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Altre Storie – Su niente, gratis
Da Kafky

La prima cosa che farà Emilio a Praga, tornandoci per la terza volta, sarà di compiere la ricognizione accurata e malinconica alle strade in cui aveva fotografato la moglie più di trentacinque anni prima, durante una gita turistica.

Aveva cercato quelle strade anche pochi mesi addietro, in occasione d’una rapida visita di quasi lavoro. Non era riuscito a trovarle per la fretta e perché non ricordava i loro ostici nomi cechi. Stavano attorno alla grande piazza della città vecchia, questo era certo, ed erano strade legate in qualche modo a Kafka.

Ma si sa che tutta Praga, come diceva Ripellino, è carne e unghia con Kafka. Già nel primo viaggio, Emilio e Lucia ne avevano sentito pronunciare il nome a mezza voce, con aria complice, dalla ragazza dimessa e occhialuta che guidava la loro comitiva di spensierati gitanti in torpedone, in giro per la città. Stavano passando davanti a un palazzo piuttosto malconcio addossato ad una grande chiesa barocca, all’angolo di due strade del centro. Se lo scrittore vi avesse abitato o lavorato, o addirittura vi fosse nato, non si era capito bene dalle parole della guida. Alle domande improvvisamente incuriosite, la giovane aveva subito chiuso prudentemente il discorso, spiegando a voce alta, ma con l’aria di chi recita una lezione e vuol farlo intendere, che Kafka era un tipico rappresentante della decadenza borghese, da spregiare e da ignorare.

L’accenno al nome dell’amato autore del Processo, e l’ostracismo riservatogli in patria, avevano molto eccitato Emilio, e il giorno stesso, nelle ore di pausa concesse ai turisti prima di cena, egli era tornato a cercare il grigio palazzo, trascinandosi dietro la moglie. Anche Lucia amava Kafka, l’aveva affascinata soprattutto La metamorfosi. Anzi, l’immagine che si era costruita dell’infelice personaggio-insetto del racconto aveva finito per sovrapporsi nei suoi pensieri a quella dello scrittore o, meglio, all’unica fotografia che ne avesse visto, con quegli occhi oscuri, brucianti, non si capiva bene se di passione interiore o di febbre. Lucia era stanca, avrebbe preferito restare in albergo a riposarsi, ma s’era fatta forza, non tanto per riguardo al marito, quanto per l’idea che Kafka e la letteratura meritassero un sacrificio. Emilio aveva ritrovato e fotografato da vari punti la casa, con la moglie davanti, pazientemente in posa.

Quando gli dicono che deve tornare per la terza volta a Praga per quella sua specie di lavoro, e che dovrà rimanervi da sabato a lunedì per fruire dello sconto aereo festivo, Emilio comincia per tempo a documentarsi, a pianificare come può la rivisitazione ai luoghi. Vi si applica con quanto gli resta delle sue energie. E’ deciso a ritrovare ancora strade e palazzo e a rifotografare tutto, a tanti anni di distanza.

Tira fuori le vecchie diapositive del primo viaggio, ne sceglie un paio, le osserva a lungo con la lente. Riprendono i due soli lati visibili dell’edificio. Si scorgono bene le targhe stradali di ferro smaltato, con i nomi che spiccano in bianco sul fondo rosso: Maiselova e U radnice. Cerca su una piantina recente di Praga. La prima strada è proprio a un passo dalla Staroměstské nàměstì, la storica piazza della città vecchia, che all’epoca della dominante cultura tedesco-asburgica si chiamava Altstädter Ring o Grosse Ring. Il Grande Anello, il fulcro del Sentiero Reale, percorso un tempo dai re boemi nel giorno dell’incoronazione. Una piazza-teatro, palcoscenico nei secoli di tanti avvenimenti drammatici, roghi, defenestrazioni, decapitazioni, colpi di stato, festose celebrazioni per la conseguita indipendenza e, ultimamente, per la libertà.

Le due diapositive della casa di Kafka non sono un granché. Emilio, fotografo accanito ma approssimativo, era andato ad occhio con la sua Rolley per quelle riprese scattate quasi al tramonto. Lucia sta là nell’ultimo sole, bella, elegante nel suo vestito rosso, i sandali coi mezzi tacchetti intonati alla borsa nera da passeggio. Una mise borghese, esibita come ingenua polemica da democratici di sinistra contro il grigiore della dittatura comunista.

Della casa, dal lato Maiselova, si distingue solo una parte. Il resto è ingoiato dall’ombra. Può sembrare un effetto voluto, per una sorta di “Praga magica”, ma è semplicemente il risultato del caso, anzi di un doppio errore: tempo di esposizione e punto di vista sbagliati. Nella seconda immagine la facciata, dal lato chiamato u Radnice, è chiaramente visibile e si capisce meglio che il palazzo doveva aver avuto un tempo una certa pretesa, col suo portale affiancato da due colonne di stile composito, sormontate da un balcone.

Appoggiato a una di quelle colonne, nella fotografia si vede un tizio. Emilio ricorda che era il portiere dello stabile, al quale si era rivolto nel suo stentato tedesco per avere notizie più precise su cosa avesse avuto a che fare Kafka con quella casa. Dalla grande stella rossa che spiccava sull’angolo verso Maiselova, si poteva intuire che l’edificio era occupato allora da uffici pubblici. Scrutando nell’androne d’ingresso, Emilio aveva addirittura scorto la rastrelliera con gli universali cartellini degli impiegati e l’orologio marcatempo.

