Frammenti autobiografici

Dodici immagini

Sei quadri, un’acquaforte e cinque fotografie. P ha disposto in bell’ordine, sulla parete di fronte al suo letto, dodici immagini ben incorniciate, alle quali dedicare il primo e l’ultimo sguardo delle sue giornate:

Le fotografie sono naturalmente quelle dei cinque cari scomparsi per lui più importanti della sua vita. Elencati da destra, sono i ritratti della mamma Miryam, del papà Aldo, del nonno paterno Marco Tullio (con un piccolo P in braccio), della nonna paterna Teresa e della moglie Laura. Sono le foto che gli dicono tutto ciò che è irrimediabilmente stato. Quando P le guarda, gli si avvia dentro uno struggente lavorio di ricordi su un mondo di cose vissute o sentite raccontare.

La mamma di P appare in una foto da vecchia, già vedova, con due giri di perle al collo e un mezzo sorriso. Raramente, nel ricordo di P, la mamma portava collane. Negli anni ’30, durante le vacanze estive al Lido di Venezia, P rammenta una sua collana di perline bianche e coralli acquistata su una bancarella. Solo all’anulare, assieme alla fede, aveva un minuscolo diamante incastonato al centro di una di quelle decorazioni con cui gli orafi cercano di esaltare una minima pietra in una cornice elaborata. Con i piccoli risparmi sugli affitti dei due appartamenti ricavati dalla villetta ricostruita dopo la morte del papà, la mamma era riuscita da vecchia a comprarsi, tramite una cara amica pratica di occasioni, quelle perle e anche un bel braccialetto d’oro. Voleva apparire a chi la frequentava, e anche al figlio quando andava a trovarla, elegante come mai aveva potuto essere da sposata a un socialista allegro ma intransigente. Forse per questo P ha scelto quella foto banale, piuttosto delle tante che la ritraggono più giovane e così bella. Quella foto è per lui una vecchia ferita che duole. Riprova una lancinante tenerezza e il rimorso di averla, da ragazzo poco sensibile, qualche volta criticata per la sua dignitosa modestia.

La foto è un particolare ricavato da un’istantanea scattata da un vedovo da lei conosciuto probabilmente a Torino mentre partecipava a un raduno degli alpini con una comitiva di soci del Circolo Ufficiali di Verona, dove pranzava ogni giorno come moglie sopravvissuta di un maggiore di complemento. Da un pacchetto di lettere, trovato da P ha tra le carte della mamma (e poi rispedìto al mittente, che grato l’aveva ringraziato), risulterebbe che quell’amico torinese avesse serie intenzioni di sposarla, ma lei, legata com’era alla memoria e al culto del marito, evidentemente aveva risposto con un rifiuto.

Anche la foto del papà è un dettaglio, preso stavolta dall’immagine usata da P per la copertina del suo libro dedicato al “sindaco della ricostruzione di Verona”. L’originale (il sindaco in piazza Erbe tra i fruttivendoli per la festa dell’uva, con il comandante dei vigili urbani e il curato della chiesa di S. Anastasia don Adolfo Bassi, il sacerdote che lo aveva battezzato), è andato malauguratamente perduto proprio nel tragitto di P da casa al negozio di un fotografo che doveva trarne l’ingrandimento. Una delle perdite di cui P non sa consolarsi. Così la foto del papà è un particolare sgranato, ricavato dalla copertina del libro.

La terza foto risale a un vecchio negativo che P conserva religiosamente con mille altri in una grossa scatola (chissà che fine faranno, si chiede qualche volta). Dall’età approssimativa di P (uno-due anni), in braccio al trionfante nonno Marco Tullio (nato nel 1869), si può calcolare che la foto sia stata scattata, probabilmente dal papà, nel 1926-27. Il nonno doveva essere quindi sui 58 anni, ancora impiegato alle Poste. È in giacca e cravatta, come tutti i ’borghesi‘ di allora, anche nel tempo libero. Come assomiglia a mio figlio Zeno, pensa P, la stessa fronte stempiata, gli pare anche lo stesso sorriso, sotto gli spessi baffi. Il piccolo P indossa quello che allora si chiamava ’pagliaccetto‘ e calza scarponcini bianchi. Non si distingue quello che stringe al petto, forse un piccolo orsacchiotto.

