Storie

Altre Storie – Su niente, gratis
Emilio e un ready-made del ‘700

Un percorso di lettura

Una figura astratta o informale in un libro non sorprende più nessuno al giorno d’oggi. I giovani sposi squattrinati usano appendere in salotto senza problemi un poster di Kandinskij o di Klee o magari di Pollock, e spesso l’unico interrogativo che si pongono è se si intona col tessuto del divano. E in un libro, poi, la figura senza forma non suscita interrogativi di nessun tipo: la guardi, ti piace o non ti piace, e volti pagina. Ma se il libro che contiene un’immagine priva di forma riconoscibile sta negli scaffali delle biblioteche di tutto il mondo da duecento anni e più, la cosa si fa strana, un certo stupore è d’obbligo.

E’ successo ad Emilio di stupirsi, non oggi e non duecento anni fa, ma alla fine degli anni Trenta del ventesimo secolo. Emilio, nel 1939, è un ginnasiale molto spettinato. E per il semplice fatto di essere giovane, è anche molto ignaro, benché disponibile (pur senza rendersene conto), a non esserlo più.

Ha trovato il libro, anzi, i tre “tomi” del libro, nella biblioteca del padre. Tre smilzi volumi non rilegati che egli giudica subito vecchi per la curiosa copertina (sembra di pergamena) e le pagine di carta spessa e rugosa ma singolarmente leggera, da tagliare nelle ripiegature con una lama affilata. Così diversi dai suoi libri di scuola, con la loro carta liscia e pesante, già quasi tutti squadrati sbrigativamente dalla cesoia meccanica.

Disegni decorativi uguali sulle copertine delle tre brossure ─ piante che si arrampicano e si intrecciano lungo i margini ─ collaborano ad accentuarne l’aria di antichità. Ma non devono essere libri vecchi, perché hanno l’aspetto fresco di quelli nuovi. In alto, sopra il titolo, tra due maschere da commedia classica dalle cui bocche spuntano penne d’oca, campisce un cartiglio con la scritta: Classici del ridere. In basso due putti cercano di sollevare un cuore, contornato dalla dicitura: amor et labor vitast.

Emilio ci mette un po’ a ricordarsi del nondum maturast che chiudeva a scuola la favola della volpe e dell’uva e a capire che l’ultima parola attorno al cuore sta per vita est. E pensa che la frase non sia tanto da ridere.

Anche il retro di ognuno dei tre tomi ha un’illustrazione sempre uguale: un assembramento di facce grottesche, raffiguranti ogni grado di ilarità, ironia e ludibrio, dal sorrisetto beffardo allo sghignazzamento più sgangherato. Tanta allegria è provocata da una specie di fauno ignudo, muscoloso e abbronzato, che intinge una lunga penna d’oca nella bocca-calamaio di un’ulteriore maschera, e con l’altra mano svolge un’interminabile striscia di carta, sulla quale va evidentemente scrivendo parole di comicità irresistibile.

In basso, tra i suoi piedi, si legge ancora una sentenza: risus quoque vitast. E qui, dopo aver riflettuto, Emilio capisce che l’amore e il lavoro esaltati in prima facciata erano soltanto una premessa alla battuta finale e provocatoria apposta sul retro. Amare e lavorare non bastano alla vita se non c’è divertimento. Chiaro, per chi sa il latino. Ma che fatica e quanto spreco di allegorie per dire una cosa così semplice ed evidente. L’autore del disegno si è firmato con un a•de•karolis tutto perentoriamente in maiuscolo.

Sfogliando i tre volumi, Emilio constata che solo poche pagine iniziali del primo sono state tagliate. Questo significa che suo padre si è limitato ad un assaggio di lettura, come spesso fa con i libri appena comprati. E l’arresto del taglio dice che il contenuto è risultato lontano dai suoi interessi del momento o non è apparso al genitore sufficientemente appetibile per indurlo a proseguire subito.

E’ una fortuna per i lettori pigri e frettolosi, pensa Emilio, che tanti libri non siano più, oggi (cioè alla fine degli anni Trenta), da tagliare pagina per pagina, altrimenti chissà quante millantate letture si scoprirebbero sfogliandoli. Lui, invece, è andato diligentemente avanti a leggere e man mano a tagliare, trasgredendo per ignoranza alla regola prima dei pedanti, che prescrive di passare subito al coltello tutte le pagine fino all’ultima, per evitare squadernamenti e altri danni alla brossura.

Il libro lo sta seducendo straordinariamente. Non si può dire che sia un romanzo, ma non è nemmeno un saggio, se dio vuole. Chi scrive racconta sì una storia in prima persona, ma se la prende molto comoda, sembra non avere la minima voglia di portare avanti la trama, di arrivare al dunque. Continua a svicolare, ogni pretesto è buono per parlare d’altro, per chiacchierare di questo e di quello. Perde continuamente, e senza preoccuparsene, il filo del discorso.

Protagonisti principali della vicenda sono: il narratore Tristano, che comincia a raccontare la sua vita sin dal proprio concepimento, pratica che di necessità coinvolge il padre cogitante e la madre svagata, ma poi compaiono lentamente altri personaggi, lo zio Tobia, ex ufficiale con il pallino delle fortificazioni e degli assedi, a sua volta assediato dalla vedova Wadman, e ancora il fedele ex attendente caporale Trim, il medico e amico di famiglia dottor Slop e il parroco Yorick.

L’autore è il solito bizzarro inglese, e il ginnasiale Emilio, nonostante porti all’occhiello un piccolo distintivo distribuito a scuola con la scritta dio stramaledica gli inglesi, predilige certi scrittori britannici e il loro modo (che gli sembra molto elegante), di prendere in giro il mondo e se stessi. Si è divertito moltissimo a leggere e rileggere le avventure di tre uomini in barca, del maggiordomo Jeeves e dei membri del Circolo Pickwick, tanto che ormai ne sa a memoria pagine intere. Con un compagno di scuola, che condivide i suoi gusti, gioca alle citazioni. Quando i due stanno assieme, hanno preso a parlare come quei personaggi, o meglio, a servirsi delle espressioni stereotipate usate dai traduttori per rendere in italiano la parlata d’oltremanica.

Ma torniamo al libro. Giunto alla pagina 260 del primo tomo (la storia risulta divisa complessivamente in nove “libri”, e siamo alla fine del terzo, capitolo xxxvi), Emilio è colpito da un’immagine che occupa tutto il foglio, uno strano pastrocchio stampato in blu. La figura è stata preannunciata nella pagina precedente da un’ispirata perorazione dell’autore:

“Leggete, leggete, leggete, leggete, mio ignorante lettore! Leggete; altrimenti, per la scienza del gran San Parelipomene!, vi dico fin d’ora che fareste meglio a lasciare questo libro una volta per sempre. Perché senza molta lettura (e Vossignoria sa che con ciò intendo dire molto sapere) non solo non sarete capace di penetrare il senso della pagina marmorizzata qui unita (emblema screziato dell’opera mia!); ma andrete d’accordo con coloro che, malgrado tutta la sagacità di cui sono dotati, sono stati incapaci di scoprire le numerose idee, transazioni e verità che restano tuttora misteriosamente nascoste sotto il buio velame della pagina nera.”

