Frammenti autobiografici

La villetta di Via Ugo Bassi

La famiglia di P (il nonno Marco Tullio, il papà Aldo e la mamma Miryam in trepida attesa di P), si trasferisce nel 1925 da Piazzetta Pescheria (che è al centro di Verona, a due passi dalle Regie Poste dove lavora il nonno), nella casa al n.1 di Via Ugo Bassi, angolo via Camozzini, in Borgo Trento. Nuova casa nel nuovo quartiere della Cooperativa La Postelegrafonica, che sta sorgendo a nord della città, in aperta campagna, tra i cosiddetti “orti del Trezza”.

Cesare Trezza è un ricco veronese diventato ricchissimo anche per aver avuto in concessione la riscossione delle tasse in moltissimi comuni italiani. Tanto ricco da far maritare (prima del suo tracollo finanziario del 1916), l’unica figlia Maddalena al conte Pietro Acquarone, poi diventato duca d’Acquarone, ministro della Real Casa Savoia. È quello che, nel 1943, consiglia al re Vittorio Emanuele III di scappare al sud e di mettersi sotto la protezione degli Alleati che stanno occupando l’Italia. Abbandonando tutti i soldati in Italia e sui vari fronti senza istruzioni sul da farsi.

Gli Acquarone abitano nella fastosa settecentesca Villa Musella (eredità Trezza), sopra S. Martino Buonalbergo, a una ventina di chilometri da Verona, sulla strada per Venezia. Uno dei figli del duca, Luigi Filippo, sposerà molti anni dopo Maria Emma De Luca. È la Mariucci (morta nel 2004), compagna d’infanzia di P, figlia dell’avvocato Vittore, socio di studio del papà di P. I due figli della duchessa si chiameranno Vittore e (Mariucci copiona), Zeno. Cercheranno nel 2016 di vendere la villa, del valore di quasi 14 miliardi di euro, ma P non sa se si ci sono riusciti.

Passo indietro. Morto nel 1922 Cesare Trezza, il genero Acquarone prende le briglie dell’eredità e propone al Comune di Verona un ambizioso piano regolatore di Borgo Trento. Esso prevede l’apertura sull’Adige di due nuovi ponti: Ponte Garibaldi, a collegamento del borgo al centro storico, e Ponte Catena, in uscita verso Borgo Milano e la statale per il Lago di Garda. Inoltre, l’urbanizzazione della vastissima area di appezzamenti agricoli lasciata dal Trezza, destinandola a quartieri residenziali (alloggi mono- o bifamiliari con giardino) per la borghesia ricca ma anche per i ceti popolari. Un piano che rende agli Acquarone un sacco di soldi, ma che dà alla città l’opportunità di estendersi verso nord con un suburbio verde mica male.

Borgo Trento, negli anni tra i Dieci e i Trenta del ‘900, passa così da 2000 a 7000 abitanti, divenendo il terzo dei quartieri residenziali di Verona.

Il cosiddetto ‘Quartiere Postelegrafonico, consiste di 66 fabbricati singoli o doppi, a uno o due piani, ciascuno circondato da un bel giardinetto. Il progetto è dell’ing. Adolfo Zorzan, capo dell’ufficio tecnico comunale, con soluzioni architettoniche di tipo vagamente secessioneliberty, ispirate anche all’esempio di un analogo villaggio-giardino realizzato in quegli anni a Milano dall’arch. Giovanni Broglio, di cui si parla molto nelle riviste d’architettura del tempo.

Queste notizie sono tratte dal catalogo della mostra Borgo Trento, un quartiere del Novecento tra memoria e futuro, allestita nel novembre 2008 presso l’Arsenale di Verona, a cura di Michela Morgante, figlia di Peo Morgante, amico e compagno di scuola di P. E cugino della Diana Stevani, a sua volta cugina di secondo grado della Laura moglie di P. Il catalogo è uno studio approfondito di Borgo Trento e della sua storia, con tante fotografie interessantissime e (per P) molto malinconiche. Tra le sue fonti, il catalogo cita anche il libro dedicato da P al ricordo del proprio padre.

Il 10 settembre 1926 la Cooperativa La Postelegrafonica comunica al nonno Marco Tullio, proprietario della casa in quanto impiegato alle Poste e consocio della cooperativa, che il valore della sua villetta a due piani è fissato dalla Commissione Ministeriale di collaudo nella bella cifra del tempo di ben 73.537,06 Lire.

I documenti della Cooperativa, conservati da P in un faldone (chi mai li consulterà?), dicono che la casa è a riscatto cinquantennale. Però il papà di P, negli anni 50, circa 25 anni dopo, può riscattarla con pochi soldi, data la grossa inflazione verificatasi nel dopoguerra.

