La scuola elementare
La scuola elementare di P ha il suo accesso principale su una polverosa carreggiabile con a fianco le rotaie del trenino che porta al Lago di Garda. Vecchia scuola a un piano, con ingresso che, in futuro, P saprà essere ottocentesco, con modeste intenzioni neoclassiche.
La via più breve per arrivarci, dal quartiere Postelegrafonico, è una stradetta diritta, poco più di un sentiero sterrato, che attraversa gli orti, cintata da filo spinato e siepi di sambuco. Lunga quasi un kilometro, è percorsa dai carri degli ortolani trainati dagli asinelli, da qualche ciclista e da P e altri scolari con cartella e grembiulino nero. Una camminata d’un quarto d’ora, chiacchierando (P non riesce a ricordare di che).
Ma sono tante le cose che P non ricorda. Chi, per esempio, lo accompagna il primo giorno a scuola? Probabilmente la mamma. E gli altri giorni? Ancora la mamma, almeno alla prima elementare. Più tardi, la servetta Gianna. E a mezzogiorno, per riportarlo a casa? Probabilmente, quel primo giorno e tanti altri, il nonno, che è solito sedere lì vicino in una piccola osteria, nella buona stagione all’aperto, all’ombra di un grande platano, bevendosi mezzo gotto di vino bianco, in attesa dell’ora di fine lezioni, quando i bambini sciamano dal portone sotto gli occhi attenti della bidella.
Il ritorno è ancora per la stradetta o, nei giorni di cattivo tempo e di fango, per un parallelo viale di ippocastani, percorso da rare automobili, che allunga un po’ il percorso ma ha i marciapiedi sommariamente inghiaiati.
Altra cosa che P non ricorda è: come entra nell’aula e in quale banco va a sedersi. Probabilmente è la bidella a guidare i nuovi alunni (tutti maschi) e a ordinare una prima sistemazione nei banchi. E ciascuno si siede dove trova posto con un compagno che già conosce (forse P con Giorgio, vicino di casa).
L’aula è grande, luminosa, con grandi finestroni protette da inferriate, che danno sulla strada. I banchi, in tre file, sono a due posti, ciascuno con due calamai di vetro incastrati al centro, colmi d’inchiostro nero. Sotto il piano, un po’ inclinato, P scopre un comparto diviso in due. Di fronte ai banchi, al centro esatto dell’aula, sta un tavolo, che sembra un comò, chiuso sul davanti fino a terra da pannelli di legno ben lavorati. Poggia su una pedana alta due scalini, di legno grezzo lisciato e sbiancato dall’uso e dalle pulizie. A destra campeggia uno strano affare, una specie di grande quadro nero incorniciato che pare di marmo, retto su due solide gambe di legno. A sinistra, un armadio alto e stretto. Dietro, sul muro, ben centrati uno sull’altro, oggetti e immagini di cui P, per il momento, quasi ignora il significato: avrà anni di tempo per riconoscerli, sempre uguali in ogni aula scolastica.
P nemmeno rammenta l’arrivo della maestra (anche qui: a tutti seduti in attesa, la bidella, dopo aver imposto silenzio, avrà ordinato: bambini, alzatevi in piedi e salutate la vostra maestra, la signora Bertoldi).
La maestra è una gentile vecchina, una nonna zoppa col bastone, vestita di nero fino a nascondere le scarpe (ma P s’accorge subito che una scarpa ha una suola e un tacco molto più spessi dell’altra), con gli occhiali e il volto sorridente. Buongiorno bambini, dice, io sono la vostra maestra e voi siete gli alunni della prima elementare della scuola intitolata ad Antonio Pròvolo. Chi di voi sa chi è?
Silenzio. I bambini si guardano interrogativamente: nessuno lo sa.
Padre Pròvolo, dice la maestra, era un sacerdote veronese, un sant’uomo che molti anni fa fu uno dei primi nel mondo ad occuparsi dei bambini sordomuti e che inventò il linguaggio di segni che servono a quei poverini senza parola per farsi capire.
Poi la maestra tocca il tavolo: e questo che cos’è?, si domanda come se non lo sapesse, ma subito aggiunge: è la cattedra dalla quale vi farò la lezione. E questo? (s’allunga sulla pedana a prendere dal tavolo un libro grande e sottile), questo è il registro sul quale sono scritti tutti i vostri nomi e dove io segnerò i voti per ciascuno di voi, buoni voti se sarete, come spero tutti, bravi e buoni.
Poi la maestra si volta verso il grande quadro nero e si chiede sorpresa: e qui che cosa abbiamo? Questa è la lavagna!, esclama, e sapete a cosa serve? a scriverci su. Ma con che cosa? Fruga in una scatoletta di legno poggiata sotto, ne cava un bastoncino bianco: cos’abbiamo qui? Lo mostra a tutti tenendolo alto tra due dita: questo è il gesso per scrivere sulla lavagna, davanti ma anche dietro. Spinge con una mano la lavagna, che ruota su due perni: il quadro nero ha due facce uguali.
La maestra segna subito sulla lavagna due righe oblique che si uniscono in alto e le collega in mezzo con un’altra righetta: e questa è la A, imparerete presto a riconoscerla. Per ora guardatela bene e cercate di ricordarvela: è la prima lettera dell’alfabeto, A come A-sinello e come… (apre il registro e legge il primo nome della lista) Albertini… Chi è Albertini? (un bambino in terza fila, sorpreso di sentirsi chiamare col suo cognome, la guarda confuso, poi guarda i compagni e non sa che fare). Su, lo incoraggia la maestra, alza la mano, non ti mangio mica, tu sei Albertini, il primo dell’elenco e… (riconsulta il registro), di nome ti chiami Francesco, non è vero? Albertini arrossisce, alza timido la mano, tutti i bambini lo guardano e ridono piano, qualcuno più ardito e che conosce il compagno ripete: sei tu, Francesco…
Il ghiaccio è rotto. Ora farò l’appello, dice la maestra riaprendo il registro, qui siete tutti segnati di nome e di cognome, in ordine alfabetico, dalla A fino alla Zeta, che è l’ultima delle ventuno lettere dell’alfabeto nella nostra bella lingua italiana. Cominceremo proprio da Francesco…e finiremo con…vediamo un po’ (scorre la lista) … beh, lo scopriremo tra poco. Ognuno di voi si alzerà quando lo chiamerò e dirà: presente. Così faremo conoscenza.
Sono tutti presenti i venti dell’elenco. Qualcuno si alza e risponde pronto al suo nome, divertito come a un gioco, qualche altro è timido e si confonde. Qualcuno P lo conosce bene: vicini di casa, compagni di giochi. Qualcun altro di vista, per averlo incontrato in chiesa o a passeggio o in qualche negozio con i genitori. Uno è il figlio dell’ortolano che lavora proprio nel campo di verdure di fronte alla sua villetta.
Però, bambini, dice la maestra, dovete cambiare di posto. Nei banchi davanti voglio i più piccoli di statura e dietro tutti a scalare secondo l’altezza: Così io vi abbraccio con un solo sguardo e voi non dovete storcervi per vedermi e per vedere quello che c’è scritto sulla lavagna.
P è tra i più piccoli della classe e finisce quindi nel primo banco, assieme a un altro come lui: si chiama Roberto, ma in casa lo chiamano Bubu. Entrambi non sanno che staranno nella stessa classe fino alla terza liceo e saranno amici per tutta la vita.
Giorgio, che è tra i più alti, finisce in uno dei banchi in fondo, assieme a un bambino che sembra più grande anche d’età. P saprà poi che è un ‘ripetente’. E per di più è anche l’ultimo della lista alfabetica.