duvillier, Lucio Fontana , Sam Francis, Getulio Alviani, Gottfried Honegger, Achille Perilli, Paul Raclé, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Victor Vasarely.

“Non si può dunque parlare – scrive Dorfles – di una mostra di “tendenza”, ma neppure di una mostra aperta ad ogni tendenza. Giacché – e questa dovrebbe essere la funzione del Deposito – si è cercato e si cercherà di raccogliere qui tutto ciò che di vitale viene offerto dall’arte d’oggi, senza voler giungere alla formulazione di raggruppamenti incolonnati e senza voler escludere la presenza di personalità affermate, ove queste rivelino ancora una sufficiente carica vitale.”

A conferma e completamento delle parole di Dorfles, il notiziario presenta il gruppo in un breve testo programmatico: “E’ proposito della galleria di costituire un punto di incontro fra artisti e pubblico non soltanto con lo strumento di informazione costituito dalle mostre periodiche, ma anche rendendo possibile ad un più vasto numero di persone l’acquisto a prezzo accessibile di opere di artisti contemporanei. A tale scopo una particolare cura sarà dedicata dalla galleria alla edizione di opere grafiche in limitato numero di esemplari (litografie, serigrafie, incisioni) e di oggetti firmati in esemplare unico (oreficeria, ceramiche, smalti, foulard) o realizzati in piccola serie con l’impiego di nuove tecniche e nuovi materiali che vanno allargando le esperienze nel campo delle arti visuali”.

Al centro della piccola sala del Deposito col pavimento di vecchie piastrelle spicca Eridan, un grande quadro blu e nero, la prima opera di Vasarely mai esposta a Genova. E’ giunta per posta in tanti piccoli pezzi, in una semplice busta contenente anche lo schema del quadro e le istruzioni per comporlo, incollando nell’ordine prestabilito su un grande foglio di comune cartoncino nero i vari elementi modulari serigrafati e fustellati a macchina.

Konrad Wachsmann

Il montaggio dell’Eridan è stato eseguito in una sera nello studio dell’architetto Konrad Wachsmann, che in questo momento abita a Genova¸ in Corso Italia e sta progettando per l’Italsider un grattacielo direzionale da costruire nel centro storico, che mai si farà. Wachsmann ha seguito da vicino la nascita della cooperativa e della galleria, dibattuto fra sentimenti di entusiasmo per l’iniziativa e di scetticismo sulle sue possibilità di successo. Il teorico dell’architettura infinita non può che condividere le idee del gruppo, ma il rigoroso professore, collaboratore di Walter Gropius in America, carico di un passato di realizzazioni e di docenze prestigiosissime, dalla Scuola di Ulm al Department of Advanced Building Research di Chicago, fa i suoi calcoli. Matita alla mano, dimostra che svolgere l’attività preventivata dal nostro sodalizio, con i limitatissimi mezzi di cui esso dispone (in pratica, le quote molto modeste che ciascuno ha sottoscritto), è “semplicemente pazzesco”.

Se si scorre l’inventario, si vede che le attrezzature del gruppo consistono di: 1 scrivania, 1 armadio piccolo stile Ottocento, 1 cassa-baule con spigoli in ferro, 1 sedia tipo Thonet con braccioli, 4 sgabelli, 1 macchina per scrivere Olivetti T40, 1 insegna di ferro dipinta. Tutto materiale di seconda e terza mano acquistato alla benemerita Opera Pia di Pompei, tranne l’insegna. Questa è stata eseguita da un artigiano nello stile classico delle insegne, riprendendo il “logo” della galleria, composto con vecchi caratteri tipografici. Si vuol dare un esempio di rispetto dello spirito del luogo e di un “arredo urbano” in armonia con l’architettura spontanea di Boccadasse.
Wachsmann esclama che è “absurdo” e contraddittorio arredare così un ambiente in cui si vuole produrre ed esporre “opere valide come espressione del nostro tempo” Gli viene obiettato che quando l’Opera Pia venderà a prezzi d’occasione mobili d’acciaio inossidabile, cristallo e materiali presso-fusi disegnati da grandi architetti, si correrà a comprarli.

