Frammenti autobiografici

Un disegnatore nato

Il disegno è la passione dominante del piccolo P. Così non manca di ripetere la mamma, negli anni che seguono, a tutti gli astanti a portata di voce (e a P stesso). Sempre con la matita in mano sin da piccolo, racconta la mamma, o addirittura: ha imparato prima a disegnare che a scrivere.

Poi, col tempo, tutti gli astanti muoiono, compresi purtroppo la mamma e il papà, e solo il vegeto P ‒ unica discutibile fonte ‒, resta a testimoniare la veridicità dei fatti narrati. Non rimane che chiedere al lettore di sospendere la naturale diffidenza verso chi parla di sé (anche in forma di finzione oggettiva), e di andare avanti.

La mamma dunque cambia presto e volentieri le sue convinzioni sull’apparizione della civetta alla finestra nella sera fatale del parto, e sposa senz’altro la tesi ottimistica del papà e del nonno: la nottola come presagio della nascita d’un genio.

Famoso (nel senso che se ne continua a parlare così tanto che non se ne può più), è l’episodio della pecorella che P, novello Giotto, disegna senza incertezze dal vero, alla bella età di due anni, durante una gita in montagna. Di un po’ più in là è anche un’altra manifestazione del genio multiforme di P, che al cospetto di un cielo annuvolato al tramonto, esclama: Mamma, guarda la nuvolaglia!. Quindi, precocissimo non solo nel disegno, ma anche nell’eloquio. Tutto prelude al meglio.

Negli archivi della famiglia non c’è traccia di quella fase d’esordio di P. I primi documenti del genere che si siano conservati (sempre grazie alla mamma), risalgono a un po’ più tardi, al già interessante periodo della scuola elementare. Caratterizzato, pare, da un P sempre impegnato intensamente in un lavoro d’osservazione.

Il piccino osserva infatti a lungo il padre che, chino sugli album e quaderni del figlio, tenta faticosamente di risvegliare in sé il presunto incanto del mondo infantile, sforzandosi con vari artifici di illustrare in modo ingenuo i componimenti fatti a casa dallo scolaretto (per lo più sotto dettatura). Il padre, una volta rifattasi la mano, ritrae nei quaderni scene di ogni genere: viali alberati, paesaggi, automobili, biciclette, gatti, cani, galline, la mamma, il bambino e se stesso. Egli è per il figlio un vero maestro, gli insegna come devono disegnare i bambini, e P è lesto ad apprendere.

Egli deve al padre, ma anche al proprio spirito di osservazione, se ha sempre buoni voti in disegno. Così in classe, quando il padre non è lì a soccorrerlo e deve far tutto da sé, sa come arrangiarsi.

Si rivelano le sue doti di riproduttore attento e accurato della realtà. Una volta disegna, per esempio, la lavagna della sua aula. Nera, perfetta, che si conserva ancora. Un’altra volta, essendogli venuto l’estro di disegnare il nuovo impianto radiofonico della scuola, chiede il permesso di ritrarre dal vero gli apparecchi che si trovano in direzione. Un vero successo, a quanto sembra.

La visita in direzione consente tra l’altro a P di procurarsi un consistente quantitativo di carta bianca. Un furto? I fatti, stando al resoconto di P, sono i seguenti. Accanto alla radio e al microfono, oggetto del disegno che P esegue attentamente dal vero, c’è un tavolino, su cui campeggia una pila di bellissimi fogli candidi. P, a disegno concluso, allunga affascinato due dita per prenderne uno. Ma con quell’uno vengono su altri fogli legati al primo da qualcosa. Nella concitazione, P non abbandona la presa e così si trova in mano un intero blocco. Se lo infila sotto braccio e torna in classe. Consegna il foglio col disegno al maestro, che approva il lavoro ben fatto, loda P e non nota ciò che egli porta sotto il braccio. P raggiunge il suo posto e ripone la refurtiva nella cartella.

P non ha in proposito nessun problema di coscienza. Solo frutto di un concatenarsi imprevisto di eventi. Se qualcuno dicesse a P che ha rubato, egli cadrebbe sinceramente dalle nuvole, anzi, dalla nuvolaglia.