Storie

Storie Brevi – Gesti
La focaccia col formaggio

Farina, olio ligure di quello buono, un po’ di sale e tanta crescenza. Tutto qui, una ricetta povera, semplicissima, ma sentirai che roba, un mangiare radioso. Solare.

Parla proteso sulla piccola tavola del ristorante tipico, famoso e costosissimo, gli occhi negli occhi della sua commensale bionda, bel viso illuminato dalla calda luce della candela, la bocca socchiusa, ben disposta a delibare ancora una volta le parole di lui come nutrimenti sapienziali.

E’ una coppia sposata da qualche anno, ma che si appresta a festeggiare un evento speciale, l’annuncio della prima gravidanza. E’ come se fossero tornati per una sera ai tempi del corteggiamento, alla fase più ricettiva del loro incontro.

Entrambi d’una città lontana, ben dentro nella pianura, ma lui vissuto tanti anni qui, e perciò accreditato alle conoscenze degli usi e ai segreti delle gastronomie locali. Hanno viaggiato più di due ore per raggiungere il luogo di delizie tanto a lungo da lui decantato, e di cui tra poco lei potrà avere conferma. L’attesa stessa di ordinare il cibo squisito, che tra l’altro si confà alle nascenti o immaginarie voglie della gestante, è già parte della trepida aspettazione novemestrale.

Appena seduti, un cameriere ha subito deposto accanto ai loro piatti, con l’aria di un’offerta preziosa, un flûte di brut Càvit, e i calici hanno già tintinnato in un brindisi pieno di promesse. Ora il maître reca a ciascuno dei due uno spropositato menù in finta pelle, che a stento trova posto sulla stretta tovaglia.

Guardi, ce lo riporti dopo per favore. Intanto, vorremmo come antipasto la vostra focaccia col formaggio, dispone lui interpellando lei con gli occhi a chiederne il consenso, fiduciosamente concesso all’istante. A proposito, potete farcela con le caciotte della Val d’Aveto, alla vecchia maniera?

Certamente! Il maître sente l’intenditore e mostra tutta la sua compiacenza.

Ma prima, naturalmente, qualche friscêu e il vostro miglior bianco, diciamo: un pigato di Dolceacqua, di quelle parti lì…

Diciamo il Gajaudo di Isolabona, naturalmente, completa il maître.

Perfetto.

E mentre il direttore delle sensazioni se ne va a trasmettere l’ordine, l’intenditore, che s’è ripassato per l’occasione gli opuscoli turistici su cui è fondato il suo sapere, inizia a impartire la sua lezione: I friscêu sono un’altra specialità ligure, anzi di qua, del levante, e vuol dire semplicemente frittelle, friscioli. A Genova li chiamano cuculli. Sono dei bocconcini di pastetta, lievito di birra e sapori, come la salvia e la maggiorana. Il segreto è che siano leggeri, che non si senta l’olio della frittura, e in questo posto sono leggerissimi, bolle di sapore, un flatus…

E la focaccia? L’hanno inventata qui, questo ristorante?

 No! Qui la fanno solo bene, come si deve, ma è un piatto che risale al tempo delle scorrerie saracene, almeno così dice la leggenda, vera o inventata dalla pro loco. Roba da medioevo o poco più, prima della battaglia di Lepanto, che è del millecin…, insomma, secoli fa. “La gran battaja de Lévati da li piedi!”, la chiamaGadda nel Pasticciaccio (la citazione merita un sorriso, e lei sorride). Quando dalle torri si avvistavano gli sciabecchi dei Mori, (a proposito, bisognerebbe mettere anche questo nel conto dei rinfacci: donne rapite, uomini sgozzati: ne avremo fatte di brutte noi, ma anche loro non scherzavano…); insomma, la gente scappava nell’entroterra, seguendo proprio la strada che passa qui davanti e che allora erapoco più di un sentiero, e si nascondeva nei boschi, magari per settimane. E là, per nutrirsi, c’erano solo i prodotti locali, la farina macinata nei mulini ad acqua, l’olio degli ulivi coltivati sulle fasce e le formaggette dei caprai. Qualche genio sconosciuto, certamente una buona cuoca, ha unito gli ingredienti, ci ha aggiunto il sale portato dietro nella fuga, e ha messo tutto a cuocere al calore della legna. Così è nata la focaccia col formaggio. Una volta la cucinavano soltanto nel giorno dei morti, con le formaggelle dell’entroterra, della Val d’Aveto appunto, che sono una squisitezza, hanno i sapori delle erbe e delle piante di bosco, il mirto, il corbezzolo. Ora tutti la vogliono, devono accontentare i turisti che arrivano da lontano con l’autostrada, tutti i giorni dell’anno. Se la facessero come allora non terrebbero più dietro alle richieste. Il formaggio non è più di capra, ma non vuol dire. Ci mettono lo stracchino, la crescenza.

