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Altre Storie – Su niente, gratis
Fuga acrobatica dal Cimitero Monumentale

Me ne vado un mattino a salutare i miei poveri morti e trovo i cancelli accostati. Tintinna già il campanello che annuncia, unico suono nel silenzio, la pausa delle dodici. È domenica, è tardi. Le ultime pie anime si affrettano all’uscita e i fiorai sul piazzale si sbrigano a chiudere le baracche per il riposo della festa.

Il campanello dà il secondo segnale ma il varco ancora aperto nei cancelli è un invito al rischio: pochi minuti per correre a perdifiato tra lapidi e loculi sino agli spazi deputati al ricordo dei cari assenti-presenti fermi nel tempo, ferme le amate persone nel niente senza storia dei nomi sulle pietre squadrate. Che stavolta non riassetterò spolvererò omaggerò di fiori freschi e acqua nuova con gesti apotropaici sempre uguali. E uguali pensieri malinconici. Solo un saluto in fretta con la promessa, molto presto, d’una visita più calma.

Salgo di corsa la scalinata come un ritardatario a scuola o ad un appuntamento. Non ci sono a fermarmi i custodi. Non si vedono mai, nemmeno nelle ore d’apertura. Stanno chiusi nei loro cubiculi dalle porte egizie, stravaccati da un secolo e più come i leoni di pietra ai parastasi dell’ingresso, copie stanche da un sepolcro papale del Canova (“Andrò presto all’albergo dei due leoni!” gridava fortissimo mio nonno quand’era arrabbiato col mondo, ma sbagliava metafora: la sua ultima stanza era prenotata altrove, in un piccolo hotel con una stella, marchio depositato della schiatta di Davide).

M’infilo tra i cancelli socchiusi e attraverso il solenne vestibolo, neoclassico naturalmente, dove si respira subito la forma austera del ritmo dorico, anzi pestano per dire di Paestum, così triste, così cimiteriale e menagramo, che piace tanto ai vivi per metterci (nell’attesa che tornino) i morti.

E i morti davvero una volta tornavano, testimoniando che si può. Ma solo se c’è la Presenza Suprema a far scena e a turbare l’ordine naturale delle cause e degli effetti. A guarire i moribondi e a risuscitare i defunti, come nei rilievi accademici esaltanti i miracoli di Gesù, che scorgo appena passando e che altre volte ho indugiato a contemplare.

C’è, ovviamente, la resurrezione di Lazzaro: “Vieni fuori!” intona il Maestro con gesto enfatico da tenore di Grand Opéra e il ragazzo di Betania già in odore di cadavere (come attesta Giovanni 11,39) se n’esce a saltelloni trascinando le bende, primo alla corsa dei sacchi dall’aldilà all’aldiqua, e grida (citando incorreggibile): “Sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti, torno per dirvi tutto, vi dirò tutto!” E gli astanti nelle loro mille pieghe di marmo sono lì stupefatti ma senza esagerare, come vuole la neoclassicità , e sembrano più che altro imbarazzati. (Anche così,anche in scenepompier come queste, vi vedessi tornare, almeno per un attimo, o cari).

Ma devo affrettarmi oltre il pronao, lungo il consueto percorso dell’intercolumnio a destra, galleria d’ultime dimore prestigiose che ormai conosco a memoria, quando agli estinti illustri per nome censo meriti competevano grandi frasi e grandi statue (gli uomini con le stringhe alle scarpe e i panciotti con tutti i bottoni cuciti nel marmo uno per uno dentro le asole, e le signore con l’abito bello ma discreto della messa, ingentilito da qualche onesta civetteria di nastri e di pizzi ben traforati).

Saluto al varco le povere serve della Divina-Provvidenza umilmente elencate in fila e corro per la via più breve al cimitero nuovo, mentre il campanello suona il terzo ed ultimo segnale. Sfioro Umberto Boccioni artista e soldato, caduto da cavallo nel ’16 (“Abbiamo vinto, caro e vecchio milite!” gli ha scritto sulla lapide Gino Severini con sommessa matita ben temperata), e sono alla tomba terragna di mia moglie, in pietra rossa dei Lessini con dietro una pianta di rosa che inesperti apprendisti giardinieri hanno tagliato male ed è forse morta sulla morta (vedremo in primavera). La fotoceramica mi guarda stavolta con rimprovero perché vado di fretta, ma prometto che tornerò. E sottovoce m’impegno, dopo il consueto esorcismo (proteggi-i-nostri-figli-e-le-nostre-nipoti), ma osservandomi attorno furtivo che nessuno senta, che nessuno pensi che sto a conversare con le pietre.

