Storie

Storie Brevi – Speriamo che
Cal. 7,7 – 2

Come poi i carri armati americani abbiano raggiunto Rivoli non si sa, o meglio, non lo sanno i tre della cal. 7,7. Evidentemente hanno preso altre strade, perché da via di Francia nessuno li ha visti passare nell’andata.

Fatto sta che i micidiali Tiger e Panther senza carburante, inchiodati nella campagna piemontese con i loro sinistri equipaggi in uniforme nera, si sono arresi a loro, si sono consegnati solo ad avversari con i serbatoi pieni fino all’orlo, ai tank con la stella bianca da cui emergevano ragazzoni senza spocchia, dalle divise sportive così comode.

I tre della mitragliatrice li vedono sfilare ora, i vittoriosi Sherman che vengono da Rivoli e vanno verso il centro di Torino. Così diversi dai panzer tedeschi dalle terrorizzanti geometrie spigolose. I tank americani non hanno angoli vivi, lo sguardo scivola lungo le curve armoniose ma possenti delle loro fiancate e torrette. E i soldati che spuntano dalle botole o che stanno sdraiati sulle corazze, non hanno un’aria bellica, sembrano piuttosto partecipare a una sfilata di carri carnevaleschi.

I tre accolgono con la mano tesa alla visiera i primi che passano, e gli americani rispondono con cenni poco militari, allegri e informali, o col segno della vittoria, e qualcuno addirittura col pugno chiuso. Così che all’indirizzo degli altri che seguono, in lunga colonna, basta sollevare in alto il braccio e agitarlo, facendo attenzione a non tenderlo troppo, a non trasformarlo per l’abitudine di tanti anni di adunate, nel saluto romano.

Dietro i tank arriva un autocarro scoperto di partigiani irti di armi, con il tricolore e molte bandiere rosse. Al centro sta un uomo in piedi, in abito civile, con la faccia gonfia e sanguinante e un cartello appeso al collo. E’ il podestà di Rivoli, lo portano a Torino a farlo processare. Gli ordinano di salutare i tre col pugno, e lui obbedisce.

Di facce gonfie se ne vedono parecchie, in quei giorni. Se, per esempio, un camion pieno di prigionieri in divisa delle brigate nere sosta a un incrocio, c’è spesso un partigiano a terra che fa segno a uno dei brigatisti, come volesse dirgli qualcosa: quello si sporge ad ascoltare e si prende uno schiaffo in piena faccia.

Il comandante dei tre, a fine giornata, ha la mano destra, una grande mano muscolosa, infiammata e dolorante a forza di distribuire schiaffi. Tanto che deve tenerla per un po’ immersa nell’acqua di un catino. Qualche piccola soddisfazione me la voglio prendere, dice, con questi assassini.

Al più giovane dei tre piacerebbe assistere a uno di quei processi ai fascisti. Invece gli càpita di vedere una sera, nelle ore in cui non è in “servizio d’ordine”, solo un pubblico accusatore. E’ riuscito a rintracciare l’indirizzo di un collega del padre, un avvocato e professore universitario, anziano antifascista. Lo trova a casa, che sta cenando con la moglie. Ha l’aria eccitata e beata di chi sta vivendo un momento straordinario, atteso per vent’anni.

Hai notizie del papà? è una delle domande che l’avvocato rivolge, dopo la prima piacevole sorpresa, a quel giovane in divisa con il distintivo biancorossoverde, che aveva conosciuto ragazzino, appena qualche anno prima, nello studio del padre, nella loro città, dove era capitato per questioni di lavoro.

No, il partigiano non sa che sorte sia toccata alla famiglia lontana centinaia di chilometri, i telefoni non funzionano, la posta nemmeno. Basta poco a riportare indietro il mondo di secoli. Non sa che, pochi giorni prima, radio Londra ha dato notizia che il padre è stato nominato sindaco del suo comune finalmente liberato.

Dopo cena l’avvocato invita il ragazzo ad accompagnarlo nella sua solita passeggiata serale. Sono nel centro di Torino, poco illuminato, parecchi sono usciti nelle strade a respirare l’aria tiepida di primavera, che ora sembra sapere di pace, o di qualcosa che le assomiglia, e che dà ad ognuno una sensazione nuova di tranquillità, di possibilità, oltre le incertezze del presente.

Davanti a un portone l’avvocato si ferma, suona un campanello. Un uomo si affaccia a una finestra del secondo piano, riconosce l’amico, lo saluta con trasporto, ma si capisce a malapena quello che sta dicendo. Fa intendere a gesti che, a forza di parlare e gridare, non ha più voce. Prenditi le pastiglie per la gola, gli dice l’avvocato, sennò come farai domani a proseguire le tue requisitorie. L’altro sorride, saluta e si ritira.

Stiamo scherzando su cose tremende, mormora l’avvocato al partigiano mentre proseguono la passeggiata. Quello è il pubblico accusatore nei processi ai fascisti, domani chiederà certamente la pena di morte per qualcuno. Finché ci sarà ancora la pena di morte. Speriamo che presto la aboliscano.