Alla fine anche Wachsmann, pur non associandosi al gruppo, è contagiato dall’entusiasmo dei cooperativisti. Accade così che per sistemare le quattro pareti della galleria e i mobiletti (dipinti tutti di nero da Kiky), il Deposito può avvalersi della consulenza dell’architetto che ha progettato negli anni Venti la casa di vacanza di Albert Einstein e più tardi, durante la seconda guerra mondiale, gli enormi hangar modulari dell’aviazione USA.

Wachsmann fa anche un’altra bellissima cosa. Accetta di aprire la serie delle produzioni della galleria con dieci litografie, che costituiscono (assieme ad una successiva serigrafia), le uniche opere grafiche da lui realizzate. Litografie che egli vuole prodotte “con mezzi meccanici e scientifici e procedimenti automatici, senza intervento artistico”, stampate a macchina come un manifesto o l’etichetta di un liquore. Accetta l’edizione di un numero limitato di copie come una soluzione assolutamente provvisoria, che non ha per lui, assertore di una modularità architettonica illimitata, alcun interesse, se non quello della contingente corrispondenza alla richiesta di un mercato ristrettissimo.

La mostra dei quadri blu ha un notevole successo. La fotografia di Boccadasse scattata da Blum per il primo numero del notiziario, con in fondo il Deposito e la sua insegna tra le barche, è un suggestivo richiamo. Anche il testo bilingue costituisce un importante fattore di comprensione-diffusione all’estero della nostra attività (l’esempio sarà poi seguito da altri).

Molto significativa e preziosa è la presenza di Dorfles, che viene volentieri a Genova dove ha trascorso gli anni giovanili. A Boccadasse si siede su un muretto o su una barca in riva al mare, valuta e approva le nostre idee, ma anche consiglia, propone, corregge i nostri testi. Sembra un’immagine agiografica inventata, ma è successo davvero così.

Le serigrafie

In un piccolo magazzino vicino alla galleria, con mezzi elementari ma con grande perizia, Brano Horvat stampa una prima serie di grafiche. Non è esagerazione dire che l’interesse che si sviluppa in Italia per la serigrafia d’arte negli anni ’60 è dovuto a quanto si fa a Boccadasse, alla scelta rigorosa degli artisti e delle opere, ma anche alla qualità dell’esecuzione. Nel momento in cui il Deposito inizia la sua produzione, le serigrafie non hanno mercato in Italia, non “esistono” addirittura come fatto artistico. Le rare che circolano sono episodi isolati. Anche tra gli intenditori, pochi ne hanno sentito parlare. E quei pochi guardano ancora alla serigrafia con sospetto.

La prima serie di grafiche comprende opere di Carmi, Costantini, Capogrossi, Perilli, Sutej, Alviani, Vasarely. Questi due ultimi entrano a far parte del gruppo. Con le lito di Wachsmann e un rilievo di Castellani, già nel giugno ’64 il Deposito può presentare, alla sua ottava mostra, 19 opere grafiche, che successivamente sono esposte in molte gallerie, in Italia e all’estero.

La serie si amplia progressivamente con altre serigrafie di Max Bill, Richard P. Lohse, Arnaldo Pomodoro, Marcello Morandini, Jesus R. Soto (che entrano tutti a far parte della cooperativa), di Lucio Del Pezzo e Winfred Gaul.

Si uniscono al gruppo il critico Germano Beringheli, il designer Giulio Gonfalonieri, lo scultore croato Dusan Dzamonja e Germano Celant, un giovane promettente.

Lucio Fontana prepara per il gruppo tre dei suoi “concetti spaziali”, che sono le sue prime opere grafiche con buchi ottenuti meccanicamente: Fontana entra nel sodalizio più tardi, nel 1967, e viene ad allestire al Deposito un “ambiente spaziale”. Nonostante il cuore malato, si arrampica su una scaletta, impeccabilmente elegante e sorridente come sempre, e traccia i suoi segni sulla tela nera predisposta a ricoprire le pareti. Una linea di punti, che diventa fluorescente sotto la luce della lampada di Wood. E’ una delle ultime mostre di Fontana. La fotografia che lo ritrae mentre prepara il suo “spazio” è scattata la mattina, e nel pomeriggio è già stampata sul notiziario per l’inaugurazione della mostra. Questo “ambiente” di Fontana è ora in Francia, nella collezione del museo d’arte moderna di Lione, ed è uno dei pochissimi originali del genere che si siano conservati.