Lo stracchino? Non la mozzarella?

No, per amor di Dio! La mozzarella è per la pizza! Qui ci va la crescenza. Arriva dalle industrie, a quintali ormai, ma è studiata apposta, con l’acidità giusta, e la farina è del tipo manitoba, che permette di tirare una sfoglia sottilissima, un velo. E il forno non è più a legna d’olivo o di brugo, un arbusto che cresce in questi boschi, ma elettrico. Si è perso il sapore di affumicato, ma molti sostengono che il risultato sarebbe migliore, perché la temperatura è più alta e più costante: difatti per la focaccia non serve la fiamma viva come per la pizza. Insomma, è buona come quella di una volta, io ho già provato quella tradizionale che mangeremo noi, e ti assicuro che non c’è molta differenza, a parte il sapore d’affumicato. La chimica e la fisica hanno lavorato ancora una volta molto bene al servizio del gusto. Te lo ricordi, Brillat-Savarin?

Sarà, ma si sa che una volta tutto era più buono… commenta lei, e subito si rende conto di aver detto una banalità, ma ormai è fatta, e del resto non sembra che lui, infervorato nell’esaltazione della focaccia col formaggio senza avvertire i propri inquinamenti dell’ovvio, abbia percepito quello di lei.

Una volta!, ribatte l’uomo. Ma Brillat-Savarin diceva queste cose due secoli fa, proprio al tempo di una volta… A proposito, sai che mi sono reso conto solo da poco che in quel libro non c’è un capitolo sui formaggi? In Francia! Gli unici formaggi citati di passaggio non sono francesi: il parmigiano (sui maccheroni, naturalmente), gli olandesi (tra cui forse un “formaggio bianco”) e il groviera, che è svizzero, per la “fondua”. Chissà, forse allora i formaggi non erano di moda, fatto sta che erano serviti solo col dessert. Difatti, uno dei suoi aforismi è: “un dessert senza formaggio è come una bella donna senza un occhio”.

Le accarezza una mano e il volto. Sono curioso di sentire il tuo giudizio sulla focaccia tradizionale. Magari poi ce ne facciamo portare un po’ di quella con la crescenza, per fare il confronto. Il segreto…

Quanti segreti.

Già, ma la buona cucina è piena di segreti (infervorato nella sua didattica non s’è accorto della sfumatura di ironia quasi involontaria, quasi di riscatto, di lei). Il segreto è che la sfoglia deve cuocere subito e divenire croccante prima che il formaggio sciogliendosi la riduca a una cosa molle. La vera focaccia col formaggio non deve colare dalla forchetta, come la pizza.

Come gli orologi molli di Dalì?

Finalmente lui si ferma e la guarda. Comincia a capire. Vede luccicare nei suoi occhi e nel sorriso della bella bocca il segnale d’ironia che lo riporta bruscamente alla tovaglia, alla donna, alla realtà.

Giusto, come gli orologi….Ma qui non funzionano gli orologi di Dalì (ricupera sorridendo e guardando il suo orologio). Già, io parlo, parlo… e non ci portano niente.

Ma ecco pronta la salvezza. Arriva il cameriere con i friscêu caldi, appena fatti, circondati da appetitosi stuzzichi, piccoli ritagli tepidi di focaccia alle erbe, mezzi pomodori e cipolle, filetti di zucchine con una crosta prelibata di ripieno.

La conversazione è momentaneamente interrotta. Si immergono nella degustazione, equamente ripartita per due.

Mmm…, mugola lei prevedibilmente, a conferma della tanto esaltata bontà. E mette nel mugolio sensuale quell’accenno di lieta sorpresa che lui si attendeva, e che del resto le viene di manifestare volentieri, come ogni volta che le capita di imbattersi (per quanto ben disposta al meglio), in un quid che superi le aspettative.

Si sono mangiati tutto e hanno vuotato il calice di brut quando giungono ben due camerieri, l’uno portando il pigato freschissimo, alla temperatura giusta, e l’altro recando trionfalmente nella grande ceramica ovale, alta sulle tavole, l’oggetto caldissimo del desiderio, l’epifania della focaccia col formaggio, posata con cauta perizia sul desco, una quantità per due che sul momento appare molto abbondante.