Emilio se la ricorda bene la pagina nera, stampata nel primo “libro”. Va a rivederla (è alla fine del capitolo xii) e ritrova il rettangolo scuro e approssimativo che, lì per lì, aveva preso per un errore del tipografo. Nella pagina precedente si raccontavano le ultime ore di vita del povero ma tanto umano e spiritoso parroco di campagna Yorick, che si era riempito per altruismo di debiti fino a morirne di crepacuore. Sulla sua lapide era stato scritto: ahimė, povero yorick! e sentir pronunciare quell’epitaffio nelle più diverse intonazioni lamentose dai tanti pii visitatori, confortava l’animo del narratore. Voltando pagina si vedeva un’impronta nerastra che occupava tutto lo spazio destinato ai caratteri e chiudeva bruscamente il capitolo. L’inesperto ginnasiale s’era quasi sentito cadere a capofitto nel buio del foglio, come in una fossa aperta.

Raffrontando la pagina “marmorizzata”, di cui sta misteriosamente perorando il narratore, con la precedente pagina nera, Emilio sembra capire che quel cupo rettangolo volesse rappresentare non la fossa, ma la lapide del parroco. Ma questo non basta a chiarire l’incomprensibilità del pastrocchio blu. Secondo il testo sarebbe una pagina “di marmo”, tant’è che è stata associata alla precedente pagina “nera”, tombale e, quindi, ugualmente di marmo o di pietra. Ma niente di marmoreo o di pietroso sembra trasparire dalla figura, se non la sua inesplicabilità.

Per quanto, guardando meglio, Emilio crede di riconoscere, in basso a destra, una parvenza di pavimento cosiddetto palladiano: frammenti di marmo cementati assieme, che per associazione di idee gli ricordano i gabinetti di scuola (e si sente scappare la pipì). Ma il resto dell’illustrazione gli pare nient’altro che una battigia dopo la mareggiata, con incerte tracce di alghe e stelle di mare rimaste a secco.

Fermo nelle sue scarse convinzioni riguardo all’arte, fondate su poche idee correnti e dominanti nel tempo e nel luogo in cui vive, il ragazzo non riesce nemmeno a pensare che non sia possibile attribuire un significato ad una figura stampata in un libro. Nessuno gli ha ancora parlato di un’immagine astratta. Se il significato non si vede, è uno scarabocchio o uno scherzo. E ugualmente scherzi, divertenti ma scherzi, saranno le varie bizzarrie disseminate nei tre tomi, come la prefazione dell’autore spostata nel terzo “libro”; la dedica lasciata col nome in bianco, messa all’asta per il miglior offerente e, subito dopo, la vera dedica alla Luna, i capitoli di una sola riga o riempiti di punti sospensivi o, addirittura, invertiti o saltati oppure lasciati in bianco, affinché ciascuno li possa completare liberamente con la propria immaginazione. E la pagina nera.

Arrivato alla fine dei tre tomi, Emilio si rende conto che la trama labile e insignificante dispersa nei nove “libri”, tra mille digressioni, fantasie, rievocazioni e salti temporali indietro e avanti, concerne la vicenda di quei pochi personaggi nel giro d’una sola giornata, iniziata, come s’è detto, con il concepimento del narratore. Un inno alla lentezza e alla riflessione disimpegnata, in radicale contrasto con le idee esagitate, minacciose e prive di humour dei tempi che corrono mentre il ginnasiale legge: è arrivato alle ultime pagine dell’ultimo tomo esattamente nel momento un cui gli stormi aerei e le divisioni corazzate di Hitler prostrano e conquistano, con una guerra lampo di pochi giorni, la Polonia.

Le folate dei venti guerrieri disperdono le poche idee di Emilio e il ricordo della strana storia, che nel frattempo è finita in cantina assieme agli altri libri, unico tesoro paterno, a protezione dai bombardamenti. Poi l’orgogliosa e spietata macchina bellica s’impantana nel fango, s’insabbia nei deserti, i giorni-lampo diventano anni crudeli d’angoscia di rovina di morte. La linea retta d’una facile crociata, tracciata così bene nei discorsi sulle piazze e nei proclami letti alla radio, s’è mutata in un percorso irto di spigoli. Com’era riposante, al confronto, la linea piena di allegre curve e ghirigori che l’autore stesso aveva disegnato a un certo punto del libro per descrivere le proprie divagazioni. Ci sarebbe tempo per rammentarsene e per rifletterci su, in certe pause di quiete della guerra, durante le quali il ragazzo trova modo di leggere, dello stesso autore, una storia di viaggio, anch’essa lentissima e divagante. Ma nessuno, Emilio compreso, ha voglia di riflettere, che si sappia. Tutti si preoccupano solo di sopravvivere, e qualcuno più coraggioso di resistere all’odio e alla violenza. Finché l’incubo finisce in un’improvvisa, travolgente esplosione di felicità di essere vivi e (pare) liberi. E sembra per un momento, persino a chi non ha fede in qualcosa, che la Vita e la Storia abbiano un senso, non siano un quiproquo, come diceva a sconcerto l’ultima frase lasciata cadere dal parroco Yorick alla non-fine del racconto di Tristano.

Si torna alle consuetudini della normalità e i tre tomi in finta pergamena riemergono alla luce dalla cantina e ritrovano posto negli scaffali amorosamente riordinati. Ma devono passare ancora parecchi anni prima che Emilio, ormai non più ragazzo, riprenda in mano a tempo perso le tre brossure, osservi le copertine e si accorga di guardarle con occhio più attento, risfogli le pagine e si soffermi sulle illustrazioni e sullo scarabocchio blu.

Qualche frequentazione più che altro casuale, qualche lettura di libri e giornali che dicono cose insospettate, qualche mostra di quadri fino a ieri invisibili (e quindi inesistenti), perché lontani dai poco aggiornati gusti dominanti, o perché prima considerati addirittura arte degenerata, hanno spalancato davanti ad Emilio un intero mondo, del quale egli crede ora di aver capito molte cose. Il libro stesso di cui si sta parlando (che ovviamente è un capolavoro conclamato, La vita e le opinioni di Tristano Shandy, di Lawrence Sterne, nella prima traduzione integrale italiana di Ada Salvatore, del 1922), sembra aver svolto un lento lavorio dentro di lui, svegliandolo un po’, disponendolo a recepire meglio nuovi stimoli.

Al primo approccio (ma sono passati quasi dieci anni), egli non aveva saputo cogliere gli innumerevoli riferimenti e travestimenti letterari e filosofici, le “idee, transazioni e verità” nascoste non solo sotto la pagina nera ma in ogni altra pagina del libro. Gli era sfuggito il suo significato profondamente innovatore. Ne aveva appena sfiorato la superficie, il cui fulgore sorprendente era tuttavia bastato a sedurlo, al livello più semplice e diretto. I capolavori funzionano così, a quanto pare, al di là delle stesse intenzioni dell’autore. Il quale si era divertito a scrivere la sua storia anche e soprattutto a beneficio del lettore comune del suo tempo. E persino di quel ragazzo italiano di due secoli dopo.

Bisognerebbe saperne di più su questo romanzo, pensa Emilio, che ha nel frattempo sostituito la spettinatura con un accurato ravvio al fissatore. E va a leggere la prefazione della traduttrice, saltata regolarmente al primo impatto, quando introduzioni, note e chiose gli parevano roba da scuola, noiosità da secchioni, inutili perdite di tempo per chi ama abbandonarsi alle favole raccontate. Adesso che la scuola è finita, la premessa gli svela notizie interessanti. Innanzitutto, che Sterne, particolare non da poco, era inglese solo per metà, essendo sua madre nativa d’Irlanda, patria di personalità fantasiose. Si precisa anche l’epoca in cui il libro è stato scritto, che non è un vago passato, una rievocazione immaginaria di tempi andati, ma proprio il Settecento in cui è vissuto l’autore e nel quale è ambientata la vicenda, labilissima ma sempre vicenda. Un libro vecchio di due secoli, si stupisce Emilio, eppure così “moderno”!

