Storie

Storie Brevi – Cosa so?
Profezia

Solo le profezie sono vere
WALLACE STEVENS, L’angelo necessario

Una volta d’estate al mare, avrò avuto sei o sette anni, il villeggiante dell’ombrellone accanto mi chiese cosa volevo fare da grande e io, continuando a giocare con la sabbia risposi: il ruffiano.

Stette zitto per un po’ ad osservarmi. Poi mi domandò se sapevo cosa volesse dire. E’ uno che raccoglie le cicche per strada, dissi seguitando a giocare. Lui scosse la testa, si voltò a parlare con i grandi di un altro ombrellone e non mi guardò più.

Cosa significasse veramente ruffiano lo seppi qualche anno dopo, addirittura da Don Chisciotte, che peraltro, nella sua sublime ingenuità, traccia un ritratto tutt’altro che spregevole del mezzano amoroso, figura necessaria in una perfetta repubblica. Che fosse, invece, uno che raccoglie le cicche me lo aveva spiegato il nonno, un giorno che brontolava quasi tra sé, come faceva sempre: un’altra volta che nasco voglio fare il ruffiano, e non si capiva se scherzasse o dicesse sul serio. Che cos’è un ruffiano, gli avevo chiesto e il nonno, preso la sprovvista, si era subito inventata la versione innocente, da me poi riversata al villeggiante curioso.

Non è che io veramente avessi intenzioni serie di dedicarmi da grande a raccogliere le cicche. In realtà non avevo nessuna intenzione, nessuna idea di quello che avrei voluto fare e, per la verità, nemmeno da grande l’ho mai avuta. Ma quella volta al mare avevo d’istinto sentito che a una domanda cretina dovevo dare una risposta adeguata. O forse non è così, e a sei sette anni io ero già portato a quella pratica viziosa di prudenza, che ai bei tempi andati si chiamava recusatio, e che ho poi sempre seguita, svalutando me stesso e il mio avvenire per pigrizia, per non avere fastidi o pagare tributi. O forse, ancora, ho posseduto fin da piccolo il salutare senso dell’autoironia, ereditato dal nonno. Chissà. Le ipotesi sono tante, e non è detto che il protagonista dei fatti azzecchi immancabilmente quella giusta.

Ma chi sta raccontando in prima persona è davvero il protagonista dei fatti, o sono i fatti che si raccontano e che, semplicemente avvenendo, governano la vita? Ecco una bella domanda, alla quale non chiedete a me di rispondere.

Supponiamo, per semplificare le cose, che il protagonista sia proprio colui che racconta i fatti e facciamo un salto di tredici quattordici anni. Io, allora ventenne o poco più, avevo una fidanzata, o meglio qualcosa di meno ufficiale, che ancora non impegnava un’intera esistenza: una morosa.

Perché una morosa diventasse una fidanzata dovevano concorrere, almeno dalle mie parti e in quei tempi, già meno formali ma non meno fatali di quelli che erano toccati ai miei genitori (peraltro sposi innamorati), alcune circostanze esattamente codificate o quasi. Si intende che qui stiamo parlando di quel tipo di morose candidate a fidanzate che già allora cominciavano a prevalere, assieme ai loro morosi candidati a fidanzati, nella formazione di coppie su base spontanea e abbastanza paritetica, e non di unioni combinate sulla base delle convenienze.

Ci voleva, innanzitutto, l’attrazione reciproca, ovvero ciò che i due principali interessati ritenevano corrispondesse a quel tipo di muto richiamo dovuto ad affinità più o meno elette, chimiche, di pelle eccetera, che le nuove generazioni anglicizzano comodamente nel feeling. Non mi ricordo come lo si definiva ai miei tempi. Non certo “attrazione erotica”, come oggi non pochi dicono in modo esplicito e senza arrossire, nelle normali conversazioni e anche alla radio e alla televisione, saltando a piedi pari metafore, eufemismi e altri disusati giri di parole.

Fatto sta che allora si riteneva indispensabile anche uno scambio di idee, sia pur rudimentale, dal quale risultasse che su alcuni punti fondamentali intercorreva una consonanza di vedute. Probabilmente questo è giudicato importantissimo anche oggi, se si deve dar credito alle Poste del Cuore, instancabili nel raccomandarlo, sia pure in stretto accoppiamento con quello che nell’amore c’è di “materiale” (ecco, ora ricordo, così si diceva allora).