Ecco!, l’accoglie lui, e lei gli fa eco con un tono appena più acuto (e forse lievemente canzonatorio, ma lui non sembra avvedersene).

Lui ferma la mano di lei già pronta con la forchetta, e l’esorta a compiacersi preliminarmente dell’insieme visivo e olfattivo, colore e profumo, prima d’abbandonarsi al rito della spartizione e al godimento dell’essenza e della sostanza, ahimè troppo presto fuggevoli.

Il segreto della focaccia col formaggio…, ancora un segreto, ma è l’ultimo, riprende lui mentre si appresta all’impegnativo compito di trasferire nei rispettivi piatti parte dello strato rugoso di sfoglia con tutti i suoi toni di marrone e di bianco-avorio. Il segreto è di gustarla caldissima, appena uscita dal forno, quando il formaggio e l’impasto sono ancora una cosa sola, uno strato unico e informe di piacere. Questo è il momento giusto, anche se ti scotti un po’ le labbra, attenzione. Dopo, quando tutto si rapprende e la caciotta o la crescenza si separano dalla base di focaccia, il sapore cambia, anche riscaldando non senti più…

Al di sopra dei bei capelli biondi della sua ascoltatrice già china sulla fragranza del piatto, lui vede avanzare in fondo alla sala un’altra coppia, che un cameriere sta guidando con premura verso un tavolo riservato. L’attimo d’uno sguardo gli basta per riandare a una storia del passato, che torna qui all’improvviso, in questo ristorante, questa sera, per chissà quali misteriose coincidenze, da una lontana èra di ricordi e di sofferenze amorose.

Anche la donna, alta e bruna, mentre s’avvicina al proprio tavolo scortata dal suo accompagnatore, fa una rapida ricognizione dell’ambiente e scorge lui tra i commensali. Lo fissa fuggevolmente e lo riconosce (lui lo capisce da un moto di sorpresa degli zigomi, percettibile solo da chi sa). La conferma viene subito dopo, quando lei si depone sulla sedia con un armonioso, elegante movimento della schiena e trova intanto modo di girare ancora con indifferenza il capo e gli occhi, non più che per un istante, ma fermamente, verso di lui.

Uuh! Lui s’è infilato un lacerto di focaccia bollente in bocca e ora soffia, il viso improvvisamente arrossato, come soffocasse, si sventaglia freneticamente con una mano, si curva sul piatto.

Ma che fai, mi dici attenzione e poi ti scotti! Tu parli troppo e ti distrai. Bevi, lo soccorre col bicchiere. Però è davvero buonissima, avevi ragione.

Lui beve un sorso, respira, si riprende, la guarda amorevolmente. Cosa farei senza di te. Brucerei all’inferno… Un altro sorso. Ma questo vino ha un sapore strano, non ti sembra? Ancora un piccolo sorso. Ma no, cosa dico, la lingua scottata mi sta ingannando. Il pigato è perfetto per la focaccia (la scusa del vino era inutile, non c’era bisogno di nessuna diversione; di nessun cambio di tono; la commensale bionda, intenta ad assaporarsi focaccia e formaggio, non s’è accorta che la scottatura era conseguente allo stupore attonito di lui per l’improvvisa apparizione della donna bruna).

Lei riassaggia il liquido dorato con l’aria di valutarne a sua volta il sapore. Tutto sommato le pare che vada bene. Non ama troppo il vino, non se ne intende, ma quello che le preme in questo momento è di assecondare il suo uomo, con i suoi difetti, del resto scusabili. Mescolando sempre alla tenerezza un minimo di ironia, che a lei basta per sentirsi salva.

Proseguono a gustare la focaccia, in silenzio. Ne prendono ancora dal piatto grande, ridicendo: E’ proprio buona. Ma lui, tra una forchettata e l’altra, non resiste a mandare qualche fulminea occhiata verso l’altro tavolo.

Cosa dicevo? Ah, sì, quando si raffredda, la focaccia col formaggio diventa opaca, perde non solo il gusto ma anche quelle tonalità bellissime di colore da quadro astratto, informale, materico, l’avorio vecchio del formaggio, le cento sfumature di bruno della sfoglia, le creste scurite dal calore.

Quanto deve cuocere?

Cinque minuti, non di più, altrimenti si brucia, diventa dura, amara.