Nel chiudere la bara intontiti di dolore, ci eravamo scordati di togliere l’asciugamano di spugna avvolto sul suo viso enfiato a dismisura, e lei è sempre lì sotto così che si disfà, con la testa fasciata in quel sudario come un quadro di Magritte o come Hooper il Pastore, che volle vivere ed essere interrato con un velo nero sulla faccia, a schermo del mistero che avvolge ciascuno. E ogni volta ci ripenso.

Ora devo scappare da mia madre, che sta più avanti, celletta nell’ossario catacombale, oltre gli amici scomparsi, oltre l’avvocato finito suicida per debiti (quando di debiti oggi si campa e si prospera), oltre il chiaro pittore di chiare arie locali e di semplici affetti umani, oltre l’allegro architetto falciato quasi ragazzo, oltre ogni ossimoro, oltre tutto ciò che non è più nemmeno il né-che-nega, come dicono i poeti che la sanno lunga.

Ossa (il cranio così piccolo!), pròtesi e calze: ricordo che sull’orlo della fossa materna riaperta i becchini avevano riunito in un mucchietto i pochi sostantivi sfuggiti al tempo lungo-breve d’inumazione scaduto (ah, l’orrendo nailon delle calze blu, oltraggio indistruttibile all’ecologia della terra e del ricordo riesumato, con dentro ciò che restava delle gambe). Un piccolo cofano di ferro zincato raccoglie adesso e allontana nuovamente tutto, diciamo in ordine, dietro il muro ben cementato. La lampadina elettrica votiva formato fiamma eterna arderà, secondo contratto, per il prossimo decennio (poi qualcuno provvederà). Più di questo, più di qualche fiore fresco da aggiungere ai garofani finti davanti all’ovale della foto che trattiene l’illusione opaca del corpo, che cosa ormai, di quando in quando? I torti gli errori le parole sbagliate che non si correggono, riemergono ogni volta. Tutto qui è inesorabile nell’aria soffocante del sottosuolo e in ogni altro luogo di me, che secondo le teorie correnti sarei-soltanto-per-sopravvivere, nel vuoto così pieno e crudele della vita, della natura sempre indifferente. E per trovare il modo di consolare me e di placare quel che giace lì dietro, dopo la solita formula propiziatoria accuratamente aggiornata alla generazione in atto (proteggi-nipoti-e-pronipotine), dico a questo punto: non preoccuparti mamma, la morte è solo un fatto culturale.

Filo verso mio padre, riattraversando tutto il camposanto secondo l’iter magico sempre ripetuto, che solo mi assicura da ogni rischio in queste strade del nonsenso.

La coda dell’occhio guarda il sacrario (ai) “mortuis in bello” e mi viene automatico ripetere la battuta dei morti sul più bello, che non piacerà certo agli eroi rinati qui per la patria, ma io sono dannato a scherzare in vita fino alla morte (fino al vocabolo morte) con le parole, e mi domando se per uno come me, che ama questi giochi immaturi (ma esistono giochi maturi?), castigo supremo non sarà magari l’obbligo, per contrappasso, d’escogitare in eterno battute sull’eternità o l’atroce opposto di non riuscire mai a inventarne una. L’assenza non colmabile d’un Dio sarà il vuoto orribile d’un Calembour, d’un Verbo-che-non-performa? O sanerà tutto con pochibit un Cyberdio quantistico e simmetrico, armonia assoluta di relazioni e d’ultime informazioni?

Cammino veloce fra i tetri sterili campi seminati di lapidi e torno nel cimitero vecchio dove m’attendono i pantheondi chi ha ben meritato per qualcosa che, volendo, si trova per tutti una volta andati. Ogni tempio è protetto da un enorme segno terrificante del Globo alato che ne decora il timpano monumentale. E come sempre immagino a quella vista lo stupore-terrore dell’astronauta che scoprisse dall’alto gravitare sopra la Terra due spaventose ali irte di penne e remiganti nel vuoto sidereo. Ma quel simbolo non è che il segno pneumatico dello Spirito che muove non la Terra ma l’Universo, opportunamente tagliato in due dalla fascia dello Zodiaco, unico varco di scampo per il trapasso all’inconoscibile beatitudine. E qui, nel confuso sincretismo salvifico di simboli platonico-cristiano-illuministi, sotto metope e triglifi istoriati di scene esemplari d’operosità intellettuale, sta coi preclari d’ingegno mio padre, socialista d’epoca in varia compagnia di tre testimoni del suo tempo.