Su altri punti meno essenziali la consonanza poteva non esserci, o non esserci subito, anzi, un po’ di diversità serviva, almeno nei primi tempi, ad animare il dialogo. Se questi punti minori di discussione finivano presto per sparire, sommersi nel calmo oceano di un accordo che sembrava occupare tutto fino all’orizzonte, era fatta: due anime si scoprivano gemelle e nasceva l’amore totale. E il fidanzamento seguiva come una lieta necessità.

Se le discussioni, invece, continuavano e dal mare increspato o procelloso dei discorsi insistevano ad emergere minacciosi scogli o infide secche, poteva succedere che uno dei due protagonisti, o tutti e due, si stancassero e che la storia finisse lì. E si cambiava morosa o moroso, senza (almeno dalle mie parti), tragedie greche. Ad altre coppie poteva accadere che, di discussione in discussione, la storia si protraesse e diventasse, più che un amore, un “rapporto difficile”, che seguitava a stare in piedi non si sa come, forse costretto a durare proprio in forza delle discussioni, che finivano per diventare litigi. Allora non si parlava più di anime gemelle, ma di anime che erano tenute assieme, quasi prigioniere, dal desiderio di prevalere l’una sull’altra, male avvinte dal rancore e dal rito ricorrente di provvisori armistizi, ratificati da baci o addirittura da clandestini, scomodi congiungimenti. E il fidanzamento, tra continui rinfacci e sfide, comunque si faceva e portava fatalmente al matrimonio.

Ma noi due eravamo del tipo anime gemelle e continuavamo a parlare, anzi a sussurrare, stando stretti l’uno all’altra come se intorno non ci fosse spazio sufficiente. In realtà, di spazio in più non ce n’era: l’unico esistente lo occupavamo noi due. Tra gli svariati aspetti della vita o moti interiori che allora ci parevano il sale del vivere, non ce n’era uno che non condividessimo. Cercavamo di stare assieme il più possibile. Ogni giorno, al momento di lasciarci per temporanei, sempre più fugaci rientri in famiglia, i commiati non finivano mai. Correvo a casa in bicicletta, mangiavo in fretta e subito la chiamavo al telefono (allora non erano molti i genitori che avessero l’apparecchio, e si poteva parlare per giornate intere con il costo di uno scatto). Riprendevamo il discorso interrotto alitando nella cornetta parole inframmezzate da pause e da sospiri non meno significanti. E anche lì i commiati non finivano mai.

Brevissime separazioni per motivi di studio o di impegni familiari, o minimi eventi che decidevamo di considerare importanti, addirittura fondamentali per la nostra “storia” (altra parola che allora non si usava), erano occasioni per mandarci lunghe lettere, scritte con la penna stilografica, azzurro su bianco, o con il pennino intinto nel calamaio, nero su bianco. Non con la penna a sfera, che allora era una rara costosità, e non con il pennarello, che ancora non esisteva.

C’era naturalmente anche il piacere-problema delle effusioni, i baci e il resto. Perché non solo piacere ma anche problema? Questo ora lo posso dire: direttamente o meno sta alla base dei fatti che cerco di rievocare.

Ci baciavamo moltissimo. Continuamente e con grandissimo piacere, mentre stavamo zitti o interrompendo i nostri impercettibili sussurri. Non ho mai fatto i conti ma sono convinto che arrivammo a superare largamente, nel giro di qualche mese, le due settimane di bacio continuo, giorno e notte, assegnate (a quanto sembra) a un essere umano medio nel corso d’una vita. E di bacio in bacio, la confidenza tra i nostri corpi era cresciuta altrettanto in fretta che tra le nostre anime, ed eravamo arrivati quasi in fondo. Quasi in fondo. Avremmo potuto, anzi dovuto raggiungere vittoriosamente e di comune accordo il traguardo ultimo, solo che io lo avessi voluto. Ma io indugiavo, a un passo dalla fatidica meta. Ci giravo intorno, temporeggiavo, cincischiavo.

Una ragione potrebbe essere presto detta: avevo paura. Una paura cieca e stupida del faccia a faccia finale, dovuta (almeno così penso), alla mia insicurezza. In fatto di sesso non avevo avuto sino a quel momento che poche e penose esperienze di postribolo, naturalmente interrotte subito dopo il mio innamoramento. Ma ero, istintivamente, bravissimo nei preliminari, e questo aveva fatto credere alla mia ragazza, molto ingenua e ingannata dall’amore, che io fossi quel che si dice un fulmine di guerra. Altra ragione potrebbe essere che io mi rifiutavo, come succede a tanti, di crescere. Arrivare in fondo, assieme a colei che amavo e che desideravo moltissimo, sarebbe stato l’atto estremo, l’irrevocabile annuncio che ero diventato davvero un uomo e che mi dovevo assumere le responsabilità corrispondenti al mio nuovo status.

