Storie

Storie Brevi – Sono le contraddizioni
Il cane che abbaia

Il cane seguita ad abbaiare abbaiare abbaiare.

Ha cominciato come tutti i giorni alle due del pomeriggio, e al tramonto sta ancora laggiù ad abbaiare con quell’immutabile tono acuto e lamentoso. Sempre uguale anche dopo ore e ore. Una pausa di un secondo ogni cinque minuti, quasi come un orologio, per riposare le sue maledette corde vocali da cane, e poi subito via di nuovo. Le pause sono la cosa peggiore perché danno ogni volta la speranza che la musica sia finita. E invece riprende come prima.

La giornata è stata pesante. Il cielo basso ha innervosito tutti, uomini e animali. Così nel pomeriggio al primo cane se ne sono sono aggiunti per emulazione altri delle case intorno, che di solito stanno zitti. Un coro che ha riempito il paesaggio di latrati intollerabili.

L’abbaiamento arriva un po’ smorzato – ma non per questo meno fastidioso – alla casa abitata dall’uomo che ascolta, un uomo solo nella villetta in alto sulla collina.

Perché il cane abbai non si capisce, né dove abbai, laggiù nel labirinto delle proprietà immerse nel verde. Né perché i suoi padroni non cerchino di farlo smettere una buona volta picchiandolo sulla groppa col guinzaglio o meglio ancora con la catena, sino a che non strisci nella sua cuccia col muso tra le zampe davanti e la coda nascosta dietro.

Deve dar fastidio anche a loro, lì con la gola spianata a un metro di distanza. E anche ai vicini, che devono sorbirsi tutti i giorni – e specialmente quel giorno – i cani degli altri.

Possibile che nessuno protesti? Che nessuno faccia presente ai padroni che la cagnara non può durare? Forse i proprietari sono gente importante nella zona, notabili che è bene non urtare. O forse le proteste ci sono state ma i padroni sono tanto affezionati a quel cane da difenderlo oltre ogni ragione di convivenza. E forse i vicini per buona pace non hanno insistito, rinunciando a chiamare i vigili.

Per la verità, l’uomo che ascolta non è ogni giorno così infastidito, come oggi, dai latrati. Quando legge un libro che lo appassiona, tutti i suoni si allontanano da lui, fondendosi nel brusio impercettibile della vita. Ma quando è scontento di sé o impaziente per la pressione atmosferica o per qualcosa che gli sta andando storto, allora l’abbaiare del cane emerge dai rumori di fondo, e qualche volta – specie se esplode il coro dei comprimari – diventa insopportabile. E questa è una di quelle volte.

L’uomo si affaccia alla finestra e guarda giù lungo la collina che digrada verso il tramonto, cercando di distinguere tra siepi alberi e case controluce il posto in cui quel maledetto cane sta conducendo il concerto. Ma non vede niente e decide che è venuto il momento di sapere. Indossa il giubbotto, esce e prende la strada che scende.

Spera di riuscire a individuare in tempo il luogo prima che il cane smetta, come sempre succede quando viene buio. Orientandosi secondo la direzione dei latrati, percorre strade e stradette tra le ville. Riconosce ed evita ad una ad una le voci degli altri cantori e alla fine, inseguendo la nota dominante, arriva a un cancello con sopra scritto «attenti al cane». E il cane è lì dietro, al centro di un vialetto di ghiaia, piantato sulle zampe e improvvisamente ammutolito.

E’ un bastardetto volpino, basso e tozzo con il pelo bianco un po’ riccio a macchie nere. Sta immobile a fissare in silenzio lo sconosciuto apparso al cancello. Il quale a sua volta lo guarda e intanto pensa: così piccolo e fa tanto casino.

Adesso non abbai più? mormora dopo un momento l’uomo chinandosi verso il cane, che fa un breve latrato acuto e muove un po’ contro il cancello come a voler attaccare, ma si arresta e agita piano la coda, con un atteggiamento ambiguo di allarme e insieme di buone intenzioni.

L’uomo si risolleva, guarda la villetta e vede che tutte le finestre sono chiuse. E capisce che il cane abbaiava perché è solo in casa. E che tutto quel suo latrare di ogni giorno è un’invocazione, un lamento disperato di abbandono.

Il cane è solo come lui. Ma l’uomo riesce quasi sempre a sopportare la sua solitudine, occupando il corpo e la mente. Non deve abbaiare. Gli basta fare ogni tanto qualche telefonata. Del resto, è in buona parte una scelta sua. E guardando il cane, che non ha scelta, ora prova un sentimento di pena.

Rompe le scatole anche a lei? dice una voce maschile molto vicina ma invisibile. L’uomo scruta oltre la siepe di pitosforo che separa la villetta del cane da quella attigua e intravede una figura tra le foglie.

Rompe sì, risponde e avverte che gli è bastato pronunciare quelle due parole a voce alta, e tutto il senso di pena per il cane se n’è andato.

Mentre cerca di vedere meglio l’interlocutore nella luce incerta del crepuscolo, la figura si muove facendo con le scarpe rumore di ghiaia e viene allo scoperto dove la siepe finisce. E’ un vecchio con la pipa in bocca.

Lo sento anche lassù, da casa mia, dice l’uomo accennando alla sommità della collina. Chissà lei, che ce l’ha qui tutto il giorno nelle orecchie. Secondo me abbaia perché è solo. Ma dove sono i padroni di questa bestia?