Sempre nel ’67 esce una nuova serie di serigrafie nel formato 40 per 40: sette cartelle con opere di Bill, Baj, Carmi, Del Pezzo, Dorazio, Perilli e Karl Gerstner (anch’egli entrato nel gruppo).

I multipli

Il programma produttivo del Deposito non prevede solo la grafica ma anche gli “oggetti moltiplicati”, sui quali si va aprendo nel mondo dell’arte un tormentoso dibattito. Nella piccola galleria di Boccadasse, la sera, durante le riunioni del consiglio direttivo, riecheggiano i grandi esempi del passato (Arts and Crafts, Werkbund, Bauhaus!), si discute dei movimenti e degli artisti che portano avanti ambiziosi progetti d’un arte che sembra aprire nuove strade.

“Se l’arte voleva essere ieri sentire e fare – scrive Vasarely in un testo pubblicato nel notiziario del maggio ’65 in occasione della sua mostra al Deposito, presentata da Dorfles – può essere oggi concepire e far fare. Se la conservazione dell’opera risiedeva, ancora ieri, nell’eccellenza dei materiali, nella perfezione della loro tecnica e nella maestria della mano, essa si ritrova oggi nella coscienza di una possibilità di ricreazione, di moltiplicazione e di espansione. Sparirà così, finalmente, con l’artigianato, il mito dell’opera unica e trionferà l’opera diffondibile grazie alla macchina e per mezzo di questa.”

Già nel ’64 il Deposito ha proposto una prima edizione di oggetti in serie, in parte frutto di idee collettive e quindi anonimi, tutti realizzati “partendo da stampi industriali già predisposti per produzioni di massa e intervenendo su di essi solo con l’impiego di nuovi colori, disegni e raggruppamenti di forme”. Sono cilindri, ciotole e sei pezzi concentrici coloratissimi di diametri progressivi,e vassoi di smalto su acciaio con disegni di Alviani, Carmi, Costantini, Lohse, Luzzati, Perilli. “Un lavoro di produzione – scrive appunto Perilli presentandoli in una mostra a Roma nel dicembre ’64 – capace di introdurre anche in piccole serie di oggetti qualificati quegli elementi rinnovatori derivati dalla ricerca pura. E così da questo comunicarsi di esperienze sono nati questi oggetti che proprio per la loro origine, quella dello standard, mostrano come l’inserimento della fantasia nell’arte della vita contemporanea sia ormai possibile ad ogni livello e con tutte le varianti espressive”.

Nel 1967 il Deposito, contemporaneamente alle cartelle serigrafiche, produce una ormai famosa serie di 17 multipli di Alviani, Bill, Carmi, Castellani, Colombo, Del Pezzo, Gerstner, Mari, Morandini, Scheggi, Simonetti, Soto, Vasarely, Vices Vinci.

Questi oggetti “esteticamente stimolanti” (Dorfles), costano poco come tutte le opere prodotte dal Deposito e sono i primi multipli effettivamente realizzati in Italia con questo nome, in base a un programma chiaramente enunciato. Sono perfettamente uguali ai prototipi fornitici dagli artisti. Ne sono la moltiplicazione ottenuta con procedimenti meccanici. Sono progettati per essere prodotti industrialmente. O meglio, lo potrebbero se la loro edizione non dovesse limitarsi a pochi esemplari (100) in forza delle esigenze di un mercato d’arte che sappiamo non essere ancora preparato (lo sarà mai?) a sopravvivere alla perdita dell’idea di un “originale” firmato o di qualcosa che ne serbi almeno in parte la magica aura, come appunto la limitazione degli esemplari. Nelle more di una sperata mutazione del mercato artistico, i nostri oggetti sono prodotti con sistemi semi-industriali o addirittura artigianali.

Di multipli si parla moltissimo, attorno al Natale del ’67, all’epoca del loro “boom”, su quotidiani, rotocalchi e riviste d’arte, d’arredamento, di moda. I multipli del Deposito sono davvero tali, nel senso che sono veramente prodotti nel numero di esemplari denunciato, e non in due o tre pezzi, o addirittura in pezzi unici (come fa qualche furbo alla fine del ’67, per essere presente nel momento giusto su un mercato che “tira”).