Quasi tutte le femmine, invece, una volta presa una decisione, vogliono andare in fondo senza ulteriori indugi. Vogliono donare per concludere, per crescere presto, e il più delle volte ci riescono. Così fu lei a stabilire che era ormai arrivato il momento del gran passo.

Avvenne in casa mia, una villetta periferica, sul mio letto, un giorno che i miei erano assenti. E fu come un esame su una materia che mi vedeva impreparato. L’incontro tanto agognato con la natura femminile, l’epifania del roseo corpo nudo nella sua irrimediabile ostensione, la pelle calda e profumata, l’umida intimità goduta senza pudori, l’esperienza ultima del tutto. Ciò che avrebbe potuto essere semplicemente il momento di fusione totale, di assoluta felicità tra noi due, unici protagonisti e testimoni, si rivelò una prova goffa, deludente per me e, temevo, anche per lei. Tanto deludente (tutto qui?), che ad una certo punto, avvenuta la desiderata ma paventata unione, mi ero sollevato su di lei dicendo, d’impulso e in modo assurdo e stupido: mi sento solo! E lei aveva, altrettanto assurdamente, riso. Poi, mentre si rivestiva, io nuovamente infiammato alla vista del suo dolce corpo, l’avevo riabbracciata ma lei si era scherzosamente sottratta. La mia ormai fidanzata (nello spirito e, comunque fosse andata, anche nella materia), non sembrò dare peso alla mia delusione e non mostrò, se c’era stata, la sua. Né io gliene chiesi conto. Osservò soltanto, sempre scherzosamente: sembra che sia stato tu a perdere la verginità, non io…

Mentre la riaccompagnavo a casa, fummo per la prima volta silenziosi.

Il giorno dopo, dalla finestra aperta della camera affacciata sul giardino, dove studiavo svogliatamente, vidi passare oltre la siepe un cappellino da cui spuntava una zazzeretta bionda. Erano, inconfondibili, i segni della mia ragazza. E andavano con lei verso la città. Un’apparizione che mi sorprese e insieme mi allarmò d’improvviso sospetto. Che cosa faceva, nella mia strada di sobborgo, lei che abitava al centro? Perché andava via in fretta superando il mio cancello senza fermarsi? Da dove veniva? E senza che io lo sapessi, visto che avevamo preso l’abitudine di informarci reciprocamente dei nostri più insignificanti spostamenti. Corsi alla finestra e la chiamai. Il cappellino si fermò, la zazzeretta si girò, comparve il viso amato che si sporgeva a guardare al di sopra della siepe. Gli occhi azzurri cercarono da dove provenisse la mia voce, e mi videro. Poi la cara figura si mostrò, intera e incerta, nel varco del cancello e ristette silenziosa. La mia ormai promessa, la metà di me, sembrava contrariata di essere stata scoperta. Mi cadde il cuore. Entra, le dissi, e la vidi indugiare. Dai, entra, ripetei con voce ora angosciata. Spinse il battente e avanzò come di malavoglia nel giardino, verso la finestra. Dove sei stata, e dove stai andando, le chiesi. Mi fissò di sotto in su. Pareva incerta se rispondermi. Sentii una morsa di paura afferrarmi lo stomaco. Non so se dirtelo, mormorò alfine. La morsa mi strinse disperatamente. Restai a guardarla senza avere il coraggio di insistere.

Ma sì, te lo dico, proruppe alfine: sono stata da uno che legge il futuro. Abita proprio qui, in fondo alla tua strada. Ti apro, dissi, e volai alla porta d’ingresso. Ci abbracciammo stretti, di nuovo uniti in un solo corpo. Per la prima volta qualcosa si era frapposto, sia pure per poco, fra quelle che ci illudevamo fossero le nostre reciproche sincerità.

Spiegò in fretta: un sensitivo che dicevano bravissimo era arrivato in città da pochi giorni e, per una singolare coincidenza, aveva preso alloggio nella mia strada. L’amica fidata della mia ragazza, informatissima di ogni novità, le aveva suggerito di consultarlo.

