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Versi e altro
hai q? (Edizioni ViEffe, 2003)

Brevi componimenti di tre versi di cinque/sette/cinque sillabe, che scimmiottano l’haiku.

Libretto Haiku

Presentazione del libro

Ho qui un altro mio libriccino del 2003, intitolato hai q? (col punto di domanda).

E’ un libriccino che prende in giro gli haiku, che però si scrivono con kappa e u finali, non con la q come ho scritto io. Però, attenzione, io non prendo in giro gli haiku giapponesi, ma le imitazioni occidentali degli haiku.

Io amo molto gli haiku giapponesi, mi piacciono molto, li considero una forma altissima di poesia e di pensiero. Dire che “mi piacciono”, però, a pensarci bene, non è esatto. Mi ha sempre colpito soprattutto la sintesi folgorante degli haiku. Sintesi che non è solo di parole e di concetti, ma anche di segni.

Che cosa sono gli haiku? Dopo aver fatto questo libretto ho scoperto che non pochi dei miei amici non lo sapevano.

Voi invece certamente saprete che l’haiku è un genere poetico, appunto giapponese. Sono brevissime liriche composte di 17 sillabe, non una di meno né una di più. 17 sillabe sono pochissime, bastano appena per fare pochi versi, brevissimi. L’haiku classico è fatto di tre versi: due di 5 sillabe e uno centrale di 7.

Vi do subito un esempio, che risale al 17° secolo:

Guizza la trota
Sul fondo scorrono
Le nuvole

L’ha scritto nel ‘600 un famoso poeta giapponese, Onitsura, contemporaneo di un altro poeta ancora più famoso, Bashō, che è considerato l’iniziatore degli haiku. E altri, loro contemporanei o venuti dopo hanno proseguito sulla stessa strada: Buson e Taigi , solo per citare due grandi, fino a Bōsha, che è del 900.

L’haiku è stato così definito (credo dai giapponesi): una sintesi di una certa impressione o emozione in un certo momento, colta nell’immediatezza dell’attimo.

Non quindi il concentrato di una marea di impressioni ed emozioni, ma di una sola impressione o emozione vissuta in un attimo. Una specie di flash della sensazione, dunque.

Offrire un’idea di una rapidissima sensazione di qualcosa in 17 sillabe e con la massima precisione, è la scommessa, il segreto e il fascino dell’haiku.

E’ una sfida: costringere l’improvvisazione entro un rigoroso schema di 3 versi e di 17 sillabe.

Prendendo alla lettera la definizione che ho citato, si può pensare che il poeta dell’haiku, quando è colto da quella certa emozione o impressione, scriva subito di getto le 17 sillabe, e l’haiku è bell’e fatto.

In realtà le cose non stanno così. E qui ci può venire in aiuto un’altra definizione della poesia – stavolta occidentale, occidentalissima, DOC. Ce l’ha data nel ‘700 un grandissimo poeta inglese, Wordsworth. Il quale diceva: la poesia nasce dall’emozione ricordata nella tranquillità.

Cioè: il poeta è colpito in un certo modo da qualcosa, o meglio, sente qualcosa che magari gli altri non colgono (perché ha delle antenne più sensibili) in mezzo ai tanti stimoli del flusso della vita, e se lo annota nella mente. Poi va a casa e magari non ci pensa per un po’. Poi improvvisamente, nel silenzio del suo studio o magari mentre si fa la barba o rassetta la casa (se è una donna), il ricordo gli torna in mente e, nella tranquillità, lo rielabora e gli dà la forma della poesia. Che in occidente è magari una poesia lunga cento versi, mentre in Giappone è solo di tre, ma il meccanismo psicologico da cui nasce la poesia è la stessa.

Il vantaggio della brevità è apparente. Si racconta che il poeta giapponese Issa, vissuto tra ‘700 e ‘800, ha scritto 16 sillabe di un haiku e poi si è fermato. Il foglio è rimasto sul tavolo per mesi e poi, finalmente, in un attimo, gli è venuta la 17.ma sillaba e l’haiku ora era perfetto. Anche il breve haiku richiede dunque un grande lavoro e una grande esperienza.

Difatti anche da noi molti che leggono gli haiku dicono: che bello e che facile, lo faccio anch’io. E scrivono delle banalità. Che magari essendo brevi e laconiche sembrano cose profonde. Ma se si guarda bene sono il più delle volte banalità. Anch’io una volta ho scritto degli kaiku sul serio e ho anche vinto un premio qui a Genova. Poi ho capito che era meglio scherzarci sopra. Scherzare sopra la retorica degli haiku d’imitazione.

Gli haiku sembrerebbero essere la massima espressione di ciò che in Occidente chiamiamo “poetica del frammento”, teorizzata dai romantici e specialmente da Leopardi.

Per i giapponesi, invece, l’haiku non è un frammento, ma un componimento completo e perfetto in ogni sua brevissima parte.

Per i giapponesi, per lo spirito giapponese, l’haiku non è così semplice come pensiamo noi. E’ inaccessibile a una lettura disattenta. Qualcuno ha detto che è come la punta di un iceberg, che cela un’altra massa più grande, nascosta, impercettibile.

Intanto, non c’è nessun poeta che veda qualcosa. C’è solo qualcosa che accade.