La fotografia della nonna Teresa, morta 43enne nel 1918, paralitica da più d’un ventennio, era comparsa in casa solo nei primi anni ’30, dopo una visita del fratello della nonna, Vittorio Cramer, capostazione delle Ferrovie dello Stato a Rovigo. Era venuto a Verona con la moglie (che la mamma di P chiamava “la zia de legno”) e i figli, portando come regalo a nipote e famiglia cioccolatini in una scatola di latta illustrata con immagini dell’antico Egitto. P contemplava rapito, tra un cioccolatino e l’altro, i Colossi di Memnone, le rovine del tempio di Temutines III e l’adorazione del sole da parte di un Faraone della XX dinastia. La scatola c’è ancora, P vi conserva nastri e spaghi.

Lo zio s’era meravigliato di non vedere in casa una foto della sua povera sorella. Di lei, difatti, né il nonno né il papà parlavano mai. Forse per un oscuro, doloroso desiderio di non ricordare, pensa P. Tutto quello che sa della nonna Teresa, P l’ha appreso dalle storie che la mamma gli raccontava: era stata colpita da una gravissima forma di artrite subito dopo la nascita del papà, e in breve la malattia, anche perché mal curata, si era aggravata, l’aveva costretta paralitica a letto. Era morta mentre l’adorato figlio era ancora prigioniero in un campo austriaco, e non s’erano potuti riabbracciare un’ultima volta. La camera s’era riempita di un profumo di rose, evocava la mamma di P, quando la nonna s’era spenta. Come una santa, diceva la mamma, che non credeva ai santi.

Dopo qualche giorno dalla visita dello zio capostazione, era arrivata da Rovigo la fotografia-ricordo della nonna: il volto di una semplice ragazza giovanissima con tanto di cappello ornato di fiocco e grande piuma. Un bel ritratto a mezzo profilo color seppia, sfumato ’artisticamente‘ nel bianco della carta, come si usava nell’Ottocento. La mamma di P aveva subito riconosciuto con commozione nel dolce visino, nei sottili capelli corti e dritti, i tratti del suo Aldo. E P vi ritrova oggi quelli del figlio Marco. L’immagine, incorniciata in pelle con decorazioni in oro, era stata collocata sul tavolo della stanza che in casa veniva chiamata ’studio‘. E così è ancora, quasi novant’anni dopo, sulla parete della camera da letto di P.

A completare il piccolo altare laico dedicato ai Lari da P, la quinta immagine, l’unica a colori, ritrae il volto della moglie Laura. Scattala nei primi anni ’70 dal figlio Marco a Marciaga, sulle alture che incoronano il golfo del lago sopra Garda, dove avevano affittato la Cabane, bella casetta finto-rustica con giardinetto, per anni di vacanze felici e spensierate o quasi, assieme ai più cari amici veronesi, che avevano case in affitto laggiù in paese. Ancora bellissimo viso, nonostante il male insidioso che avanzava nell’amato corpo. Gli occhi azzurri guardano il figlio che la riprende con l’infinito amore di una mamma, benché svelino, per P che sa, un incerto fondo di inquietudine. Foto poi usata anche per ricordo funebre, e mostra anche il busto e il grembiule che Laura portava sopra il vestito a fiori per le faccende di casa e del giardino. Per questo non le era piaciuta, quando l’aveva vista, ma resta per tutta la famiglia la sua immagine più cara. Il petalo incorniciato con lei era stato staccato della rosa che P aveva deposto sul suo corpo prima che chiudessero la bara.