Mi confessò di aver temuto e previsto che io da una finestra la cogliessi, mentre oltrepassava il mio cancello come un’estranea. Se l’avessi scoperta prima, quand’era filata lungo la siepe trepidando ma senza nascondersi, diretta all’appuntamento col veggente, forse avrebbe rinunciato, avrebbe finto una visita improvvisata a me. Ma ormai era andata così. Volevo sapere cosa le aveva detto? Certo che lo volevo sapere, e lei era impaziente di dirmelo.

Spiritosamente come sempre, con l’aria tra crederci e non crederci, mi raccontò l’incontro con l’indovino. Non mi disse perché fosse stata spinta a interrogare il futuro e, ancora una volta, io non glielo chiesi. Credevo, del resto, di saperlo benissimo: era certamente per via del giorno prima, di quel nostro “aver fatto tutto” (come allora si diceva), che io sentivo così lontano dalla completezza, da quella totalità vagheggiata nella mia immaginazione fin dall’adolescenza. Era dunque rimasta anche lei insoddisfatta e delusa, e se n’era preoccupata tanto da voler interpellare un ciarlatano di profeta?

Capii molto più tardi che la decisione di ricorrere al veggente non era dovuta alla circostanza che la prova fosse andata così così, e del cui scarso successo, come avviene, lei si attribuisse (seppi poi) buona parte della responsabilità. Era stata la prova in sé, non il suo esito, a muovere la mia ragazza. Nel bene o nel meno bene, quell’esperienza rappresentava uno spartiacque, una svolta nell’esistenza. Una scelta irrevocabile si era compiuta e occorreva subito scrutare nell’avvenire di una sorte che ora ci accomunava.

Non era ancora venuto il tempo in cui la condizione di vergine sarebbe stata vissuta come una momentanea disabilità di cui doversi liberare il più presto possibile, preferibilmente in modo piacevole e, in ogni caso, senza farne un dramma. Per la mia fidanzata non erano in questione i sentimenti sui quali, come per me, non esistevano dubbi, e nemmeno la loro esplicazione nel sesso, che poteva aver suscitato qualche interrogativo, subito accantonato per inesperienza o per non starci a pensare su. Con il suo innato buonsenso, lei guardava piuttosto al tempo di una vita intera da trascorrere insieme. Tempo allora inconcepibile nella sua estensione astratta, ma non nella prospettiva concreta di doverlo condividere giorno per giorno con un altro essere, che ero io.

Come sarebbe stata quella vita in due? Una storia esemplare di fedeltà senza fine, tipo Filemone e Bauci, che entrambi avevamo faticosamente tradotto sui banchi di scuola? Sarebbero venuti dei figli? E, già che si era nel discorso, la nostra sarebbe stata una famiglia ricca o povera? Saremmo stati, insomma, felici?

Erano domande che io, tutto preso dalla sensazione di scacco e di incertezza che mi aveva colto il giorno prima sul mio letto, nemmeno mi ponevo. La preoccupazione del sesso dominava in quel momento tutto in me. La mia donna, luce dei miei occhi, calore del mio sangue, mi aveva offerto il suo massimo e più prezioso dono (questo era il senso della cerimonia in camera mia), e io avevo sciupato, sprecato il rito. Uno spreco che ora improvvisamente appariva alla mia inesperienza come l’oscuro fantasma di un futuro diverso da quello che mi ero andato illusoriamente costruendo.

Avevo, anzi avevamo entrambi, per ragioni differenti, lo stesso bisogno di essere rassicurati. A me non passava nemmeno per la mente l’idea che, riprovandoci, tutto si sarebbe aggiustato, e mi dibattevo nella mia stolidità. In lei, invece, ingenuità e naturale senso di concretezza avevano congiuntamente agito. S’era confidata con l’amica del cuore e, confortata dal suo consiglio, aveva deciso la visita al lettore del futuro.

Andare dall’indovino era un tipico, contraddittorio atteggiamento femminile, pensavo, il solito ricorso all’irreale, all’irrazionale, al magico. Ma io stesso, poi, mi sorprendevo curioso, o per meglio dire ansioso, di sapere il risultato della consultazione, visto che c’era stata.