Quando il narratore dice: “il quinto giorno di novembre 1718, io, Tristano Shandy, fui introdotto in questo ignobile mondo”, si può capire che l’autore sta grosso modo parlando di sé, nato nel 1713 a Clonmel, nell’Irlanda del Sud, da Agnes Hebert e da Roger Sterne. Il padre era ufficiale nel reggimento di Handaside, mandato di stanza nella irrequieta terra cattolica materna dopo la pace di Utrecht. Il trattato (che guarda caso è proprio dello stesso 1713), aveva messo fine, come Emilio dovrebbe saper ricordare, ai tredici anni della devastante guerra di successione franco-spagnola, con tutte le sue sanguinose complicazioni di potere e di fede, tra anglicani, protestanti e seguaci della chiesa romana.

La prefazione chiarisce però che lo scrittore non si era voluto identificare nel protagonista narrante, bensì nel buon parroco Yorick, al quale aveva attribuito le caratteristiche contraddittorie che credeva di ravvisare, non senza ragione, nella propria personalità: l’ecclesiastico (anglicano) semplice e comprensivo, compilatore di sermoni pieni di carità cristiana e, insieme, il giullare ribelle, che si beffa di ogni vincolo e conformismo. Tant’è che l’autore aveva ipotizzato a un certo punto una discendenza del religioso dal buffone scespiriano sul cui teschio, appena cavato da una fossa, malinconicamente rifletteva il biondo principe di Danimarca.

Un misto di spirito compassionevole e di poco timorato humour, dunque. Carattere non dissimile, a quanto sembra, a quello dell’A•F•FORMIGGINI EDITORE IN ROMA disegnato in copertina, scritta per molto tempo sfuggita allo sguardo di Emilio. Leggendo qualche giornale nel dopoguerra, egli ha potuto conoscere per esteso il nome dell’editore italiano, Angelo Fortunato, e apprendere qualcosa sull’inventore dei Classici del ridere. Il Formiggini era un dotto ed estroso professore di lettere, non romano come la sua casa editrice, ma emiliano di Modena, di vecchia origine ebraica ma con molti rami cattolici e con una formazione filosofica e morale positivista.

Si era laureato a Modena nel 1901 in giurisprudenza con una tesi intitolata: Contributo storico-giuridico ad un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita. Aveva poi preso nel 1907 a Bologna anche la laurea in lettere, discutendo su un tema, la Filosofia del Ridere, che segnava il suo futuro di editore. La collana dei Classici del ridere era nata, accanto ad altre numerose e pregevoli iniziative editoriali di argomento filosofico e pedagogico, nel 1912 a Genova, dove per alcuni anni Formiggini era vissuto fino alla prima guerra mondiale. Dopo l’esperienza di trincea, con qualche strascico di salute, egli si era trasferito a Roma, dove pensava di trovare un terreno più fertile per le sue intraprese culturali. Ma qui, all’avvento delle camicie nere nel 1922, erano cominciati i suoi guai. Era stato accusato di antifascismo dall’illustre professore idealista Giovanni Gentile, promosso filosofo del Regime, e tanto era bastato a fargli attorno il vuoto. Formiggini non aveva abbracciato nessuna militanza politica e si ostinava soltanto a professare una grande indipendenza di idee. La sua casa editrice era eclettica, aperta a tutte le esperienze, senza pregiudizi culturali e ideologici. Gli mancava tuttavia un protettore, uno come don Benedetto Croce, altro peso massimo dell’idealismo, guardaspalle della prestigiosa casa Laterza, che stampava libri riservati soltanto a quattro gatti studiosi. Formiggini aveva in più le aggravanti dell’humour e di un certo successo di pubblico, che lo facevano pericolosamente “non allineato”, in un’epoca in cui la massa doveva collaborare, con sorrisi o senza, all’esaltazione del Nuovo Ordine.

Si erano aggiunte, nell’ottobre del ‘38, le leggi razziali. C‘era poco da ridere. Il povero editore, che stava incontrando oltre tutto serie difficoltà economiche, aveva sistemato in qualche modo le questioni amministrative e fatto testamento. Poi, scritta ai familiari una lettera d’addio, aveva preso il treno per Modena. Qui, dopo aver festeggiato come ogni anno con gli amici la ricorrenza della laurea, era salito sulla torre Ghirlandina e, il 24 novembre 1938, si era gettato di sotto.

Chiusa la triste vicenda con qualche riga reticente di cronaca locale, come era allora prescritto, la collana dei Classici del ridere era finita in liquidazione sui banchi dei venditori di libri vecchi, dove il padre di Emilio aveva acquistato per quattro soldi i titoli più interessanti. E le opinioni di Tristano Shandy s’erano avviate a trasferirsi nella mente inesperta del ginnasiale e, con lentezza, a fruttificarvi.

Il tempo sembra lento ma poi passa in fretta e siamo già in vista degli anni Cinquanta. Emilio studia pigramente diritto romano all’università, ma ogni volta che guarda nello scaffale i tre tomi del Tristano Shandy, si sorprende a voler sapere altre cose del libro e del suo autore, anche per inconfessata rivalsa sulla supposta indifferenza paterna, testimoniata dalla lettura interrotta dopo poche pagine. Non è che ci sia molto da leggere in proposito. L’Italia sta ancora prendendo la rincorsa per recuperare il ritardo su tutto quello che per anni è stato trascurato o tenuto in un angolo perché “pericoloso “o “straniero” o tutt’e due.

Emilio trova subito qualcosa su quell’ A•DE•KAROLIS , autore della copertina. Che di nome era Adolfo e nella biografia aveva perso la kappa. Era morto da tempo, nel 1928, dopo una vita di intenso lavoro e di successi accademici. Nel 1950 le sue spoglie erano state traslate in un sepolcro monumentale a Montefiore dell’Aso, suo paese natale, nell’ascolano, e i giornali ne avevano parlato. Era stato un abile disegnatore, incisore, scenografo e pittore di affreschi. Il suo stile era di ascendenza preraffellita, tra classicheggiante e simbolista, come dice un catalogo scovato da Emilio in casa di un amico artista. Aveva illustrato le opere del Pascoli e del D’Annunzio, era stato un maestro della silografia, tecnica d’incisione su legno caduta in disuso dopo l’avvento della fotomeccanica. L’artista aveva contribuito attivamente a riportarla in vita anche in Italia, con il ritorno in voga della manualità artigiana, a partire dalla fine dell’Ottocento. Un suo autoritratto silografico lo mostrava in posa e stile smaccatamente düreriani, persino nella firma, con una sigla centrata su una grande A. Un’immagine piena di sé.

Decisamente, pensa Emilio, a quel De Carolis doveva essere mancato il senso del ridicolo. Era l’ultimo a cui si potesse pensare per una copertina di libri da ridere. Il Formiggini si era dimostrato bravissimo a scegliere gli autori di grandi testi della classicità non ortodossa e ad imboccare in modo geniale strade controcorrente e ancora non battute dalle mode letterarie vigenti in Italia nei primi anni del Novecento. Ma non aveva evidentemente idee altrettanto chiare sulle arti figurative. E lo si poteva scusare, visto il dominante provincialismo culturale. Era stato sfortunato anche in questo, a dispetto del suo secondo nome. Per uno scarto di uno o due anni, egli aveva mancato le avanguardie non ancora “storiche” ma estremamente aggressive, che stavano esplodendo e che avrebbero scardinato le idee sull’arte. O forse egli le avrebbe rifiutate, come allora quasi tutti, del resto. Che poi i modi nuovi di fare arte potessero in quel momento essere applicabili all’illustrazione di libri e graditi al pubblico, era cosa dubbia.