Fino a che punto è giusto esporre questi oggetti nello spazio di una galleria d’arte? Il luogo naturale in cui offrire in vendita un multiplo, sia pure prodotto in limitato numero di esemplari, non è forse un altro, non è il Grande Magazzino, o addirittura il Supermercato?

Il Deposito si pone queste domande e, tenta di darvi una risposta. Così, nell’inverno del ’68, gli oggetti moltiplicati sono presentati a Berna per l’inaugurazione del nuovo “reparto multipli” dei Magazzini Loeb. E poco dopo il gruppo è presente con tutta la sua produzione alla grande mostra Ars multiplicata allestita in Germania, alla Kunsthalle di Colonia.

Effimero trionfo. I 17 oggetti prodotti nel 1967, come del resto i precedenti, sono venduti sino all’esaurimento in pochi mesi, ma con essi anche il progetto multipli si esaurisce. Il suo fallimento richiede considerazioni che vanno al di là dell’esperienza – pur centrale – del Deposito.

“La storia dei multipli – citiamo ancora un testo di Eco – è la storia di una illusione e di un equivoco, oltre che di un tradimento. Ma quando inizia è una storia di entusiasmi e di buona fede […] L’illusione consisté nel pensare che la battaglia dei multipli si vincesse da sola, nell’ambito dei multipli, e che potesse vincere il circuito delle gallerie[…] L’illusione consisté più tardi, quando gli esperimenti alla Boccadasse non poterono più reggersi da soli, nel credere che la battaglia dei multipli potesse essere vinta attraverso il circuito delle gallerie e contemporaneamente, come accadde, attraverso il circuito dei grandi magazzini[…] Così che accadde, e questo fu il tradimento, che qualcuno propose l’idea che vi sono sì multipli, ma qualche multiplo è meno multiplo degli altri (e quindi può costare di più)…1

Confronti/scontri

Nel 1968 anche il Deposito cavalca l’utopia e cerca di darsi una struttura e un’immagine più adatte a richiamare un’ipotetica massa di acquirenti di multipli. In maggio, mentre a Parigi gli studenti si illudono di portare l’immaginazione al potere, la galleria abbandona Boccadasse e si trasferisce in Via Roma, al centro di Genova. Viene dotata di luci tecnicamente adeguate e di moquette. Ora non capiterà più al socio-amministratore Paolo Minetti quello che gli è accaduto a Boccadasse: uscire dalla galleria e trovare la sua automobile trasformata dalla frana di un muro in una invendibile compression di César.

Ma – significativamente – da questo momento il Deposito non fa più mostre o, per lo meno, non ha più un programma di mostre in senso tradizionale. “Ciò non vuol dire che la nostra attività in questa direzione – ha anticipato l’editoriale del notiziario nel numero di marzo-aprile ’68 (l’ultimo uscito) – sia in qualche modo esaurita. Vuol solo significare che stiamo riconsiderando quale possa essere il senso, in questo momento, di esporre opere d’arte in una galleria. Ci stiamo, più precisamente, chiedendo quale funzione possa svolgere, nell’attuale momento del dibattito ideologico ed estetico, una galleria che non si prefigga intenti speculativi: in quale modo un organismo di questo tipo possa continuare ad essere uno strumento operativo adeguato a svolgere proficuamente quel ‘lavoro di aggiornamento nel campo delle arti visuali’ che figura tra i compiti istituzionali del Gruppo Cooperativo di Boccadasse”.

“Coerente con gli intenti originari, il nostro gruppo prosegue (senza cedimenti ‘industriali’) nella produzione di opere moltiplicate, e intende su questa strada affrontare nuovi problemi sia nel settore della produzione sia in quello della diffusione di tali opere, senza peraltro escludere la possibilità di ricorrere – ove se ne dia l’opportunità – a una nuova serie di manifestazioni pubbliche”.

In un momento in cui le espressioni dell’arte tendono sempre più a invadere e a far proprio uno “spazio abitabile”, a coinvolgere una collettività chiamata a partecipare alla creazione stessa del fatto artistico, matura una serie di confronti/scontri tra diverse tendenze, che caratterizzano l’ultima fase dell’attività informativa del Deposito. Essa ha inizio nel dicembre 1968 con un incontro/dibattito tra Pietro Dorazio e Piotr Kowalski, moderatore Umberto Eco.