Qualcuno ha pensato che era bello disporre in un unico spazio sinergico di memoria due politici scomodi del periodo chiamato buono (il papà socialriformista e un onesto diccì), un prete-filosofo calunniato per troppa libertà d’intelletto e il mio amato Emilio Salgari, romanziere d’avventure-per-ragazzi un tanto alla riga.

Guardo la tonaca del pensatore cattolico quasi eretico nel medaglione bronzeo e, tac, nonostante la fretta torna il ricordo dell’agonia lunga di mio padre. Fu, non esagero, un balletto di preti, ansiosi di salvargli l’anima prima dell’irreparabile. Giaceva tra suore e frati consumandosi come un Cristo. I suoi bronchi erano un roveto, la sua cara umana fronte s’incoronava di spine.

Aprì la danza con passo sicuro un monsignore deciso a difendere il titolo di conversore infallibile. Testimone di fatti storici, confessore in limine mortis di figure quasi tragiche, per lui era una sinecura trarre in estremo dalla parte giusta un Socialista-Buono, stipulando un bel contratto tra il Dio-Vero e l’Anti-Dio Carlomarx.

Venne quindi con passo furbo un pretino che sapeva come si parla a peccatori, prostitute e socialisti: In cielo c’è posto per tutti e mio padre poteva entrarci, con lui, dalla porta di dietro.

Venne ancora con passetti incerti il prete vecchissimo che aveva sepolto mia nonna, paralitica quasi santa, e insegnato a servire messa al mio babbo quand’era bambino. Sollevati gli occhi al soffitto, aveva atteso che l’ex chierichetto lo abbracciasse con commozione per ritrovare nella sua tonaca l’incenso l’infanzia la Grazia.

Io come sempre vigliaccone e fintone, facevo strada ai neri corbacci, e con furbizia strizzavo l’occhio al mio vecchio che stava morendo. Si lasciava toccare la fronte, accarezzare la mano stanca, spruzzare il letto con l’acqua santa. E solo se i preti insistevano si difendeva a colpi di tosse da tutte le benedizioni.

Venne alla fine con passo sudato un povero parroco che sbagliava il latino e pronunciava con gravità discorsi fuori luogo e sentenze completamente a sproposito. Parlò a lungo del suo Paradiso esaltandone le comodità. La sua fede era tanto indifesa, le sue metafore così povere, che mio padre non seppe negargli la gioia di salvare un’anima, socchiudendo piano per me, di rimando, un occhio.

Fu così che un vecchio turatiano (agnostico e per di più mezzo ebreo), finse di lasciare questo mondo di fenomeni e di ingiustizie con la speranza di librarsi, prima o poi purificato, in qualcuno dei Sette-Cieli. Fosse venuto il prete-filosofo sepolto lì accanto, avrebbero (suppongo), parlato d’altro, magari della quaestio gnostica. Trovando forse unpunto d’intesa nella coppia improbabile di fede e conoscenza.

Nel luogo degli estinti è come nei musei: le buone idee e l’urne de’ forti si coprono subito di polvere. E gli epitaffi meglio intenzionati sbagliano, come le didascalie, per eccesso o per difetto e diventano subito menzogne o, nei casi migliori, tesi da dimostrare. Ci vorrebbe sempre qualcuno lì pronto a spiegare a viva voce. A ricordare le connessioni. A rievocare le emozioni.

Ma non ho tempo oggi non ho tempo di guardarmi attorno e di cogitare altre banalità su statue, busti, medaglioni di benefattori, educatori, costruttori, scrittori, pensatori, poeti minori, ma pur sempre poeti, esaltati come massimi per spirito di campanile (allora qui dovrebbe giacere l’Ugo Foscolo, che ebbe in loco ispirazioni sepolcrali dal Cavaliere Pindemonte, Ippolito per gli amici, poeta gentile e campestre, che il Nostro disse di virtù virilmente modeste).

