Frammenti autobiografici

Nascita con civetta

Perché scrivere queste pagine? A che giova?
Che ne so, in fondo, io stesso?
Gustave Flaubert, Memorie di un pazzo.

P nasce alle ore 20,15 circa d’un 28 luglio nella villetta di famiglia che sta alla periferia nord della città (che è poi Verona), dove comincia la campagna. Viene alla luce dopo un lungo travaglio. La sua testina, gli racconta qualche anno dopo la mamma Miryam, spunta già dall’origine del mondo, è lì lì per uscire, ma non esce. Il nascituro rimane tale per un paio d’ore. Come far passare un pianoforte da un comignolo, ha detto, francamente esagerando, uno spiritoso (forse un pianista, tra i musicisti che frequentavano i genitori). E perché non, allora, dalla cruna d’un ago, trainato da un cammello?

Fuor di metafora, un animale vero, un uccello, c’è anche in questa faticata vicenda d’avvio a una vita. Le sofferenze di Miryam sono aggravate da una innocente civetta volata dai campi, che picchia insistentemente ai vetri della finestra. Cercano di scacciarla, ma l’uccello ritorna e picchia e picchia stridendo per entrare. Segno sinistro di malaugurio e di morte, secondo la partoriente in laborioso duolo psico-fisico, e anche per la sua mamma e imminente nonna Martina che l’assiste, religiosissima e superstiziosa, che si segna ripetutamente e vorrebbe (se ci fosse tempo), una purificazione con acqua e zolfo.

Diversamente la pensano il debuttante papà, avv. Aldo e l’incipiente nonno paterno, cav. rag. Marco Tullio, ambedue socialisti e positivisti, che sostano con l’orecchio teso davanti alla porta chiusa della stanza fatale. Allarmati dal trambusto e informati della strana incursione, escludono subito il riferimento ovidiano alla iettatrice strix-strega, ma vanno più in là, alla glaukòpis Athéna, a Minerva dea della filosofia e della saggezza, con la glaux (che poi in latino diventerà la noctua) sempre sulla spalla. Epifania beneaugurante, dunque (si sa, tutto è relativo).

Finalmente la testa esce e, nel suo piccolo, la segue il tutto non ancora nominato P, che sta benissimo, a parte un temporaneo cerchio oscuro attorno al tenero capino ‒ in verità capoccino nemmeno tanto ingombrante, anzi, microcefalico (taglia 56 scarsa, da grande). Quel cerchio, racconta poi la mamma al bambino attento, tracciando col dito un giro attorno alla sua testina, segnava il punto in cui per due ore ti sei rifiutato di nascere.

La sera, prima di addormentarsi, P. si tocca la testa e pensa a quella lapide alta su un muro, con sopra una lunga linea orizzontale, che il nonno gli ha mostrato una volta, spiegandogli vedi, fin lassù è arrivata l’acqua nella tremenda inondazione del 1882. Capisce vagamente che un segno simile su di sé diceva dov’era arrivato lui, il punto in cui s’era bloccato il suo l’ingresso nella società degli umani. Il primo degli innumerevoli ritardi (senza lapide a ricordo), che seguiranno: in aritmetica, per cominciare, e poi in matematica, ma anche in greco, latino, filosofia e via discorrendo, non solo a scuola ma nell’intera vita.

[Nota per i possibili futuri lettori più giovani della famiglia: gli appellativi ‘nonno-a’ e “bisnonno-a” si riferiscono ai gradi di parentela con l’autore di questi privati scarabocchi].