Per i giapponesi, quello che conta non è la descrizione dell’evento (e poi la sua spiegazione, il famigerato commento che ci chiedevano di scrivere a scuola, e che secondo i giapponesi finisce per “sciupare” l’haiku), ma quello che conta è l’evento stesso, infinitesimale, l’attimo fuggente fermato nella forma esatta, nella perfezione di pochissime parole, un niente, una sospensione panica, sospensione anche dello stesso linguaggio.

Le parole sono una per una intelleggibili, ma non vogliono dire nulla, dicono solo se stesse. Non esprimono nemmeno, sostengono i giapponesi, la cosiddetta “emozione poetica”, che è un’altra invenzione occidentale.

E qui entra in campo il pensiero e la filosofia Zen, che svaluta ragione e logica, cerca la purificazione dell’anima nell’intuizione e prevede anche nella meditazione, ma intesa nel senso attivo, cioè come contemplazione del mondo esterno fatta per vivere all’unisono con esso.

Per avvicinarsi all’haiku e allo spirito che lo anima è indispensabile conoscere alcune parole-chiave.

La prima parola è: PERFEZIONE. Una poesia haiku dev’essere perfetta in ogni sillaba e in ogni senso. Non ci può essere nemmeno una delle poche parole fuori posto. Come un orologio, che per funzionare deve avere tutti gli ingranaggi al loro posto esatto. Se no si ferma tutto.

Altra parola-chiave è lo satori, che, secondo il pensiero Zen, è una specie di “sospensione panica del giudizio”, attraverso la quale si libera il nostro spirito dai vincoli del linguaggio. E’ un risveglio di fronte all’evento. Ma non a un evento che sia speciale. Tutti gli eventi sono speciali, tutta la realtà è speciale.

E qui mi viene in mente il pittore Morandi, che ha dipinto per quasi tutta la vita delle nature morte apparentemente uguali. Ciascuna invece è un evento speciale, colto tra tutti gli eventi speciali nel flusso della vita. Anche Moranti è zen, da questo punto di vista.

L’haiku, insomma, non esprime, ma fa esistere, attraverso una brevissima esattezza, che ha la purezza di una nota musicale. E anche la sua ELEGANZA, che per me è un’altra parola-chiave.

Scusate se mi sono dilungato sul tema, e non so nemmeno se ne ho dato un’interpretazione giusta, ma era per dire che io non mi sogno di prendere in giro nel mio libretto gli haiku giapponesi, ma l’inflazione occidentale delle imitazioni degli haiku. Che naturalmente è molto “occidentale”, senza zen e senza profondità misteriose.

Ma voglio chiudere con un haiku di Basho, che vi ricordo, era un poeta di 4 secoli fa, e che si avvicina (almeno, così spero io) a quelle che sono le mie intenzioni ironiche:

Com’è ammirevole colui
che non pensa, vedendo un lampo
”la vita è effimera”.

I temi degli haiku, attraverso i secoli, sono rimasti praticamente gli stessi:

  • alba, tramonto, trascorrere di stagioni, spuntare e cadere di foglie
  • attimi di vita come occasioni poetiche
  • condizioni esistenziali
  • uno di questi temi diventa lo sfondo di una brevissima storia

Tutto circonfuso d’ambiguità, o meglio in ciò che i giapponesi chiamano yugen, che si può tradurre profondità misteriose. Tutta la realtà, la vita quotidiana, è per lo spirito giapponese , una profondità misteriosa, che non si interpreta, che non sarà mai colta nella sua vera essenza, ma che, semplicemente, è là, esiste, e di cui, dunque, si deve tener conto, che non si può rifiutare. Ogni cosa va anzi connessa ad ogni altra, in una catena relazionale che le unisce tutte.

Tutto, dunque, sempre calato nella realtà, mai astratto.

Che cosa vogliono dire i tre versi che vi ho citato?

Ecco la domanda che scatta automaticamente in noi occidentali: che cosa significa? La nostra mentalità razionale ci induce subito a cercare il senso. E lo facciamo in due modi.

Ci ricamiamo sopra un ragionamento esplicativo. Per esempio: mentre la trota guizza, il poeta vede riflettersi nell’acqua le nuvole, che sembrano scorrere sul fondo del torrente. Acqua, terra, cielo messi in rapporto, tra loro e con la trota.

Oppure: carichiamo di simboli l’immagine che questo haiku ci dà. Il contrasto tra il movimento fulmineo della trota (e quindi della vita) e la lentezza tranquilla (in questo caso) dell’acqua, della terra e del cielo, di cui è fatto il mondo in cui viviamo. Due moti diversi dell’esistere: lento, solenne, imperturbabile quello degli elementi fondamentali della natura, e rapidissimo quello della trota, in cui si può identificare il destino effimero degli esseri viventi. E così via.

In Occidente moltissime poesie, molto più lunghe di tre versi, sono state scritte per simbolizzare le stesse cose. Si è anzi coniato nel Novecento il termine correlativo oggettivo per definire la figura retorica con cui si introducono nella poesia degli “oggetti” ai quali è demandato il compito di significare direttamente atmosfere e addirittura moti dell’animo, eliminando le vecchie e abusate similitudini esplicite (come l’acqua è tranquilla, le nuvole scorrono e la trota guizza, così la mia vita… eccetera). Montale, per esempio, ha usato molto il correlativo oggettivo, che oggi però è diventato, a quanto sembra, un espediente retorico altrettanto fuori moda delle precedenti similitudini.