E neppure ho tempo di indugiare sull’eterno gioco dei quattro cantoni Io/Es/Super-Io/Miei-Morti, che continuerà ad impegnarmi ovunque e per quel tanto che mi resti da giocare. Mi limito dunque ad accomiatarmi, contro ogni principio di realtà, con la giaculatoria dei nipoti-pronipotine.

Vado speditamente verso l’exitus, sollevato come ci si sente ogni volta che si è assolto un obbligo ricorrente, penoso ma doveroso.

E trovo i cancelli chiusi.

Scuotendoli ad uno ad uno non si aprono, sono proprio sbarrati.

Guardo perplesso fuori il piazzale deserto, i leoni che dormono della grossa. Chiamo ascoltando. Nessuno risponde. Mi pare impossibile. Non era mai successo.

Corro allarmato alla porta egizia dei custodi. E’ chiusa a chiave. Dai vetri si intravedono i terrei cubiculi degli uffici vuoti, le scrivanie deserte. Busso, ribusso, richiamo. Non c’è proprio nessuno. Se ne sono andati tutti. Sarò per circostanza ingiusto ma li penso nelle loro case traveneri puzzolenti di soffritti, in un’allegoria di gola e lussuria alla Bosch per dipendenti municipali, intenti a ingurgitare allegramente cibi pieni di grassi che scavano anzitempo la fossa, versandosi vini pessimi da bottiglioni con tappo-corona o addirittura da tetrapak.

Di solito lasciano un varco (l’ho già detto) per i ritardatari. Ma io non avevo mai tardato tanto, e di domenica. Si vede che senza avvedermene ho perso tempo a guardare qua e là. Le distrazioni non mancano in un cimitero.

Sono solo e prigioniero fra le tombe, entro le mura sbarrate di questa finta città di non esistenti esistentissimi.

Cerco ispirazione guardando in alto, ma controluce scorgo soltanto di schiena il gruppo statuario-iettatorio delle prèfiche, che assolvono con totale impegno il loro compito di piangere. Sembrano scuotere davvero le spalle, e mi deprimono ancora di più. Un pensiero freddo mi coglie: dovrò restare qui dentro fino alla riapertura del pomeriggio? Sedendo per tre ore e mezzo su una lapide?

Sarebbe l’occasione buona per meditare finalmente in modo esaustivo sulla possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esser-ci (qui sotto) o meglio sullavanitas vanitatum, che parrebbe un assunto più semplice. Peccato non avere in tasca l’Ecclesiaste nell’ultima versione di Ceronetti. Ma per tre ore e mezzo?

“Troppo pensiero la carne sfiorisce”, dice il saggio Qohélet, e intanto il risotto diventa una colla. Cosa penserà chi mi aspetta a pranzo non vedendomi arrivare senza nemmeno una telefonata? La tavola vuota, il mangiare freddo coperto da un piatto, un’aria pesante di rimprovero.

Però non ho perso completamente le speranze. Rifaccio correndo, con l’angoscia che mi cresce ad ogni passo, tutto l’itinerario già percorso, fiducioso che nel camposanto nuovo si abbiano idee più moderne, più deregolate, e resti a me uno spiraglio per uscirmene.

Niente. Anche lì i cancelli sono chiusi.

Ho un tuffo al cuore scorgendo oltre le sbarre l’ultima fioraia che sale in auto. Chiamare aiuto per paura dei morti non mi sta tanto bene, ma prima che se ne vada la chiamo, eccome, con voce strozzata tendendo le braccia. Mi sente mi vede e rimette un piede a terra. Vada là in fondo dietro la chiesa e chieda ai padri francescani, mi grida, loro ci sono sempre, vivono qui.

Via dunque, ancora più di corsa, verso i miei salvatori serafici, benedetti frati! Viene sempre il momento di rivolgersi a chi trae ragione di vita da sora nostra morte corporale. Cari umili frari del Santissimo Redentore, voi caverete certo d’impaccio questo povero vostro fratello smarrito, oltre che nella sostanza, nell’accidente che lo vede chiuso per sbaglio da vivo fra i trapassati.

Passo con sguardo vuoto sforzandomi di non guardare un campo dove la terra è stata smossa con le ruspe per la ventennale rotazione delle salme. Tento di sottrarmi al pensiero delle mutazioni tanatomorfiche avvenute e in corso in questi luoghi gaddiani di fasto verminoso (saponificazione, nitrificazione e buon’ultima la colliquazione putrida). Hanno un bel dire laggiù in Oriente che contemplare i vision effects di cadaveri in varie fasi di disfacimento, come nella piscina di Poltergeist, è tema di meditazione assai raccomandato al discepolo buddhista, quale primo passo di consapevolezza sul nobile sentiero che mena alla realtà del Vuoto, inesprimibile e definitivo. Ma io, che non sono purtroppo né buddhista né consapevole, non ci sto.