C’è la padrona, certo che c’è. Ma sta fuori tutto il pomeriggio e lascia qui da solo questo accidente a fare la guardia a chissà cosa. Comincia ad abbaiare appena la padrona se ne va e smette soltanto quando torna. Io non ne posso più, non ne posso proprio più, dice il vecchio scuotendo la testa.

Ma non si può chiamare un vigile? Qualcosa si dovrebbe poter fare.

Un vigile! Ma quando mai i vigili vengono da queste parti? Quelli vengono solo a portare le multe e i certificati elettorali.

Però in questo momento non abbaia. Vede? Basta che ci sia qualcuno che si mette davanti al cancello e gli dia retta. A lei non dà retta?

Eh no. Io il custode delle bestie degli altri non lo faccio. Ho abbastanza da pensare a me. Vuole che stia lì a guardarlo per delle ore?

Quanti anni avrà? chiede improvvisamente l’uomo guardando il cane. E subito si pente: dietro la domanda è chiara la speranza che la bestia sia avanti con gli anni e muoia presto. Eliminando il problema.

Avrà tre o quattro anni. E’ giovane, è giovane, risponde il vecchio, che ha capito benissimo. Mi sa che tra i due muore prima la padrona. A meno che invece non muoia io…

Be’, adesso! Se proprio qualcuno deve morire, meglio il cane!, protesta ridendo l’uomo.

Meglio il cane! Meglio il cane!, approva il vecchio ridendo anche lui. Ma ride con mezza bocca, o per via della pipa che stringe tra i denti o perché non ha tanta voglia di ridere.

E’ comunque una conclusione passabile per il colloquio. Si salutano e l’uomo si avvia a risalire verso casa. E il cane riprende subito a latrare.

Nei giorni che seguono l’uomo, quando non è preso dalle sue letture, ode ancora abbaiare. Ma ora sa dov’è localizzato il fastidio: quel volpino dietro quel cancello in quel vialetto. E la molestia sembra in qualche modo attenuarsi.

Poi non sente più niente. Se ne rende conto quando finisce di leggere: il cane non abbaia più.

Una mattina scende a curiosare. Dietro il cancello, il vialetto è vuoto. In fondo, in un angolo si vede una cuccia a forma di casetta, vuota anch’essa. Probabilmente nella mattinata il cane sta in casa con la padrona. In quel momento la porta della villetta si apre e compare una vecchietta che trascina una borsa della spesa con le rotelle. Esce dal cancello, vede l’uomo fermo e deve pensare che stia aspettando lei. E gli chiese con l’apprensione sospettosa dei vecchi: Cerca me?

No. Ma qui non c’è un cane che abbaia sempre?, domanda l’uomo, colto alla sprovvista.

La vecchia lo guarda con nuova attenzione e con accresciuto sospetto: Perché lo vuole sapere?

Niente. Perché è un po’ che non lo sento. Io abito lassù…

C’era sì un cane. Ma adesso non c’è più, dice la vecchia fissando l’uomo e tenendo il viso sollevato come a sfidarlo a farle un’altra domanda. Ma intanto le comincia a tremare il mento e la bocca le si piega in un principio di pianto.

Poi senza attendere altro prorompe: Me l’hanno ammazzato. Avvelenato! Non sa cos’ha sofferto, povera bestia. Tutta una notte. Ha vomitato una polpetta intera di veleno, ma ormai era troppo tardi. Mi guardava perché io facessi qualcosa, ma cosa potevo fare? Contro certi malvagi, assassini, non c’è niente da fare… Ora piange disperata premendosi il fazzoletto contro la bocca. Poi punta la mano contro la casa accanto ed esclama: So anche chi è stato. E Dio l’ha già punito!

Mi dispiace, dice l’uomo assumendo un’aria accorata e muovendo un passo verso la donna. Sono passato di qui qualche giorno fa. Abbaiava perché era solo. Appena mi ha visto ha smesso. Voleva la sua padrona…

Eh, lo so, sospira la vecchia ricominciando a piangere, soffriva a vedermi andar via. Ma come facevo a portarmelo dietro? Io vado a tenere il mio nipotino mentre mia figlia lavora. E il bambino ha paura dei cani. Cosa dovevo fare? Scuote la testa singhiozzando.

Ma lei sa chi è stato.

Certo che lo so! E’ stato quel… Quello che stava lì.

Indica ancora la casa accanto, la casa del vecchio con la pipa.

Me l’aveva detto chiaro: guardi che prima o poi qualcuno glielo avvelena. E ha finito per farlo lui. Ma Dio l’ha punito!

Alza drammaticamente verso il cielo la mano che stringe il fazzoletto.

Il giorno dopo, guardi. Proprio il giorno dopo che è morto il cane. Un colpo. Lo hanno trovato i figli. Si è trascinato fino al telefono ma non ha fatto in tempo a chiamare nessuno. La morte che si meritava.

Mi dispiace, signora, ripete l’uomo, cercando il modo più rapido per disimpegnarsi, mi dispiace proprio.

Prego, prego, cosa vuole, ormai è andata così, risponde la vecchia allontanandosi con la sua borsa a rotelle.

L’uomo torna a casa. Accende la radio e si prepara il pranzo. Poi prende un libro ma subito lo posa. La voglia di leggere gli è passata. Va alla finestra e guarda giù, verso la quiete delle ville.