L’editore s’era comunque affidato sin dagli anni Dieci, come consulente artistico, a quel neo-manierista eclettico e retró del De Carolis. Per il quale erano già grandi novità anticipatrici le pur fertilissime utopie filantropiche sulla rivalutazione dell’artigianato e le teorie modernistiche globali sull’incontro tra arte e industria, da tempo ben diffuse all’estero, ma rese note all’italiano medio solo nel 1902, da un’esposizione a Torino sulle arti decorative.

La rivestitura in carta pergamena, che richiamava in forma nuova l’antico e l’incunabolo, era stata una buona trovata, ma la copertina del De Carolis, no. Tanto più a guardarla nel momento in cui torna ad osservarla il nostro Emilio, dopo che sono trascorsi quattro decenni dalla stampa, e ci sono state di mezzo due sconvolgenti guerre mondiali. La silografia col genio del riso che scrive ridendo e pensando di far ridere, mostra tutta la vecchia corda della retorica classico-monumentale. Può al massimo far sorridere, ma per quel tanto di comicità involontaria che contiene.

Anche le illustrazioni al testo sembrano ad Emilio piuttosto banali. Sono ancora legni, ma d’un altro incisore, un certo Benito Boccolari, evidentemente artista del cenacolo di De Carolis. Bozzetti graziosi e “umoristici”, decorosi riempitivi che nulla aggiungono al fascino dell’opera. Emilio torna a osservare perplesso il pasticcio della pagina marmorizzata. Lo stile non sembra coincidere con quello delle altre vignette. Le parole del testo che preannunciano lo scarabocchio blu sembrano far capire che lì dovrebbe essere stata riprodotta la stessa immagine stampata nell’edizione inglese originale. Ma sarà così? Sembra impossibile: è una figura troppo stupida, tanto più se paragonata all’intelligenza che trabocca nella scrittura di Sterne. Emilio si convince che anche quella “pagina di marmo” priva di forma è farina (scadente) del Boccolari.

Quale sarà stata, allora, l’illustrazione originale? Chi l’avrà disegnata, magari Sterne stesso? E nelle innumerevoli ristampe in Inghilterra, e poi nelle traduzioni nelle varie lingue d’altri paesi, susseguitesi nel corso di oltre due secoli, sarà stata ripresa la stessa immagine d’origine o qualcos’altro l’avrà sostituita? E se sì, quali artisti, e come, s’erano sbizzarriti a interpretarla nelle diverse epoche? Forse in modo meno fuorviante della silografia attribuita al Boccolari?

Le domande si affollano, le curiosità di Emilio crescono. Sarebbe interessante, e anche divertente (egli fantastica), andar a scovare tutte le pagine di marmo inventate (supposto che sia così) in più di duecento anni. Per vedere se e come fossero mutati i punti di vista, e magari per scoprire, man mano che cambiavano artisti, modelli, mode e culture, significative variazioni del gusto.

Vecchia questione da relativismo illuministico, questa, molto vicina ad alcune delle idee manifestate nel libro stesso dall’autore, che si rifaceva a Locke, più volte citato come guida e faro. John Locke l’empirista, studiato di malavoglia a scuola tra i pensatori dei Seicento. Emilio scopre quanta energia potenziale possa contenere il pensiero di un filosofo. Che gli sembrava così astruso (ma forse lo erano solo le parole del libro di testo), mentre cercava di memorizzarne faticosamente i concetti essenziali da snocciolare al professore, mettendoli a confronto con la altre astruserie dell’intera combriccola di pensatori, a partire dai barbosissimi Greci.

Invece i concetti di Locke si sono fatti sorprendentemente concreti, e anche divertenti, nell’impatto con la realtà, o meglio, con le pagine di quel romanzo inglese scritto cinquant’anni dopo la morte del filosofo. La storia svagata e le opinioni di Tristano Shandy riappaiono tutte tessute attorno ad una visione soggettiva del mondo, dove le sensazioni stanno alle origini delle idee, e le associazioni di idee (qualcosa come il pavimento palladiano che ricordava a Emilio i cessi della sua scuola), offrono il pretesto di variazioni allegre e maliziose. Di lì, da Locke, oltre che da Sterne, doveva venire il buon senso che percorre il libro. E anche la comprensione, il rendersi conto che “tutto è relativo”, la tolleranza per i limiti e le debolezze, la capacità di capire l’animo umano e di abbandonarsi con lievità non solo alle divagazioni, ma anche al sentimento, sia pure tenuto a freno da un’elegante ironia.

Di relativismo culturale si è ricominciato a parlare assai negli anni Cinquanta del Novecento, dopo tante idee locali spacciate per assolute. Chi ne scrive in Italia pare non rendersi ben conto (o forse fa finta di non capire, che è quasi la stessa cosa), che il concetto dovrebbe servire a esorcizzare anche altri assolutismi, ideologici o teologici, tirati fuori dalla naftalina nel dopoguerra, da una parte sull’onda delle nuove mode venute dall’Est, e dall’altra dopo il trionfo elettorale, che ha ridato fiato alle mai sopite voglie di riscossa della chiesa di Roma. Se non è difficile rifiutare queste ultime, non è facile, per la verità, sottrarsi alle lusinghe della voga d’Oriente, anche se non se ne condividono i sistemi per imporre le idee. Tant’è che qualcuno sostiene autorevolmente a Francoforte che il relativismo è “materialismo volgare”, un pensiero senza terreno sotto i piedi, falsamente progressista, in realtà reazionario. Le mode dell’Est dicono che il relativismo non serve al bene dell’umanità, e su questo Emilio non sa cosa obiettare. Bisognerebbe (non sarà un pensiero ingenuo?), trovare un punto di equilibrio fra interessi collettivi e individuali. Sembra che Sterne lo avesse personalmente trovato, già due secoli addietro. Ma in un libro, e la vita non è un libro, con tante scuse a Locke. Né sono vita le figure che lo illustrano.

Altre cose contano, più importanti e vive: lavorare, innamorarsi, sposarsi, avere dei figli, impegnarsi un po’ nella società. Tutto il resto, comprese le idee e le illustrazioni dei libri, è secondario, superfluo, ubbie, fantasie da lasciare ai margini del poco tempo libero che ci si vuol permettere, anche per pensare meno. Altro che pagine di marmo!

Emilio, del resto, non saprebbe nemmeno da dove cominciare la sua vagheggiata ricerca sulle figure marmorizzate. Occorrerebbe avere il tempo di sfogliare mille libri in mille biblioteche di mezza Europa. E le biblioteche sono istituzioni misteriose e labirintiche, mai frequentate. Troppo complicato. Irrealizzabile anche avendo tempo per dedicarvisi. Emilio lascia perdere.

Ora “si è fatto uomo”, si è puntualmente innamorato, ha trovato lavoro, si è sposato, ha dei figli, si sente vagamente impegnato, ha cambiato città. E qui un giorno lo raggiungono le casse di libri del padre morto, che i facchini gli depositano davanti alla porta di casa. Riecco le tre brossure in finta pergamena, con gli altri Classici del ridere comperati tanto tempo fa a prezzo scontato. Ora sono veramente libri vecchi.