Lui non è però così perso nella degustazione e nella didassi da non approfittare del piacere di lei, china e distratta sul piatto, per nuovi colpi d’occhio all’altra coppia, che in fondo alla sala sembra impaziente di abbandonarsi allo stesso rito di sensualità.

Lui sa chi è il tipo che accompagna l’antica fiamma. Maturo, un po’ ingrigito ma forte, piacevole d’aspetto e dotato di un sorriso dolce e accattivante. Sa che la loro relazione va avanti da anni in buona armonia e complicità. S’indovina una grande tenerezza, frutto di una consuetudine amorosa. Difatti lei allunga la mano e la posa su quella del compagno.

Ma, di tanto in tanto, con l’aria di guardare distrattamente in giro, lei alza gli occhi anche in direzione del tavolo di lui. Sguardi noncuranti, quasi casuali, ma sguardi. Una donna riesce benissimo a non guardare, se proprio vuole. Stavolta, invece, s’indovina una chiara, per quanto ancora insondabile, intenzionalità.

Era durata più d’un anno la loro storia e stava andando benissimo, i caratteri erano diversi ma coincidevano sulle cose essenziali. Non mancavano le discussioni, lunghe e accalorate, e talvolta i litigi, che si concludevano sempre, comunque, prima di sera. Si poteva pensare già a progetti duraturi quando un giorno successe qualcosa. Un certo episodio, il comportamento di lui frainteso, giudicato ignobile, l’impossibilità di trovare subito giustificazioni convincenti, l’inevitabile distacco. Tempo dopo, ma troppo tardi ormai, come nei vecchi romanzi del cuore, era emersa l’innocenza di lui, lei aveva potuto constatare che egli aveva agito in perfetta buona fede e che solo le circostanze avevano giocato a suo sfavore.

Benché il dolore fosse stato vivo per entrambi, nessuno aveva pianto, e dopo una giusta pausa di riflessione altri amori erano venuti a scacciare il chiodo della pena. E il tardivo riconoscimento della realtà dei fatti non era valso a riportare indietro il tempo.

Ora anche all’altro tavolo, quei due, serviti di focaccia col formaggio, cedono ai sensi. E anche per loro il piacere è presto finito. La donna a un tratto s’alza, s’avvia lentamente alla toilette.

Lui chiede scusa alla compagna bionda, deve assolutamente alzarsi e andare di là, tornerà subito, prima che ripassi il cameriere a chiedere nuove ordinazioni. La bionda annuisce nonostante la cosa le sembri strana (l’uomo non deve mai lasciar sola la donna).

La toilette è preceduta da un breve e stretto corridoio poco illuminato, spartito in fondo dai vani accoppiati delle femmine e dei maschi. Lei è lì che aspetta, le spalle alla porta del suo sesso, le mani dietro la schiena. Lui le va incontro, l’afferra alla vita e la bacia disordinatamente, senza una parola. Nell’impeto le farebbe perdere l’equilibrio se dietro non vi fosse il battente chiuso, contro cui lei urta rumorosamente e, per meglio sostenersi, s’aggrappa al collo di lui con tutte le braccia e ricambia in profondità il bacio.

Lei è alta come lui, e lui ritrova il grande corpo elastico e caldo, lo risente aderire a sé nella veste leggera, il seno, il ventre, il pube, le cosce. E il suo fiato. Nelle bocche si mescolano i sapori della focaccia col formaggio e del vino, non importa se alterati dal sentore di falso fresco che proviene dalle latrine ben disinfettate.

Si staccano, si guardano intensamente negli occhi, tornano a baciarsi, ora in un accordo di dolcezza e di rimpianto.

Lei lo scosta un po’, quel tanto che basta per guardarlo meglio, per toccarlo piano sul viso. Poi lo allontana di più, alza le braccia per sistemarsi una ciocca scomposta. Si volge, si avvia nel corridoio, rientra nella sala rumorosa, torna al suo tavolo, sorride al suo uomo che si è sollevato in un gesto di cortesia.

Anche lui torna al suo tavolo. La donna bionda alza il bicchiere vuoto, chiedendo vino. Lui provvede con premura. Con attenzione muta e concentrata controlla il liquido che cola nel bicchiere. C’è un che d’insolito nell’espressione del suo viso, come il residuo d’una tensione rattenuta, e gli occhi ridenti ma adesso vigili di lei ne percepiscono la traccia, se non il senso.

Qualcosa che non va?

Come? No, tutto va benissimo! Tende in fretta la mano in una carezza amorosa, lieve ma prolungata.

E adesso cosa mangiamo?, chiede lei con una piccola ansia nella voce.