Fra i tre quadri sistemati in alto, due sono stati dipinti dal papà. A sinistra, i mulini sull’Adige al tramonto, un’immagine convenzionale, un po’ buia, della Verona ottocentesca come la ritraevano i locali pittori paesaggisti e come la cantava Berto Barbarani, il maggior poeta dialettale (quasi un eponimo) della città, che il papà amava moltissimo e di cui recitava i versi con quella sua la bella voce ben impostata:

I molini che i se senta
sora l’Adese, i se cuna
soto i oci de la luna,
che le rude ghe inargenta.

(che vuol dire: i mulini che si siedono sull’Adige, si dondolano sotto gli occhi della luna, che inargenta le loro ruote).

Ora i romantici mulini, che hanno galleggiato per un millennio sull’Adige (se ne vedono un paio anche in un famoso quadro settecentesco del Bellotto), non ci sono più. P si ricorda degli ultimi. Negli anni ’30, gli pare, si era avventurato sulla pericolante passerella di legno che ne univa uno alla riva, aveva guardato le ruote a pale girare nella corrente del fiume, e le mole macinare trasformando il granturco in polenta.

P ha sempre visto in casa quel ’quadro del papà‘, non firmato, collocato in alto, sopra uno scaffale di libri. Finché un giorno, era già studente liceale, ha scoperto nello studio d’avvocato del socio di suo padre, Vittore de Luca, un dipinto identico, persino nel formato. E il papà, interpellato, gli ha detto: Certo, quello è del Mario Pajetta, e io principiante l’ho copiato, per imparare come si fa. E P si è subito ricordato di quel già anziano Mario che, in perfetto costume da ciclista da corsa, pedalava assieme al Vittore, anche lui ciclo-travestito, sulla strada che porta al Lago di Garda.

Altra storia e altro stile per l’altro quadro paterno. Non era mai stato esposto in casa, e P l’ha trovato dopo che il papà è morto. Stava da sempre in fondo a un armadio, un non visto cartone nascosto sotto la cassetta da pittore di legno del papà, che P conosceva bene, con i pennelli, la tavolozza e i tubetti schiacciati ma ancora contenenti un po’ di colore ad olio non seccato. Tanto che P ci aveva qualche volta pastrocchiato, senza sospettare che dopo molti anni si sarebbe dedicato anche lui alla pittura (però con l’acquarello e gli acrilici), con più impegno di tempo se non di èsiti.

Mai il padre gli aveva fatto cenno di altre sue prove pittoriche. Evidentemente era stata una passeggera passione d’un trentenne, stimolata dalla frequentazione di alcuni dei migliori artisti locali, che erano poi diventati i suoi amici più stretti (anche con le stesse idee politiche non più consentite), con i quali passare le serate giocando a carte, e i fine settimana in passeggiate e gite con le famiglie. E il confronto con i pittori professionisti aveva subito fermato la mano del papà, che era tornato alla sua passione vera, l’avvocatura, che oltretutto gli dava da vivere passabilmente. E quel quadro, meglio per lui dimenticarlo in fondo al cassetto.

Girando il cartone ritrovato, P vede con sorpresa un paesaggio dipinto bene, secondo gli stilemi dell’école de Paris e del chiarismo, con pennellate magre che gli sembrano già esperte. La frequentazione di pittori veri era servita all’occhio sensibile del dilettante. Chissà se avrebbe potuto essere anche lui un buon paesaggista… Sul retro stavolta c’è la sua firma e la data: 1929. Il pittore-papà aveva 34 anni e il figlio quattro, ma P non rammenta di averlo mai visto col pennello in mano. Un’immagine che un bimbo non dimenticherebbe. Spiegazione semplice: il paesaggio moderno si doveva ritrarre en plein air, da una veduta vera. Così P immagina il papà, in giacca e cappello, una domenica soleggiata, che spinge sui pedali della bicicletta, con la cassetta sul portapacchi, lungo la salita che porta alle Torricelle, collina a ridosso della città. Gli pare anche di riconoscere il posto di quella casetta con i cipressi, in fondo al prato obliquo. Si propone, in una delle ormai rare volte che torna a Verona, di andare a cercarla. Chissà se c’è ancora…

Tra i due quadri del padre, P ha disposto quello di uno dei migliori pittori veronesi del ‘900, l’amico più intimo di famiglia: Guido Farina. È un bellissimo gran mazzo di fiori rossi con uno bianco in alto, in un una caraffa tonda posata su un paio di grossi volumi. Al posto del titolo del libro più in vista, c’è la dedica del pittore: ’a Laura e Popi‘, con la firma e la data: 21 giugno 1951. Il giorno delle nozze di L e P, nell’antica chiesa di S. Fermo.