Seppi così che l’indovino, uomo dotato di un’autorevole barba, aveva fermato, alzando una mano, la mia fidanzata che stava entrando. Lei ha appena fatto l’amore, le aveva detto con sicurezza. Non era una domanda ma una constatazione, che aveva subito sorpreso e impressionato la giovane cliente. Se quel tipo “vedeva” così bene nel passato, sia pur recente, poteva certamente scrutare con altrettanta acutezza nel futuro. Anch’io fui colpito e allora non pensai che, probabilmente, quel ciarlatano barbuto accoglieva con la stessa frase, pronunciata con lo stesso tono, tutte le ragazze che andavano da lui per la prima volta. Doveva essere sicuramente uno che, se non altro, conosceva bene la psicologia elementare della gente e contava su un’alta probabilità di centrare il bersaglio. Dopo di che, vinta sin dalla prima battuta la diffidenza iniziale della clientela (quasi tutte donne, ma anche con gli uomini il trucco poteva funzionare) diventava più facile indovinare altre cose, magari da una parola, da un gesto o da un semplice atteggiamento. Lui stesso poteva abilmente mettere in bocca alla vittima inconsapevole quello che essa voleva sapere da lui. O forse quel tipo non era un ciarlatano ma un vero sensitivo. Uno di quelli, si diceva e ancora si sente dire, che riescono a percepire certe informazioni sulla realtà circostante, inaccessibili o sfuggenti a noi persone normali, e a trarne per deduzione inconscia elementi per capire cosa succederà a una certa persona. O addirittura era un mago, che guardava in presa diretta nel futuro…

Vedo una divisa all’orizzonte, aveva vaticinato subito dopo, e la frase era sembrata comicamente drammatica alla mia ragazza, ma era vero: eravamo entrambi preoccupati che io fossi chiamato al servizio militare (se la cliente fosse stata una vecchia, la frase avrebbe potuto essere: vedo un’ombra all’orizzonte, o qualche altra minacciosa percezione del genere). Ma poi tutto si sarebbe accomodato, aveva aggiunto il veggente, ben consapevole che da noi, tranne che per la morte, prima o poi tutto si accomoda sempre.

Vedo una grande biblioteca, aveva ancora detto. Io non possedevo che i pochi libri di uno studentello, ma mio padre ne aveva tanti. Era bastato un accenno o chissà che a suggerirgli che io ero interessato alle cose “culturali”? E a sintetizzarne il senso nell’immagine d’una biblioteca, la cui “grandezza” non è, d’altra parte, che un concetto relativo? Fatto sta che, anni dopo, quando i libri in casa nostra cominciarono ad essere parecchi, la loro sistemazione e pulizia, per non parlare dei traslochi, diventò un problema, più per mia moglie che per me. Anche quella era dunque una profezia azzeccata.

Avrei trovato un buon lavoro? Sì, l’avrei trovato, ma che stessimo attenti: se ci fossimo dovuti trasferire in un’altra città, il nostro amore sarebbe stato a rischio. Non saremmo stati ricchi, ma avremmo goduto di un tranquillo benessere. Avremmo avuto tre figli. E io sarei sopravvissuto a lei.

I figli furono due, ma per il resto fu così. Lasciare la nostra cara città turbò davvero la nostra vita e il nostro amore per qualche anno, fino a quando non apersi gli occhi e cominciai a guardare a lei (e ai figli) più che al mio insignificante lavoro e a qualche gratificazione “artistica”, che sottraeva altro tempo alla famiglia, insospettiva i miei capi e finiva per scontentare anche me. Sul momento, il pensiero che la nostra armonia potesse infrangersi per un cambio di città ci angosciò molto più della previsione, per un tempo allora inconcepibilmente lontano, di un evento infausto – la sua morte prima di me – che ci avrebbe separati per sempre. Scacciammo e dimenticammo subito quella visione funesta che ora, avveratasi, mi sgomenta e mi sconcerta. Aveva davvero saputo, quell’uomo misterioso, prevedere il nostro futuro? Era stato capace di individuare da cause attuali, per noi assolutamente impercepibili, effetti remoti? O aveva potuto affacciarsi a comando e senza troppi sforzi su una realtà non-fisica, governata da leggi diverse da quelle che ci erano state insegnate a casa e a scuola? Tutto era dunque già predisposto, e noi non eravamo che pedine, fantocci guidati da un’oscura necessità? O egli contava sul caso, o sul fatto di avere dalla sua cinquanta probabilità su cento di indovinare chi dei due sarebbe sopravvissuto?

Il veggente, evidentemente sollecitato, era andato qualche passo più innanzi a prefigurare di me e del mio avvenire. Disse che non avrei intrapreso la professione dell’avvocato come mio padre (che aveva uno studio ben avviato e sperava che io lo affiancassi, per prendere poi il suo posto). Mi sarei occupato d’altro. Non seppe dire di che, nonostante si sforzasse lodevolmente a scrutare nel vuoto, e lo capisco.