E siccome ai cattivi pensieri indotti da Madama Morte non si comanda se non dando forza raddoppiata e ansimante alle gambe, corro via, via più presto che posso, rifiutando a occhi chiusi il memento mori e ogni ulteriore memento.

Così correndo giungo ad un viale sul retro mai prima percorso, dove s’apre la porta conventuale. E scopro lì di fronte uno spazio nuovo, che definire pieno di tombe mi pare improprio.

Al riparo e a contrasto con tutta l’ascetica lietamente negativa d’umiltà-semplicità-sobrietà del Poverello, nuovi ricchi si sono eretti qui fior di mausolei, veri e propri stand pomposi per la fiera dell’aldilà, dove non solo i morti sono morti, ma la misura è morta e sepolta senza speranza di resurrezione. Saranno queste l’urne de’ nuovi forti, o piuttosto de’ nuovi furbi, come vuole l’andazzo?

Così moralizzando cerco intanto di vedere come richiamare l’attenzione dei frati. Tutto è chiuso anche qui. Busso e ribusso, chiedo se c’è qualcuno. Silenzio di tomba. Saranno (penso) alla lor parca mensa. Come invocare i buoni padri?

“Fratelli!” mi viene spontaneo e grido e rigrido l’insolito appello evangelico, che ad alta voce nel silenzio e nell’immobilità sepolcrale mi suona ancora più straniato.

Inutile: i fratelli o pregano o dormitano post prandium su dimessi giacigli.

Ispeziono in giro. C’è un antico erto cancello, chiuso con tanto di lucchettone, che dà su una strada deserta in fondo alla quale séguita indifferente il via vai cittadino delle auto. Barriera puntuta troppo pericolosa da scalare.

E c’è un duplice muro: uno abbastanza basso che protegge un piccolo vigneto (forse dei frati per farci il vin santo) e poi la vera cinta che mi separa dall’esterno. Ben alta, accidenti, ma potrebbe esserlo di più se rispettasse alla lettera il limite superiore delle regole di polizia mortuaria che prescrivono di separare gli anti-vivi dai vivi con drastiche barriere di metri sei. Questa invece (per fortuna) ne misurerà al massimo tre. Il varco sarà qui? Zodiaco per la mia fuga sarà il vigneto dei Servi-di-Dio?

Vediamo. Riflettiamo con calma. Mi occorrerebbe un supporto, un qualche puntello che potesse elevarmi sul primo muro (purtroppo non sono frate Masseo, che santo Francesco col solo fiato levò in aria e gittòllo dinanzi a sé per ispazio di una grande asta).

Mi guardo attorno. E scorgo lì appresso tracce di lavori in corso in uno dei funebri stand miliardari. Mi ci affaccio. E’ una specie di stazione di servizio per viaggi escatologici, edificata secondo un progetto architettonico niente male, che prevede nell’ipogeo ancora fresco di cemento ben ventiquattro loculi, con lampada votiva centralizzata e ripostiglio funzionale di scope e detersivi per le meste faccende. Dev’essere d’una grossa famiglia (ci sarà da fare per generazioni di necrofori, ma l’importante è stare uniti anche da morti, così che a parenti e congiunti superstiti, o al personale demandato a farlo, sia più agevole il periodico omaggio cumulato mensile).

Abbandonati dai muratori nella sosta domenicale, vedo gli strumenti salvifici: cavalletti e assi. Li trascino fuori e con un bricolage di ponteggio, detto e fatto, sono a cavallo del primo muro.

Gulliver! esclamo tra me a questo punto. Perché mi è risalito improvviso il ricordo illuminante della visita dell’Uomo-montagna agli appartamenti imperiali nel palazzo di Belfaborac, in Mildendo, capitale di Lilliput. Che fece il nostro eroe? Prese due sgabelli e, montando con un piede sull’uno e tirandosi dietro l’altro, poté delicatamente passare da cortile a cortile fino alle stanze dell’imperatrice e dei principi(ni), senza spiaccicare né i microedifici né gli inquilini-formiche.