P conosce bene quei libroni sui quali poggia il vaso di fiori: due monografie d’arte (non ricorda di quali pittori, forse Matissse e Cézanne), viste tante volte nella stanza d’ingresso in casa del pittore, che serviva anche come sala d’attesa per l’atelier (così si diceva allora, alla francese), di modista della moglie, la signora Olga, la più apprezzata fabbricante della città di cappelli per signora.

Ogni anno il pittore e la moglie passavano un paio di settimane a Parigi, lui ad aggiornarsi sull’arte contemporanea, lei sull’ultima moda, allora dettata in ogni campo dalla creatività francese. Anche i due libroni erano stati comprati là (allora non se ne facevano così in Italia), e anche le vivaci cravatte di Guido. Olga era una donna molto bella; quanto al marito, aveva il tipico carattere dell’artista egocentrico ed era considerato ’bruttissimo’ dalla mamma di P, che non poteva non confrontarlo col fascinoso papà.

Nonostante l’assidua frequentazione, P non ricorda di aver mai visto dipingere quel pittore tanto amico dei suoi. Non entrò mai nel suo studio, e persino in qualche settimana d’estate, quando egli era ospite della coppia in una casetta tra gli ulivi a Torri del Benaco, se il Guido stava in giardino col cavalletto, P sapeva che non si doveva avvicinare, perché subito l’artista palesava la propria contrarietà, smettendo di lavorare e coprendo la tela con lo straccio usato per pulire i pennelli.

P deve però a quello scorbutico pittore qualcosa della propria educazione a pensare. Una volta, mentre loro tre stavano a tavola a Torri, e il Guido esprimeva, con la consueta drasticità, le sue critiche a certi fatti (quali saranno stati?), e P mostrava con scuotimenti del capo e gesti di concordare con lui, l’artista s’era interrotto, lo aveva guardato severo dicendo: non darmi ragione in modo così ipocrita, tanto per farmi piacere, voglio sapere cosa ne pensi veramente tu, dentro la tua testa. E P s’era dovuto improvvisare (non rammenta più come), una risposta motivata e convincente sul perché era d’accordo con lui.

Dei due quadri sotto, quello di destra è di Nurdio Trentini: una veduta di Negrar, il comune più popoloso della Valpolicella, patria del recioto e del preziosissimo amarone. Non c’è la data in cui fu eseguito (pare che l’autore raramente usasse metterla), ma P l’ha sempre visto in casa e una volta, sarà stato negli anni ’40, aveva sentito il Nurdio stesso, in vista ai genitori, mormorare tra sé qualcosa mentre lo riguardava dopo tanto tempo, come fosse stupito e ammirato del proprio modo di dipingere da giovane. Alberi, case e sfondo dei Lessini, tutto minutamente ritratto, con colori netti e chiari e poche ombre essenziali. Realistico ma anche no. Al centro, il campanile della chiesa senza cupola, come dovrebbe essere ancora, stando alle foto più recenti che P è riuscito a trovare. Un modo di dipingere completamente diverso da quello del Nurdio più vecchio, aggiornato ai francesi di moda.

P ricorda che il pittore era anche un bravissimo caricaturista, che una sera, a una cena sul lago di Garda, aveva ritratto sul rovescio dei menù, con pochi rapidi tratti, bonari ma implacabili, le facce di tutti i commensali. C’erano anche le caricature di P bambino, della mamma e del papà, che erano state conservate in casa ma mai incorniciate, e forse anche per questo erano andate purtroppo perse.