A proposito, m’avvedo ora di non aver mai chiesto e saputo di quale mezzo d’indagine si servisse il profeta, carte, sfera di cristallo, fotografie, scambio energetico attraverso la mano o altri più fantasiosi espedienti. Tento di immaginare, da scettico filisteo, la scena più ovvia: come l’indovino avesse, senza darlo a vedere, sondato la mia ingenua fidanzata a proposito del mio destino, cercando uno spunto. Io avevo vaghi pensieri, che non erano nemmeno idee velleitarie. Avevo scritto due o tre stentate (ora lo so) poesie, e scarabocchiato qualche disegno. E poi fantasticavo di darmi al cinema. E cinema voleva dire Roma, andarsene dalla mia città, perdermi nella capitale corrotta e piena di tentazioni. C’erano abbastanza motivi per preoccupare una ragazza innamorata, che non vedeva per sé nessun’altra prospettiva se non quella di moglie. I segni, a saperli guardare, non erano troppo reconditi. Di lì doveva essere certamente venuto, da parte dell’attento lettore del futuro, l’ammonimento a non cambiare città: egli raccomandava il tranquillo tran tran provinciale, lontano dalle ubbie e dalle avventure.

Da minimi, invisibili indizi accortamente interpretati, l’indovino doveva aver capito di che pasta ero fatto e, tra un tentativo e l’altro di prefigurare il mio (anche per lui) imperscrutabile futuro, si era lasciato scappare un giudizio: “il suo fidanzato dev’essere una specie di artistoide”.

Artistoide! Mi sentii oltremodo offeso. La parola ingiuriosa fece sparire d’un colpo le mie preoccupazioni del giorno prima e le curiosità sul mio-nostro avvenire. Come si era permesso! Io ero un artista, non un artistoide. Non avevo dato sino a quel momento che poche, distillate prove, ma significative, stando al giudizio insindacabile della mia unica lettrice e ammiratrice. E altre, non sapevo ancora bene in quale campo, sarebbero seguite. Mi consideravo una grande anima capace di spaziare ovunque volessi, solo se l’avessi voluto.

Artistoide non c’era nel vocabolario, e ne fui insieme stupito e rincuorato. Ma c’era, ahimé, genialoide (dal quale, era evidente, l’altra parola era derivata nel parlar volgare). La spiegazione del lemma era ovviamente dispregiativa: persona dotata di ingegno fertile e vivace ma bizzarro, disorganico e incostante. Ero così? Tutto in me si ribellava alla brutale sentenza. Ci riflettei, arrovellandomi, per giorni e giorni.

* * *

I tanti anni trascorsi hanno attenuato tutto: le vaghe aspirazioni, i risentimenti, i dolori. La vita è stata così, disorganica e incostante, la vivacità non è stata sufficiente a rendere fertile l’orticello dell’ingegno, vangato qua e là a caso. Ora sono solo, davvero solo, so alfine cosa vuol dire esserlo. Se sia stata una scelta maturata e portata a compimento, o semplicemente una necessità travestita da libera decisione, non mi interessa più di saperlo.

Nella stazione ferroviaria del piccolo paese in cui ora abito lontano da tutti, hanno collocato una nuova macchina automatica che stampa, introducendo pochi soldi, trenta biglietti da visita personalizzati. Ciascuno se li può fabbricare da sé, seguendo le istruzioni, sulla base di semplici schemi, tra i quali si sceglie comodamente, entro un ragionevole numero di minuti, l’impostazione desiderata.

Veramente, i biglietti da visita a me non servono. Non ho visite di nessun genere da fare e da chiedere, e non devo far sapere a nessuno chi sono e dove abito. Ma l’idea di farmi in economia dei cartoncini col mio indirizzo e numero telefonico, mi ha stimolato. Compulsando le istruzioni, ho visto che, dopo il nome e cognome, c’era posto, nella seconda riga, per specificare una professione o qualifica. E mi è venuto spontaneo di scriverci: artistoide. Ho battuto i tasti indicati ed ecco che, poco dopo, la macchina ha scodellato i trenta biglietti.

Artistoide. Leggendola sotto il mio nome, mi sembra ora che la parola abbia perso ogni significato dispregiativo e sia divenuta la mia perfetta qualifica. Il tempo ha finito per collocarla esattamente al suo posto, come aveva intravisto quell’indovino barbuto. Non mi chiedo nemmeno se questi biglietti rappresentino un banale caso di autoadempimento della profezia, o piuttosto un suo surrogato, oppure uno sberleffo alle realtà non-fisiche. O a me stesso.