Anche Emilio sta diventando vecchio, perché gli anni continuano a passare indifferenti, come nei calendari che si sfogliavano da soli nei film d’una volta. Cominciano ad uscire nuove traduzioni del libro che gli era tanto piaciuto da ragazzo, e saggi critici sul suo autore. Emilio per un po’ nemmeno se ne accorge. Gli basterebbe sfogliare una delle nuove edizioni del Tristano, con tanto di dotte prefazioni, per predisporre la sua mente a recepire nuovi sensi del racconto e forse anche della famosa pagina marmorizzata.

Ancora una volta sarà il caso a ridestare la sua curiosità addormentata. Accade quando Emilio è ormai uno sfaccendato in quiescenza, un vedovo che ha smesso di lavorare più per disamore che per limiti d’età. Un giorno gli capita di esplorare i silenziosi e per lui sempre sospetti penetrali di un’illustre biblioteca pubblica proprio a Genova, dove i Classici del Ridere erano nati. Gli si fanno incontro gli schedari, il colombario dei cassettini con le lettere che contrassegnano in ordine alfabetico l’infinita folla di libri non letti, morti, inesistenti. Ecco la lettera S: SA…SI…SO…ST… Ci sarà Sterne in questo loculo? Scorre le schede. Sì che c’è! Ce n’è un’incredibile quantità, le nuove traduzioni del Tristano, le tante del Viaggio sentimentale. E ci sono altri libri che ne parlano, ci ragionano su. Con un tuffo al cuore, Emilio scopre addirittura un The Life and Opinions of Tristram Shandy datato 1761-62.

Poco dopo gli vengono consegnati due graziosi volumetti in sedicesimo, oggi si direbbero “tascabili”, rilegati in pelle e piuttosto scorticati, ma nitidamente stampati su bellissima carta, con caratteri eleganti e una strana punteggiatura, a lineette, ignorata nelle versioni. L’edizione è incompleta, mancano i primi e gli ultimi “libri”, ma c’è il terzo. Con la pagina marmorizzata originale, e a colori! Anzi, ce ne sono due: sul retro, cioè voltando pagina, se ne vede un’altra, che a prima vista sembra uguale ma rovesciata, come filtrata attraverso la carta. Guardando meglio, si può distinguere invece una figura diversa. E finalmente Emilio trova conferma che le sue perplessità d’un tempo non erano sbagliate. Le due pagine originali sono lontane le mille miglia dalla silografia insulsa e deviante del Boccolari. Sono semplicemente due carte marmorizzate.

Così si chiamano, in gergo di legatoria, quei fogli decorati con disegni e volute che simulano le venature e gli “occhi” del marmo, molto usati una volta per rilegare le copertine e i risguardi dei libri. In inglese, il termine corrispondente è marble-paper. Emilio lo sa perché gli è capitato di visitare, proprio pochi giorni prima (e per un momento si chiede se la coincidenza di fatti, sia pure insignificanti, non sia frutto di preordinati e occulti intrecci), una curiosa, bellissima mostra di antiche carte decorate,

uscite dalle mani di artigiani fantasiosi, conservate in una collezione milanese. Carte italiane, tedesche, inglesi, francesi e danesi. Carte dorate, macchiate, spugnate, pettinate, sbruffate, zigrinate, ondate e anche marmorizzate, simili in tutto e per tutto, le ultime, a quelle inserite nel Tristano Shandy. Anzi, nel Tristram: d’ora in poi, chiamarlo così sarà un modo di far capire quanto Emilio sia entrato in confidenza con lui.

La mostra era stata un’esperienza decisiva per il nostro occasionale cercatore di strane immagini. Un pannello spiegava, con parole arcaiche prese da una voce del Dizionario delle Arti e de’ Mestieri di Francesco Griselini, edito a Venezia nel 1769, come si ottenevano — e ancora si ottengono — le carte marmorinate (così le chiamavano a quei tempi nel Veneto gran produttore). Carte considerate una volta “povere”, perché destinate a libri non rilegati in pelle o pergamena, e oggi rivalutate dagli amatori del passato. Per fabbricarle si usa tuttora lo stesso procedimento. Si macera in una bacinella d’acqua una gomma adragante essudata da una pianta, l’astragalo. Si ottiene un “liquore” e vi si stemperano colori ad olio, aggiungendovi un po’ di fiele di bue, che serve a impedirne il miscuglio. Movendo delicatamente con un bastoncino o un pettine la superficie del liquido, si formano ondulazioni, macchie, gore, venature e altre sinuose e suggestive figurazioni galleggianti. Stendendovi sopra un foglio, le volute dei colori sono completamente assorbite dalla carta. E’ un’operazione che occorre ripetere per ogni foglio, versando prima sul liquido, ogni volta, altri colori, per cui ciascuna delle carte risulterà un monotipo. Un unico e irripetibile esemplare, disegnato (come le coincidenze?) dal caso sapientemente guidato dalla “desterità” del manipolatore.

Emilio si era soffermato a lungo ad osservare le carte esposte nella mostra. E come ogni altro visitatore, sprovveduto o no, non aveva mancato di paragonarne i mille fascinosi ghirigori, sgorbi e scherzi (sempre nuovi e quindi sempre uguali), a quelli che si vedono nei dipinti moderni. Aveva sentito tanti esclamare “Ma sono quadri astratti!” e qualcuno, più smaliziato, parlare con le dovute riserve di pittura non oggettiva, informale, di espressionismo astratto o addirittura di action painting.

Proprio come nei quadri, anche le carte decorate rivelavano maniere diverse, ottenute con artifici diversi ma con uguale rigore. C’era da stupirsi, da emozionarsi e da pensarci su, e anche Emilio si era perso a riflettere. Anche sul fatto che le immagini galleggianti a filo d’acqua fossero state, in origine, al centro di un’elaborata tecnica di meditazione religiosa. Cose turche, da sufi, i quali non potendo, da timorati musulmani, tracciare l’immagine e scrivere il nome vero di Allah, presentare l’assoluto, ne individuavano una metafora, un segno, un’allusione all’impresentabile, nelle ondulazioni di colori che si svolgevano, volta per volta, sulla mistura d’acqua e gomma d’astragalo, e nei fogli che ritualmente se ne ricavavano.

Ciò che si era caricato, nel vicino Oriente, d’un occulto significato devozionale, era diventato nell’Occidente infedele, in modo involontariamente blasfemo, un semplice pretesto decorativo. Aveva Sterne voluto assegnare un nuovo senso alla doppia immagine inserita nel suo libro, sotto l’apparenza dello scherzo? Anzi, del gioco di parole, oltre che di figure, visto che egli aveva, nell’edizione inglese, nominato la marble-paper con il nome di marbled page?

Per dare una risposta a tante domande, Emilio non può che seguire l’esortazione a leggere, ribadita ben cinque volte dall’autore nell’introdurre la pagina di marmo, e buttarsi alla ricerca di altre edizioni del Tristram, alla loroconsultazione e confronto e alla lettura di quante prefazioni e saggi critici riesca a trovare. E leggendo leggendo, il nostro “ignorante lettore” scopre qualcosa che gli sembrava di aver vagamente intuito, non tanto sulla pagina marmorizzata (alla quale prefatori e saggisti appena accennano), ma sul modo di raccontare di Sterne, che voleva essere, dicono i dotti, una deliberata reazione alle convenzioni narrative del genere romanzo appena inventato e subito dilagato in Inghilterra e nel Continente verso la metà del secolo decimottavo. Nessuno scrittore aveva usato come Sterne, in modo tanto sistematico e unitario, sino a farne la sostanza di un racconto, la digressione, l’inconsequenzialità cronologica degli eventi, gli artifici grafici e tipografici.