Nurdio era il fratello, più giovane di quasi vent’anni, di Guido Trentini, che ebbe più successo e notorietà non solo locale. A soli 21 anni fu invitato alla Biennale di Venezia nel 1910. P ha appeso sopra il proprio letto, di fronte alle dodici immagini, un suo quadro non datato (probabilmente degli anni ’20), di vaga ispirazione secessionista, donato all’amico avvocato, forse per una assistenza legale. Guido era stato intimo di Felice Casorati, negli anni in cui il pittore piemontese abitava con la famiglia a Verona.

La quinta immagine, proprio sopra la fotografia della moglie, è uno dei due superstiti quadri a olio di Laura (l’altro, dove sarà?). Dietro c’è la data: “luglio 1956 a Desenzano”. Là ci stava la mamma di lei, la nonna Lietta, che d’estate ospitava la famigliola, il nipotino Marco e poi anche Zeno, ormai di sei mesi. Una natura morta con una caraffa bianca e una fruttiera con sette mele o pere. Tutti gli oggetti sono delineati da un’essenziale e grossa linea ben tracciata col pennello. I colori sono piatti, con qualche lieve sfumatura, appena quanto basta a dare, con massima efficacia e moderna semplicità, l’idea delle forme. P non cerca riferimenti o fonti di ispirazione: no, quella è per lui l’immagine meravigliosa di un’anima (non sa trovare espressione meno convenzionale), un capolavoro assolutamente senza prezzo in cui ogni giorno si immerge con amore e nostalgia.

Le ultime due immagini a sinistra, P le aveva sempre viste nello studio del papà e sono quindi legate soprattutto al suo ricordo. Ma non solo. La vedutina dell’Adige in piena all’altezza della chiesa di S. Anastasia, con in fondo, alla curva del fiume, il Ponte della Pietra, è firmata senza data dal veronese F(elice) Nalin e risale probabilmente ai tardi anni ’30. È cara a P anche perché dietro quegli alberi che si vedono sulla destra c’era (e c’è ancora), il liceo-ginnasio “Scipione Maffei”, dove il papà e lui hanno studiato.

Quanto all’acquaforte-bulino I saltimbanchi, è un regalo per il capodanno 1932 di Pino Casarini, lo stesso artista che  aveva disegnato nel 1920 il bellissimo papiro di laurea in giurisprudenza del papà e dell’amico e poi socio di studio Vittore De Luca. Bravo caricaturista, ma anche eccellente pittore e incisore, di cui c’era in casa un bel quadro andato malauguratamente venduto alla fine degli anni ’70, assieme a vari dipinti di Farina, per far soldi e comprare a P e famiglia la casa a Genova, in via XX Settembre. Tutte opere che oggi varrebbero un sacco di Euro.

I saltimbanchi ritratti da Casarini non sono opera di fantasia, ma sono esistiti davvero, P li ricorda proprio così, in tutto il loro squallore, mentre si esibivano in strada nel quartiere allora malfamato di Santo Stefano, lungo la riva dell’Adige, che si intravede dietro il vecchio assistente, l’ubriacone che regge a stento la sedia. Ogni particolare, compreso i poveri cagnetti, è perfettamente come P ha ancora in mente: la compagna, una donnetta pallida, magra e sfiorita, tette flosce e sorprendenti braghette corte (allora comparivano solo nei film-commedia americani o li indossava al Lido di Venezia qualche sofisticata miss). Si faceva legare (anche con catene) con finta sofferenza ben interpretata, e poi riusciva a liberarsi. Perfetto così com’era anche il suo compagno, in quella scena vagamente sado, quel pezzo d’uomo abbronzato con larghe braghe fluttuanti alla zuava, tenute su da una fascia fantasia, e ai polsi bracciali pre-punk di pelle borchiata. Dopo la scena della donna legata, l’uomo spargeva sul tappeto qualche manciata di vetri rotti e, a torso nudo, ci si sdraiava sopra, invitando qualcuno del pubblico a salirgli sul petto. Poi si alzava e mostrava la poderosa schiena intatta, senza una stilla di sangue. P si chiede ancora come facesse, dove fosse il trucco.