Tiro su cavalletti e assi e li butto di là sull’erbetta che cresce sotto le vigne. Mi serviranno come base per salire sul secondo più difficile muro. In un angolo del vigneto trovo e benedico una scaletta da vignaiolo. Che mi consentirà il balzo finale. E sono subito sul culmine della muraglia.

Mi guardo attorno con piglio confesso trionfale, con i pugni sui fianchi. Visto da sotto, sembrerò un Condottiero imperiale, alla maniera dei Giornali-Luce d’una volta. E penso che mi spetterebbe un premio per la mia impresa, non dico la Spada dell’Islam ma almeno il titolo di “Nardac imperiale di primo grado”, suprema onorificenza lillipuziana.

Mentre mi congratulo così con me, chi non scorgo lontano sul viale degli stand cimiteriali se non, fermo che mi guarda, un fraticello col suo saio marrone?

Gli faccio un cenno di saluto trionfale e lo vedo congiungere le mani in gesto di preghiera, stupito e forse spaventato nello scorgere un secolare sconosciuto issato sulla cinta del camposanto con aria strafottente.

Fin che traffico a tirar su la scaletta e a sistemarla su una sporgenza esterna per scendere, il padre si avvicina timoroso e da dietro il cancello mi domanda che cosa io stia facendo lassù. E’ un frate senescente, mi sembra un po’ rintronato. Gli spiego ma non capisce e ricongiunge le mani in preghiera. Aspetti che scendo, dico, e lo faccio con un salto finale che mi sorprende per l’agilità insospettata delle mie membra non più avvezze a simili acrobazie.

Mi accosto al cancello, finalmente dalla parte dei vivi, e spiego meglio l’accaduto al cappuccino, che da dentro si appoggia ai ferri con mani tremolanti. Sembra ancora non capire, ma sta solo cercando le parole giuste per spiegarmi l’evento in senso provvidenziale. Difatti dice: ha provveduto Nostro-Signore-a-laude-di-Cristo-amen. E si segna.

Mi verrebbe orgogliosamente da ribattere che sono uscito di lì grazie alla mia intraprendenza di homo faber e ai suggerimenti sarcastici di Jonathan Swift, ma il frate potrebbe sempre rimandare il tutto all’ispirazione divina e saremmo daccapo nelle scatole cinesi della fede che si annulla in Dio (e fa volare fra’ Masseo) e dello scetticismo che finisce con le spalle contro il muro ineluttabile del Nulla (e vi trova la spinta, se l’angoscia non lo vince, a dare il meglio di sé).

Così me la cavo allargando genericamente le braccia come a dire: sono disponibile per tutte le opinioni (ma poiché fa bene avere un’idea cogitante di sé, intanto rifletto: sarà una fede cieca anche il mio credere nel Nulla, nel non-pensato dei non-vivi? O se è solo Dubbio, a cosa mi serve?).

Poi infilo tra le sbarre la scaletta pregando il vecchio padre di restituirla al vignaiolo, e di avvertirlo che troverà nel suo campo cavalletti e assi da rendere gentilmente domani lunedì ai muratori con tante scuse da parte mia per il disturbo, ma era un’emergenza. Mi benedice stringendo il rosario francescano delle Sette Allegrezze che gli pende dal cordiglio e io lo saluto con molta simpatia.

Ora tutto del mondo mi è tornato simpatico. Hai superato (mi dico) una grande prova. Ti sei cavato dai triboli con una soluzione elegante e acculturata, e con prestazioni acrobatiche. E visto che a tutto ciò che accade si può dare e si dà un significato più o meno simbolico traendone auspici, io mi sento quanto mai ottimista sul futuro e sulle mie capacità di sopravvivere ancora per un po’. E quanto al Nulla, se il Non-c’è c’è , si fotta.

Me ne vado corroborato per il viale (che la targa dice dedicato ai Caduti-senza-Croce, ma io sono così gonfio d’autocompiacimento che nemmeno mi chiedo cosa voglia significare), avviandomi con passo spedito al risotto, che mi sarà scodellato con giusta cottura all’ora debita, come se niente di straordinario mi fosse accaduto stamane.

E mi riprometto alla fine del pranzo di sollevare il bicchiere colmo di Valpolicella in un brindisi da vecchio attore cechoviano ubriaco al cimitero: beviamo al riposo dell’anima!