Alla complicazione delle storie narrate da Fielding, Richardson e Smollett (che Emilio non aveva mai sentito prima nominare), a personaggi spesso tanto sventurati e patetici, Sterne aveva contrapposto un’elaborata parodia di romanzo, un ordito di fatti trascurabili intrecciati dal gioco elegante e imprevedibile della fantasia, della sorpresa, del capriccio.

Ma occorre stare molto attenti, raccomanda qualcuno, a non relegare l’autore tra gli English humourists. Fu un madornale errore della critica vittoriana e non il solo. La preoccupazione per certe pagine allora considerate scandalose, suggerì anche agli ipocriti dell’epoca di sovraccaricare il libro con la zavorra di un malinteso sentimentalismo.

E a questo punto Emilio arrossisce. Pensa ai propri errori di valutazione, di quando poneva sullo stesso piatto della bilancia Jeeves, i tre uomini in barca e l’imparagonabile Circolo Pickwick. E aveva rischiato per poco di metterci anche il Tristram. Nel quale, assicura chi se ne intende, non c’è soltanto scanzonato divertimento. L’apparente caos della storia cela un metodo, un congegno sapientemente predisposto. Chi sa leggere può ritrovarvi i motivi di maestri che il colto Sterne conosceva molto bene: Rabelais, Cervantes, Montaigne. Ci sono anche tracce di copiature impudenti, che tuttavia nel contesto suonano bene, acquistano significati nuovi e inattesi. E poi c’è il sempre presente Locke, che ha permesso a Sterne non solo d’escogitare un racconto basato sull’associazione di idee, ma anche di inventare un io che non è soltanto il Tristram narrante. E’ un io (rivelano ad Emilio i dotti prefatori), che, in quanto percepisce, interpreta e dà forma alla realtà, la cui costruzione è sempre condizionata dal sistema di linguaggio che l’io possiede. Pare che questo concetto costituisca il motivo centrale del libro, addirittura un corrispettivo letterario della filosofia lockiana. Sterne ha dunque creato una nuova dimensione narrativa, e per questo appare così moderno. Qualcuno sostiene che il Tristram è addirittura il primo romanzo postmoderno, nato paradossalmente nel momento stesso in cui il moderno si stava affermando. Emilio, imprudente, va a vedere cosa significa postmoderno e viene trascinato in un gorgo di definizioni, citazioni, giri di parole di cui non riesce a scorgere il fondo. Fa più fatica a uscirne del marinaio naufragato nel mezzo del maelström, che almeno sperava salvezza aggrappandosi a oggetti riconoscibili travolti con lui nel vortice d’acqua. Secondo qualcuno, pare che il postmoderno, negando il suo “post”, preceda addirittura il moderno, sia modernismo allo stato nascente. Un serpente marino che si morde la coda.

Parodia di romanzo? Prototipo dell’antiromanzo? O del metaromanzo? (altra parola da cercare). C’è da perdersi nel labirinto di tante ipotesi. Emilio crede di trovare il filo per uscirne in un libro di uno studioso russo, tradotto con enorme ritardo. E’ di un certo Sklovsky, che la nota di copertina dice anticipatore geniale, sin dagli anni Venti, di una complicata corrente critica venuta in voga in Italia negli anni Sessanta, lo strutturalismo. Il volume contiene un saggio proprio su Sterne e sul suo capolavoro. Il testo non è difficile, la prima impressione è anzi che sia chiarissimo. Emilio si sofferma sull’analisi che il russo dedica alla trama del romanzo e, nel giro di un paio d’ore, ha la sensazione di scoprire che le più recenti prefazioni al Tristram finora lette abbiano pescato qui le loro interpretazioni più acute.

Sterne, dice pressappoco Sklovsky, ha messo a nudo l’artificio della narrazione e delle sue tecniche. Anziché nasconderne la convenzionalità, che il lettore dà per scontata, perché è da essa che trae il piacere della fabula, ne rivela subito il carattere artificioso, lo “sottolinea e gioca con esso”. Arriva a dissertare in un capitolo sul capitolo stesso, mettendo in risalto “la forma e in particolare i suoi canoni”. Anche il tempo letterario è una convenzione di cui prendersi giuoco. Dalla sorprendente deformazione e violazione delle forme tradizionali del romanzo, nasce la singolarità del Tristram, ed è all’origine del successo che ebbe, all’uscita, la prima parte dell’opera, anche se le cose migliori si trovano forse negli ultimi “libri”, che piacquero meno ai lettori, ormai assuefatti alle novità di quella storia, che si rivela tuttavia, conclude Sklovsky, come “il romanzo-tipo della letteratura mondiale”.

Anche un altro letterato di gran peso, negli stessi anni, giudica Sterne un geniale precursore. Nel recensire l’Ulysses appena uscito (siamo nel 1922), Thomas Stearns Eliot ricorda che l’ecclesiastico capitolare di York aveva anticipato, più di centocinquant’anni prima, il rivoluzionario metodo di narrare di James Joyce. Il cui romanzo, come il Tristram, racconta le banali avventure quotidiane di Leopold Bloom e di Stephen Dedalus nel giro di una sola giornata.

E le pagine marmorizzate? si chiede Emilio, tornando al suo chiodo fisso. Era lecito considerarle parte integrante nella struttura di quel romanzo-tipo? Sklovsky non ne parla. Emilio ripercorre prefazioni e saggi che ha potuto racimolare. Per tutti, quelle strane immagini sembrano confinate tra gli scherzi grafici usati dall’autore. Giochi che alcuni critici più avveduti, o forse solo più aggiornati, hanno interpretato come elementi formali di straniamento, complementari ai fini della messa a nudo dell’artificio letterario e delle convenzioni narrative. Sarà così?

Fatto sta che Sterne (come Emilio scopre con emozione leggendo una nota a margine in un Tristram stampato a Edimburgo nel 1897, ma singolarmente non illustrato), aveva dato minuziose istruzioni al rilegatore della prima edizione affinché fosse inclusa in ogni copia dell’opera, in fondo al trentaseiesimo capitolo del terzo “libro”, una carta marmorizzata sulle due facciate. Egli intendeva evidentemente significare, con la doppia marble-paper, le due facce di una lastra di marmo o i due lati di qualcosa. Il lettore era ironicamente invitato a riconoscere in quelle immagini “un emblema screziato dell’opera mia”.

Emilio, che nel frattempo ha avuto modo di acculturarsi sommariamente sui problemi dell’arte, si rende conto che le due figure, diverse per ogni copia del libro, erano avanti lettera il massimo della produzione di serie personalizzata. Immagini “artistiche” non secondo i canoni correnti alla metà del Settecento, ma soltanto per il sardonico giudizio dell’autore, che assegnava loro ironicamente l’aura d’opere dovute all’ingegno d’un artista.

A quei tempi riprodurre un’immagine in un libro era possibile in Occidente solo intagliandola nel legno o incidendola su di una lastra di metallo. Gli artisti non usavano, come oggi, contrassegnare autograficamente le loro opere grafiche stampate in più copie, per testimoniare che si trattava di “originali”. Di solito le silografie non erano firmate, mentre le incisioni su lastre metalliche, eseguite con tecniche come il bulino, la puntasecca e l’acquaforte, recavano, incorporata in basso sotto la figura, una minuscola scritta in cui si attestava, in latino, che Tizio “inv(enit) et del(ineavit)”, inventò e disegnò, e il nome era del vero autore dell’immagine. Accanto, un’altra scritta diceva che Caio “scul(psit)”, e quello era il nome dell’esecutore, spesso bravissimo artigiano-artista, che aveva copiato il disegno originale, trasferendolo sulla lastra.