Le prime circolari della Cooperativa sono firmate dal suo presidente Alfredo Morazzoni, collega alle poste del nonno Marco, amico di famiglia e poeta estemporaneo. Più tardi il Morazzoni è accusato di irregolarità amministrative e deve dimettersi. Nella seconda guerra mondiale, è richiamato, come il padre di P, alle armi in fanteria col grado di capitano di complemento ma finirà, disperso in Russia durante la ritirata dell’ARMIR. Meno fortunato del papà di P, rientrato prima dal fronte russo perché ammalato.

E qui si torna alla piccola realtà della villetta in cui nasce P e in cui scorrono i primi 28 anni della sua vita, dalla nascita al 1953.

In teoria, il Quartiere Postelegrafonico è ‘corredato dei moderni comfort di base’ (luce elettrica, gas, acqua corrente, servizi igienici e bagno). In realtà, il comune è in forte ritardo con gli allacciamenti. L’energia elettrica arriva solo nel luglio 1926 e un aumento di potenza si può avere solo nel novembre 1927. Il gas arriva addirittura nel 1934. Il riscaldamento della casa è a legna, con stufe di terracotta Becchi.

Tra i primissimi ricordi d’infanzia di P c’è il camino, sul quale la mamma cucina al fuoco vivo, come allora si usa. Il papà di P, sempre sobriamente elegante, la mattina, prima di andare in bicicletta (una Bianchi nera con le cromature) al suo studio di avvocato, in piazzetta Chiavica 2, si lucida le scarpe, appoggiando uno dopo l’altro i piedi calzati sul piano del camino di pietra calcare veronese. Operazione accurata in quattro fasi: spolveratura della tomaia, applicazione con spazzolino della cera Sutter, primalucidatura con apposita spazzola, passaggio finale con panno di lana. La quarta fase, suole ribadire il papà al figlio, che lo osserva mentre lucida, è indispensabile perché le scarpe brillino a dovere.

Poi arriva, a sollievo della mamma, qualche simbolo della modernità. Il primo è la ‘cucina economica’ a carbonella, che fornisce anche qualche litro d’acqua calda, sempre pronta in un comparto protetto da un coperchio di rame. Segue, nel ’34, il fornello a gas (a 3 becchi), sistemato sotto la cappa del camino, rivestito ora di linde mattonelle bianche, con angolari di ferro ai bordi, che P è incaricato di tenere lucidi ricorrendo anche alla carta vetrata. Arriva anche la ‘ghiacciaia’, di legno verniciato, antenata del frigorifero elettrico, rifornita di freddo ogni mattina da un omino, che scarica da un triciclo e porta in casa a spalle, avvolta in un sacco gocciolante (presto presto – raccomanda la mamma – se no si bagna tutto il pavimento), una traslucida barra bianca d’acqua gelata. La produce, alla periferia della città, la Fabbrica del Ghiaccio. Così la mamma può mandare in soffitta la moscaróla, come i veronesi chiamano la ‘moscaiola’, contenitore rivestito di una sottile rete metallica a maglie fittissime, tenuto nel punto più fresco e ventilato della casa, unico aggeggio sin’allora disponibile per proteggere nelle stagioni calde i cibi dal deterioramento e, appunto, dalle mosche. La barra bianca gelata è garantita d’acqua potabile. Con un’apposita pialletta d’alluminio la mamma può grattare la barra e offrire d’estate alla famiglia, piacere da ricchi, delle gustose bibite con ghiaccio tritato. Il quartiere, però, mostra ancora, nonostante i trionfaleschi strombettamenti del Regime, le gravi arretratezze dell’epoca: mancano, per esempio, le fognature pubbliche. Ogni casa ha la sua fossa biologica, utile peraltro per la periodica, puzzolente concimazione delle aiuole di fiori e dell’orticello.

C’è in casa una bella foto aerea color seppia di Verona negli anni ‘20, appesa in cornice e il piccolo P ogni tanto si arrampica su una sedia e si sofferma incantato a guardarla. Al centro, naturalmente, emerge e campeggia l’anfiteatro romano, che i veronesi chiamano ‘l’arena’. Ma quel che soprattutto guarda P è una macchia chiara in alto, accanto alla prima curva che l’Adige fa per accingersi ad abbracciare la città in una duplice ansa ‘amorosa’, tanto cantata dai poeti locali (difatti, in basso, si vede un pezzo del fiume che, finito il primo abbraccio, prosegue portando via l’acqua in direzione opposta, verso Rovigo e l’Adriatico). Questo è il nostro quartiere postelegrafonico, qui c’è anche la nostra villetta, ha spiegato il nonno a P puntando il dito su quella macchia biancheggiante.

