Frammenti autobiografici

Il nome e i suoi problemi

Come chiamarlo? Il papà Aldo (si può immaginare che sia lui) ha un’idea e la propone alla mamma e al nonno Marco: diamogli il doppio nome del bisnonno paterno, che si chiamava Moisè Vita. Però poi il papà stesso o qualcun altro deve ripensarci: mancano ancora otto anni all’avvento di Hitler, ma evidentemente i germi dell’antisemitismo sono già nell’aria anche a Verona (il papà e il nonno devono aver benissimo presente quello che è accaduto nella relativamente vicina Austria, appena qualche decennio prima, alla fine dell’Ottocento, con l’elezione a sindaco di Vienna del famigerato razzista populista Karl Lüger).

Lasciamo da parte (decidono dunque), il biblico Moisè, arcaica traduzione italiana di Moshé, troppo giudaico e impegnativo, anche riducendolo al più moderno Mosè. Chiamiamolo Vita, traduzione di Chayÿm o Chayim o Hayim, solo per citare le versioni più gettonate e approssimative, da pronunciare con l’iniziale fortemente aspirata e ‘golizzata’, come sa fare molto bene il nonno Marco). Pare poi, tra l’altro, che Vita sia un segno di buon augurio.

Nome singolare, però, per un maschio italiano (ma alla mamma andrebbe bene anche così). Bisognerebbe aggiungerne un altro che fosse chiaramente adatto al genere. Giusto. Non si sa chi propone allora: chiamiamolo anche Carlo. Giusto, nome assai cristiano e controriformista (San Carlo Borromeo), legando il bimbo anche al ricordo di don Carlo Cramer, parroco di Erbezzo, sui monti Lessini, zio della nonna materna buonanima, la cattolicissima Teresa, mamma di Aldo (è certamente il più piccolo dei due bimbi nel bel ritratto primo-Ottocento di famiglia, in bella vista in salotto, del pro-prozio dottor Francesco Cramer, opera di uno sconosciuto allievo dell’Appiani, autoritrattosi in secondo piano).

Così si accontentano entrambe le confessioni (non solo paterne: i Carli non mancano anche nella famiglia papista della mamma), e si rafforzano nel neonato le opportunità di sentirsi bene integrato nella società italiana, della quale peraltro era già integratissimo e senza problemi il bisnonno Moisè Vita, come lo sono il nonno Marco e naturalmente il papà Aldo. Senza dimenticare tuttavia le cosiddette ‘radici’.

L’unico che non dovrebbe essere d’accordo sarebbe il poppante P, appesantito da due nomi e soprattutto da quel Vita, che lo costringerà per tutta la sua esistenza a recitare una precisazione divenuta col tempo uno stereotipo, al cospetto delle perplessità di ogni richiedente le sue generalità, No, non Vito, ma Vita, che non è il mio secondo cognome ma il mio primo nome.

Il problema è però (in sostanza o solo in apparenza?), risolto solo pochi giorni dopo la nascita, quando non è ancora un problema. Arriva a Verona da Rovereto Tirolense, per congratularsi del lieto evento e conoscere il neonato, una innominata zia della fu nonna Teresa. Costei, vedendo il bimbo tra le braccia amorose della sua mamma Miryam, esclama estasiata (probabilmente ancora prima di averlo guardato):

Oh, che bel popi!

Bene, per quanto a raccontarlo sembri impossibile a tanti anni di distanza, basta quell’esclamazione a decidere come si chiamerà veramente P. Forse, inconsciamente, gli stessi coniatori del Vita Carlo si rendono conto che un doppio nome così grava il portatore d’un peso eccessivo. E il vezzeggiativo popi, tipicamente trentino, col quale ‘su da loro’, a quanto pare, usano chiamare i bimbi in fasce, diventa seduta stante il soprannome o nomignolo o nickname coccolatorio di P. Provvisoriamente, si pensa certo, solo per ora che è un poppante. Ma si sa che le cose provvisorie hanno ottime probabilità di diventare definitive, come difatti avviene anche in questo caso. Nome breve, sbrigativo, comodo e (cosa non irrilevante), leggermente più maschile, forse, del Vita (benché richiami il Bobi, appellativo di molti cagnetti, tra cui proprio il bastardino terrier che entrerà di lì a poco a far parte della famiglia).

Va aggiunto che P ha nel tempo rapporti variabili col suo vero nome. Diventato giornalista, si firma dapprima solo Carlo seguito dal cognome. Quando, molto più tardi, nel tempo libero, comincia a scribacchiare per sé, si sceglie uno pseudonimo o eteronimo (non lo si chiami nom de plume, per favore), invertendo l’ordine dei fattori: Carlo Vita.

Anni prima, quando dirige a Genova la redazione Ligure dell’Agenzia ANSA, i colleghi dei giornali, che ignorano il suo soprannome usato solo in famiglia, lo chiamano Carletto. Frattanto succede che un comico famoso, Carlo Dapporto, intitola un suo popolarissimo spettacolo di varietà: Carlo non farlo. Undisastro per P. D’ora in avanti, ogni volta che si qualifica come Carlo, sente risuonare nella mente quel maledetto titolo, e lo lega indissolubilmente al suo nome come epiteto canzonatorio. Che continua a rimanergli dentro, nonostante gli anni passino svelti e presto cancellino nei più vecchi il ricordo rivistaiolo, per non parlare poi dei giovani che nemmeno sanno più chi fosse quel Dapporto o, nei casi migliori, ricordano il figlio, attore anche lui.

Di tanto in tanto, capitandogli di riflettere, P sente che tutta quella confusione di nomi, nomignoli ed eteronomi, così come il fastidio di una perenne precisazione di ciò che lui veramente è, deve aver avuto e continua ad avere un peso (nomen omen) nel farsi di certe sue incertezze esistenziali. La coscienza (o istinto di conservazione?), d’altra parte, raccomanda opportunamente di dare sempre la colpa di ciò che si è ad altri, o a qualcosa di esterno a sé. P lo fa, e in qualche modo gli serve.

Comunque sia, il vero nome di P, per la famiglia e per gli amici, resta Popi. Quando muoio, egli pensa, devono scriverlo, estrema precisazione, anche nel necrologio. E magari sulla lapide.