Sterne aveva escogitato una scappatoia. Aveva inserito nel suo libro immagini ottenute con una tecnica diversa: le carte marmorizzate, oltretutto economicamente a colori. Non “figurative”, ma comunque illustrazioni, visto che stavano tra le pagine di un libro. E come tali dovevano essere viste da ciascun lettore-persona, e ciascuno era esortato a tentarne una individuale interpretazione. Operazione ermeneutica ulteriormente complicata anche da un’altra trappola maliziosamente predisposta. In inglese,”screziato” si diceva nel Settecento motly (oggi trasformatosi in motley), che vuol dire anche “abito variopinto del buffone di corte”. La doppia pagina marmorizzata poteva essere dunque, riflette Emilio, sia il davanti e il dietro del vestito di Yorick-Sterne-buffone, sia un’alternativa, variamente dipinta dai colori della vita, alla pagina-nera-lapide del povero parroco Yorick-Sterne.

Fino al momento in cui uscì il Tristram, la carta marmorizzata era stata usata solo all’esterno di un libro. Inserirla all’interno, tra le pagine, rivoluzionava la destinazione di un’immagine, che da esornativa diventava illustrativa, cioè cambiava significato, si caricava di valori nuovi. Forse Sterne aveva usato quella carta semplicemente perché imitavail marmo, ne era tradizionalmente una mimesi. Quindi, considerando l’immagine in sé, il suo non era un gesto così rivoluzionario. Ma che gli fosse venuto in mente di usare come illustrazione qualcosa di già fatto, di fatto per un altro scopo, era pur sempre un gesto radicalmente innovativo. E in questo senso quel gesto era un altro segno della sua genialità, che lo portava oltre la sua epoca.

Nessun artista del suo tempo, pensa Emilio, avrebbe saputo (o potuto, che è lo stesso), creare un’immagine unica in ogni copia, senza senso, casuale, ambigua, dada come quella che il predicatore di York aveva voluto inserire in quel punto del suo libro. Non avrebbe potuto farlo nemmeno William Hogarth, che proprio in quegli anni andava inventando il linguaggio artistico della borghesia, e che Sterne amava moltissimo, tanto da commissionargli delle piccole incisioni per il Tristram (che si possono rivedere perfette nell’edizione del 1761-62 conservata a Genova).

Emilio ricorda di aver letto da qualche parte una citazione presa da un famoso storico dell’arte svizzero, Heinrich Wölfflin, che lo aveva molto colpito: “non ogni cosa si può fare in ogni tempo”. Non certo un’illustrazione astratta, informale nel diciottesimo secolo. Ma un genio la poteva immaginare. Sterne l’aveva fatto. Mancava in lui certamente l’intenzionalità di considerarla un’opera d’arte, di includere le marble-paper in una qualche teoria della forma, così come non c’era quell’intenzionalità formativa nei maestri artigiani che creavano le carte marmorizzate. Ma c’era in Sterne l’intenzionalità della metafora, dell’ironia, dello scambio dei ruoli tra rappresentazione verbale e no, e tra artista e artigiano. C’era senz’altro il proposito di prendersi giuoco del significato di un’immagine considerata solo piacevole capriccio, così come nel testo l’autore si prende giuoco degli schemi, già divenuti convenzionali, del romanzo. Anche quell’illustrazione era dunque una presa in giro, una panzana, un altro cock-and-bull come quello posto a battuta finale nell’ultima pagina del libro (e impropriamente tradotto “quiproquo” nella prima versione italiana).

Le pagine marmorizzate non erano, del resto, il solo caso in cui il Tristram si beffavadelle convenzioni illustrative. Nel capitolo quarantesimo del sesto “libro”, Sterne, rifacendo il verso ad Hogarth, aveva “firmato” i ghirigori, che descrivevano il percorso divagante del suo romanzo, come se si trattasse di incisioni d’un artista vero. Sotto quei risibili tracciati si poteva leggere due volte la sigla “t.s.”, seguita rispettivamente da un “Inv.”e da uno “Scul.”, per significare che l’autore in persona li aveva ideati e trasferiti sulla lastra, improvvisandosi artista ed esecutore di se stesso.

Emilio cerca come può di immedesimarsi in Sterne nel momento in cui gli era venuta l’idea di usare le marble-papercome illustrazioni di un libro. Le avrà viste impiegate in qualche rilegatura economica, certamente presente negli scaffali della sua biblioteca di colto ecclesiastico, e ne avrà apprezzato la gradevolezza decorativa. Osservandole, gli saranno tornate in mente (per associazione di idee), le tante discussioni con Hogarth e con altri dotti amici sulla nozione del gusto, di cui si cominciava a riflettere in quegli anni, e sulla sua ambiguità. Si sarà chiesto se il piacere che egli provava guardando quelle graziose ondulazioni policrome fosse soltanto immediata e immotivata emozione, un “non so che” intuitivo, di stampo esclusivamente soggettivo. Era un piacere legato a qualche “idea semplice” e immutabile, come aveva sostenuto Locke, oppure alla sua origine risiedevano certe qualità obiettive, inerenti all’oggetto (i tanti stimoli offerti sia dalla natura sia da opere d’arte e letterarie)? L’impulso emotivo si limitava ad anticipare un giudizio, che poi la ragione si incaricava di ratificare dopo averne indagato le motivazioni? C’era un “intuito naturale della bellezza”, che ci guida tutti a riconoscerla? O il piacere nasceva da una speciale facoltà concessa alla mente (anzi, all’anima) da un disegno divino?

Oltre tutti quegli interrogativi, immagina Emilio, ecco il salto mentale di Sterne: perché non usare quelle figure al posto delle solite illustrazioni, o accanto ad esse? Era un modo di aggiungere un perfetto corrispettivo visuale alle sue profanazioni delle idee correnti.

Se le cose stanno così, si domanda a sua volta Emilio, perché non possiamo considerare tutto ciò un’operazione “concettuale” in piena regola? Le carte marmorizzate non erano forse per Sterne, in quel momento, nient’altro che un objet-trouvé, un ready-made? Quasi come le cose della vita quotidiana che cadevano casualmente sotto gli occhi di Duchamp, agli inizi del ventesimo secolo? E non aveva ugualmente, l’irrispettoso predicatore anglicano, scelto e deciso di usare un oggetto, quelle carte, in modo nuovo e trasgressivo? E in tale contesto, si chiede ancora Emilio, ricordando altre importanti citazioni, non sono forse le marble-paper la rappresentazione tipo di un’idea artistica, poiché non solo svelano l’essenza di un artificio compositivo, ma pongono anche d’autorità nel “repertorio del contemplabile” immagini prima giudicate “non-arte”? Che le honnêtes-gens, fino a quel momento, avevano osservato con l’occhio distratto, o al massimo incuriosito, riservato alle cose comuni?

Se la risposta a tante domande è , conclude Emilio, l’unica differenza tra l’intenzionalità dissacrante dello scolabottiglie o del pissoir di Duchamp e le pagine marmorizzate di Sterne sta solo nella circostanza che quest’ultimo aveva deciso la sua scelta con un certo anticipo sul francese (qualcosa come centocinquant’anni). Con la stessa grazia, non si sa quanto inconsapevole, della genialità.