Quel che biancheggia nella foto sono i tetti del quartiere ricoperti con lastre quadrangolari di eternit, un materiale nuovo e più economico delle tradizionali tegole ricurve di terracotta, più facile da applicare, molto più resistente e durevole. Almeno stando a quanto assicura il nome. L’ha inventato e brevettato, nome compreso, agli inizi del secolo, l’austriaco Ludwig Hatscheck, ed è diventato presto un prodotto popolarissimo, un segno di modernità, che piace molto ai geometri e anche agli architetti che progettano case a prezzi accessibili ai meno abbienti. I tecnici lo chiamano anche fibrocemento, perché è un composto di cemento e di fibre di amianto o asbesto, termine commerciale di alcune diffuse varietà di minerali silicati a cristalli fibrosi, tra l’altro molto resistenti al fuoco. Un prodotto industriale che diventa presto di larghissimo uso in molte applicazioni, per esempio nei tubi, dove per oltre un cinquantennio è lo standard nella costruzione di acquedotti.

P non sa (ma allora non lo sa ancora nessuno), che l’amianto, durante la lavorazione o usurandosi, genera una micidiale polvere cancerogena. Oltretutto insidiosa, perché la cosiddetta asbestosi ha un periodo di incubazione di una trentina d’anni prima che si sviluppi nell’organismo l‘implacabile mesotelioma pleurico.

La Scienza se ne accorge solo negli anni ’60, ma occorrono altri trent’anni prima che, almeno nei paesi più attenti, si cessi di fabbricare l’eternit (che altrove continua ad uccidere a tempo dilazionato).

Nessun danno, per fortuna, a P, che invece ripensa, con la consueta nostalgia dei ricordi d’infanzia, al suo giardino. Nel quale vengono piantati un fico, rose, gerani, gelsomini, un calicanto che fiorisce in inverno, un ficus benjamina, spiree (che in casa chiamano aspiree), oleandri, tralci di vite e due grandi e ombrose magnolie. Quasi tutte piante esotiche, gli spiega la mamma, che ha chiesto in merito consigli a un esperto giardiniere. E P si domanda: ma se tante piante vengono da altri continenti, cosa mai c’era una volta nell’Italia ‘giardino d’Europa’ ‒ e in tutta l’Europa stessa ‒, prima che arrivassero quegli immigrati verdi?

Un orticello ospita le verdure. Un’alta siepe di ligustro, piantata lungo la cancellata e le reti metalliche divisorie dalle case attigue, protegge la villetta da sguardi estranei di passanti e di vicini curiosi. Più tardi, si aggiunge al verde anche l’abete di una festività natalizia, che crescendo svetta. Anche le viti crescono, formando un bel pergolato, all’ombra del quale, nella buona stagione, si pranza, si legge, si chiacchiera, si prende il fresco la sera e si gioca alle carte e a monòpoli con gli amici su un tavolo di pietra. Buono anche per farci su, svogliatamente, i compiti delle vacanze.

La siepe, lasciata liberamente crescere, finisce poi per sostituire, al tempo delle ‘inique sanzioni’ e del dono forzoso del ‘ferro alla Patria’, la cancellata tagliata con la fiamma ossidrica. Resta solo il cancello, ironica inutile protezione, ora, alle intrusioni di malintenzionati. E i muretti e pilastri perimetrali, privati di un buon sostegno metallico, si piegano e diventano pericolanti. Non resta che sperare che tengano.

Altri cambiamenti frattanto si prospettano in casa, non dovuti a motivi patriottici: installazione di un impianto di riscaldamento con caldaia a carbone e termosifoni nelle varie stanze, doppi vetri alle finestre per conservare meglio il calore, sostituzione delle solite mattonelle (bellissime, a ripensarci ora), con lucido marmo veronese, muratura di una terrazza per ricavarne un nuovo locale, destinato alla domestica. E ancora nuovi mobili e nuovi bagni moderni, con rubinetti da cui sgorga l’acqua calda.

Tutte novità rese possibili dagli accresciuti guadagni del papà avvocato, ma giudicate dal nonno Marco, proprietario della casa (evidentemente solo sulla carta), smanie di grandezza e cedimenti alle lusinghe borghesi della mamma. E da lui contrastate.

P assiste ad aspri litigi, e da bambino tenta come può, ma invano, di pacificare gli animi. Ci riesce in parte il papà, con le sue note abilità conciliatorie, e i lavori si fanno. Sulle pareti ridipinte fanno bella mostra numerosi quadri offerti in dono o a prezzi scontati all’avvocato, da bravi pittori amici, in cambio delle assistenze legali.

Ma il rancore tra mamma e suocero non cessa, l’atmosfera in casa resta pesante.