Il tema proposto, La mano all’opera o la macchina come opera, è discusso e sviluppato, in un clima di contestazione, non nella galleria ma in uno spazio messo a disposizione da Ivo Chiesa del Teatro Stabile di Genova, da sempre solidale con il gruppo di Boccadasse.

Un altro incontro si interroga sul tema Arte: abolizione o mutazione? In un capannone della Fiera del Mare, adibito a laboratorio di scenografia dello Stabile, lo scultore francese César realizza due sue grandi expansions ephémères ottenute mescolando una sostanza plastica con un reagente. Segue un acceso scontro tra i numerosi astanti e il critico Pierre Restany, promotore del movimento “Nouveau réalisme”. Al termine, le “espansioni”sono tagliate con una sega e gli intervenuti se ne contendono i pezzi.

Infine, nel marzo 1969, un altro scultore francese, Nicolas Schöffer, premio alla Biennale 1968 di Venezia, introdotto da Dorfles, dibatte il tema Spazio/luce/tempo e presenta in tre film le sue opere d’arte programmata e cinetica. Schöffer parla della Torre cibernetica alta 52 metri che sta progettando per la città di Liegi, una macchina dotata di un sistema elettronico di memorizzazione che reagisce alle situazioni ambientali e controlla proiezioni luminose ed effetti sonori. E’ l’ultima iniziativa pubblica del gruppo.

Ultima produzione è invece la serie di 10 serigrafie di Adami, Alviani, Bill, Carmi, Costantini, Gerstner, Lohse, Munari, Perilli e Wachsmann, realizzata per la Rinascente nel dicembre 1969.

Poi si chiude, la cooperativa si scioglie.

In poco più di cinque anni il gruppo ha allestito 38 mostre nella galleria di Boccadasse ed esposto la propria produzione (103 grafiche, 22 foulard, 36 tra multipli, oggetti e gioielli), in numerose gallerie italiane e straniere, a New York, Zurigo, Parigi, Londra. Ha aperto una sede a Los Angeles, organizzato una rete di rappresentanze nelle più importanti città d’Italia e d’Europa, tenuto contatti con i musei e le gallerie più vive del mondo.

Boccadasse e il Deposito sono divenuti nomi ovunque noti e apprezzati negli ambienti dell’arte. Le sue produzioni sono entrate a far parte delle collezioni del Museum of Modern Art di New York, del Victoria and Albert Museum e dell’Institute of Contemporary Art di Londra, dell’Accademia delle Arti Figurative di Arnhem e di altri musei. La galleria è stata uno dei rari punti di incontro e di stimolo, negli anni Sessanta, per artisti, intellettuali, collezionisti e curiosi d’arte, in una città un po’ distratta.

A Boccadasse, varcata la porta del colore locale, ognuno trovava la stanza dell’immaginazione, dell’anticipazione di tempi a venire, talvolta delle fughe in avanti, forse. Trovava comunque, per riprendere le parole di Dorfles, tutto ciò che di vitale veniva offerto dall’arte di quegli anni.

L’ultimo numero del notiziario pubblicava un disegno di Guido Crepax, ispirato ad una “immagine-flash” di Victor Vasarely, il quale sintetizzava così l’ingenua utopia dell’arte moltiplicata: […] une jeune fille saine, parce que rationellement nourrie, belle parce que saine, vetue d’une robe “couture” en papier, assise dans un parc, fait des intégrales. Un architecte athlétique saute d’un engin électrique et s’élance, un Multiple sous le bras, et l’offre. Elle sourit, émerveillée, puis il s’embrassent le temps d’une éternité2.

Vita Carlo Fedeli

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1 U. Eco, Eugenio Carmi -Una pittura di paesaggio?, Prearo editore, 1973.
2 […] una giovane sana, perché nutrita razionalmente, bella perché sana, in una mise di carta, seduta in un parco, calcola degli integrali. Un architetto atletico balza da una macchina elettrica con un Multiplo sottobraccio e si slancia ad offrirglielo. Ella sorride, meravigliata, poi si abbracciano per il tempo d’un’eternità.