Fragile dono nelle mani degli editori. Raffrontando il modo in cui erano state riprodotte le marble-paper, il nostro ricercatore scopre innanzitutto le tracce di una tirchieria di dimensioni universali. Le carte decorate, pur riprese correttamente, di solito risultavano copiate da pubblicazioni precedenti. Ma tutte in bianco e nero, squallidamente a risparmio. In un raro caso, in un’edizione inglese dell’Università di Oxford del 1983, si era rispettata l’idea di Sterne delle due immagini differenti apposte sul “recto” e sul “verso” dello stesso foglio, ma anch’esse, ahimè, in bianco e nero. Farebbe eccezione un Tristram edito in Italia nello stesso anno, se la pagina di marmo, finalmente a colori, non fosse singola.

E’ andata smarrita, insomma, l’intenzionalità metaforica dell’autore. Pare che succeda spesso, col passare degli anni e dei secoli, che non si riesca più a capire una certa immagine, o anche una cosa scritta, perché se n’è perso il significato simbolico. Perduto anche in un altro caso italiano, dove si vedono sì due illustrazioni marmorizzate diverse, ma disposte senza senso su pagine affiancate, “baciate” come dicono i tipografi, tanto da accrescerne ulteriormente l’inesplicabilità E magari non sarebbero dispiaciute a Sterne, sempre in cerca dell’imprevedibile. Gli avrebbero potuto forse ricordare, per una sorta di associazione di idee, il cane e il gatto, addomesticati da millenni, che tentano pateticamente di nascondere l’odore delle proprie feci (depositate su un pavimento di piastrelle), come facevano un tempo nella savana, a difesa dal fiuto di ormai inesistenti predatori. Poveri animali dei nostri giorni, inconsapevoli dell’inutilità e insignificanza di quell’atto ancestrale.

Bestie superficiali ed esecrabili appaiono invece ad Emilio gli editori e soprattutto i loro consiglieri grafici, che dovrebbero documentarsi e saper riflettere con modestia sulle ragioni di una scelta compiuta secoli prima. Come quel supponente De Carolis con la kappa, che doveva aver suggerito come grande trovata al Boccolari di inventarsi un pastrocchio, con l’unica scusante di stamparlo in blu.

Rare scoperte dànno a Emilio qualche palpito, come la figura monocroma in rosso, (ma stampata al solito su una sola pagina), in un’edizione francese del 1890. Non è una carta decorata ma una sua interpretazione, e l’anonimo illustratore vi ha infuso un ritmo e un’eleganza decisamente art nouveau. Qui, se non altro, il gusto ha oscillato bene.

Altra soluzione interessante è offerta dall’edizione Macdonald Classics del 1949 (ripresa poi anche in Italia) dove in luogo della pagina marmorizzata è inserita una sua riproduzione incisa su lastra (ma sempre su un lato solo). Ironia aggiunta a ironia: la marbled page eletta a capolavoro degno di essere eternato sul rame di un’acquaforte. Come stampare la Gioconda non riproducendo l’originale con procedimento fotomeccanico o col computer, ma incidendone laboriosamente a mano una copia. Così si faceva un tempo, prima che la fotografia e le nuove tecniche riproduttive consentissero a milioni di amatori una visione di Monna Lisa convenzionalmente più fedele e moltiplicabile all’infinito.

Pretesto di riflessioni per Emilio è anche la pagina nera. Se fosse completa l’edizione settecentesca del Tristram vista a Genova(manca il primo tomo e non sono possibili confronti), egli è sicuro che vi troverebbe due nere immagini, sul “recto” e sul “verso” di uno stesso foglio, così come Sterne aveva voluto per le pagine marmorizzate. Lo sconsiderato editore italiano, che ha fatto “baciare” due marbled pages invece di disporle sui due lati della carta, ha perseverato nell’errore con la pagina nera. Non ha capito che essa voleva simbolizzare una lastra tombale (che come ogni lastra ha due facce contrapposte), e si è permesso incredibilmente di stampare due lugubri rettangoli affiancati. L’incongruenza, che domina sovrana in quasi tutte le ristampe moderne, giustifica uno scandalizzato critico inglese che, riferendosi soprattutto al modo in cui sono riprodotti i testi, ma pensando certo anche agli interventi grafici, giudica il tutto “astonishingly corrupt”, stupefacentemene corrotto.

Da più di duecento anni le piccole, esplosive marble-paper in sedicesimo, continuano a dormire, provvisoriamente (o forse definitivamente) disinnescate tra le pagine di un libro, nel silenzio delle biblioteche. Ignare di avere, senza volerlo e senza saperlo, anticipato tanta confusione nel mondo dell’arte di due secoli dopo, tanti equivoci, turbamenti, discussioni sugli objet trouvé e sul ritorno al Nulla liberatorio, punto di avvio indispensabile, si assicura, per poter ritrovare significati, valori, responsabilità.

Sarebbe occorso molto tempo per il lungo cammino da percorrere, dal Settecento ad oggi, prima che l’utilizzo del caso potesse essere accettato, con molte riserve e ripensamenti, come principio compositivo, come atto formativo dell’opera d’arte. Ma Emilio decide di infischiarsene del tempo, e si prende ‑ d’autorità – l’arbitrio di elevare feticisticamente a valore artistico i ready-made di Sterne. Anche per riscattare la minima attenzione data alle pagine marmorizzate dai commentatori e saggisti che egli ha potuto consultare nella sua improvvisata ricerca. Uno solo, per la verità, vi ha dedicato qualche riga. Significativamete, è un pittore italiano, oltre che scrittore: Carlo Levi. Egli ha visto nella marbled pageun’immagine “informe e pullulante”, vi ha ritrovato qualcosa di un artista contemporaneo, l’ha descritta come “un caotico, disperato quadro di Pollock”. Giudizio forse esagerato, per quanto attiene alla disperazione, che non sembra aver fatto parte del quadro emozionale sterniano, ma la parola definitiva, come si sa, non è mai detta.

Anche a Emilio, del resto, guardando certe immagini esposte alla mostra delle carte decorate (ma non la pagina marmorizzata del Tristram, che non era esposta e che nessuno aveva mai sentito nominare), era venuto in mente Pollock, l’artista del dripping, del colore colato direttamente sulla tela (che qualcuno ha malignamente definito “minzioni”). Gli era sembrato di ravvisare qua e là anche moderne testure o frammenti di caos come in Tobey, Michaux, Sam Francis. Ma ripensandoci, aveva capito che il paragone era debole e illusorio. Mancava in quelle carte variopinte la ricchezza fantastica e formale, la sensibilità, lo spessore problematico che gli artisti contemporanei hanno saputo infondere nelle proprie opere. Argonauti avventurosi, pensa Emilio, capaci di spingersi più lontano, forse alla ricerca dell’ignoto quid della realtà filosofica di Locke e della sua “sostanza” non sperimentata.

Ed è toccato proprio ai grandi artisti del ventesimo secolo (Emilio giura di esserne certo) il compito di riportare indietro al loro tempo, di restituire al loro antico ruolo le pur bellissime carte esornative. Le quali poterono tuttavia servire ottimamente a Sterne e al suo ingegno, per consentirgli di tener fede alla promessa di imprevedibilità fatta ai suoi lettori: “se mai pensassi che voi siete in grado di formulare la minima congettura o giudizio su quanto avverrà nella prossima pagina, non esiterei a strapparla dal mio libro…”