Erano forse lì le Assicurazioni, dove Kafka era stato impiegato per tanti anni? Il portiere aveva eluso la domanda per non aver capito, o piuttosto perché preferiva parlare di ciò che sapeva. Niente a che vedere, sembrava, con lo scrittore.

L’uomo s’era lanciato in un complicato racconto, dal quale emergeva a tratti, più dai gesti che dalle parole, mezzo in tedesco e mezzo in ceco, una storia di cannoni e di carri armati incombenti davanti alla casa. Parlava evidentemente di un episodio di cui era stato, così pareva, testimone negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, quando i nazisti avevano incendiato, lì a due passi, il municipio neogotico addossato all’Orologio, dove risiedeva (vi aveva accennato anche la guida in torpedone), il comando dell’insurrezione di Praga. Finita la sua storia, il portiere s’era appoggiato alla colonna, ed era rimasto eternato nella diapositiva.

Emilio torna ad esaminare ogni particolare con la lente. Si ferma sulla figurina della moglie con la borsa in mano. E nota per la prima volta ciò che allora gli era sfuggito o aveva voluto ignorare, le sue spalle un po’ curve, gli occhi che guardavano la facciata senza vederla, i chiari segni della stanchezza, e qualcosa di più, che ora gli appare già il preannuncio d’un infelice destino. Sospira ed è invaso da un’onda di commozione e di rimorso lancinante.

Lucia si affaticava presto nei viaggi, non riusciva a tenere il passo con lui, con la sua infantile vitalità, con la sua curiosità inesausta di scoprire qualcosa di nuovo dietro ogni angolo. Anche nell’altra foto la moglie era sempre in posa, piccola nel breve spazio soleggiato contro l’ombra incombente del palazzo ripreso ancora male, sotto la targa di via Maiselova e la stella rossa. Con i suoi occhiali scuri, il volto fisso verso l’obiettivo, testimoniava che era stata là, stanca, in quel tardo pomeriggio d’agosto, in un tempo irrimediabile.

* * *

Ora Emilio è per la terza volta a Praga. Ha sbrigato in una giornata il suo lavoretto, più che altro una commissione per conto di un amico, e la domenica mattina inizia la ricognizione alle strade. Con le sue vecchie foto e la pianta della città alla mano, la ricerca è presto fatta, facilissima. Ecco il palazzo all’angolo di via Maiselova, con il portale, le colonne, il balcone. Oggi ne parlano tutte le guide, dicono che è proprio la casa natale dello scrittore. Sorge al limite di quello che era allora il ghetto, demolito agli inizi del Novecento. Un progetto urbanistico di “risanamento” alla Haussman, sull’esempio parigino, sebbene di proporzioni molto più modeste, ma che si rivelerà un’operazione immobiliare di ingente valore e che darà alla capitale ceca – destino di certe ristrutturazioni e, raramente, di certe speculazioni – il più grande e stupefacente quartiere Art Nouveau d’Europa.

Prima di partire, Emilio si è letto qualcosa sulla città, un paio di biografie di Kafka, il suo diario e un po’ delle tantissime lettere, e pensa di aver capito perché i genitori dello scrittore avessero scelto quella casa come abitazione di sposi, nel 1882. Il signor Hermann Kafka, tenace arrampicatore sociale, voleva stare con i piedi in due staffe. Vicino alla sua sinagoga (che era stata, peraltro, la prima tra le varie della città ad ammettere la predica in lingua ceca, la sua lingua materna), ma fuori, seppur di poco, dal ghetto. Nel quale non avrebbe certo amato abitare la sua sposa Julie nata Löwy, uscita da una buona famiglia semita (il padre commerciava in tessuti e aveva una fabbrica di birra), abitante sul Ring, nella casa Smetana, una delle più belle della piazza.

Molti borghesi ebrei di Praga, quasi tutti di lingua tedesca, minoranza nella elitaria minoranza austriaca, condividevano la stessa scelta. Non appena raggiungevano la condizione di benestanti, si affrettavano a lasciare il ghetto, ormai degradato a pittoresco ricettacolo di bordelli, di ubriachi, di poveri.

Il padre di Franz, agli inizi degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, era ancora un piccolo commerciante ebreo di provincia, quasi un ambulante, da poco trasferitosi nella capitale boema. Era un bottegaio intraprendente, con una modesta merceria, una Galanteriewaren con l’insegna in tedesco, come molti negozi e nomi di strade (solo nel 1898 saranno tutti, almeno formalmente, cechizzati). Hermann vi vendeva, assieme alla moglie, nastri, bottoni, spille, aghi, filo per cucire, minuteria per vestiario e un po’ di chincaglieria.

Nell’attesa certa che il suo accanito e abile lavoro desse buoni frutti, come avvenne anni dopo quando passò alla vendita all’ingrosso, la casa affittata all’angolo fra Maiselova e U radnice, proprio al confine con il ghetto, appena fuori, vicina al negozio e poco costosa, era quella giusta da abitare, senza fare passi troppo lunghi.

Consultando un libretto in italiano, comprato sul posto, Emilio trova altre notizie sul palazzo. Apprende che lì c’era una volta un edificio a tre piani che si chiamava Alla Torre (tutte le case vecchie hanno un nome a Praga), eretto agli inizi del Settecento come residenza per il prelato della attigua chiesa di San Nicola, poi trasformato in appartamenti in affitto e bruciato in un incendio nel 1897, quando i Kafka non vi abitavano più da una dozzina d’anni. Al suo posto era stato costruito subito un altro palazzo, quello che egli aveva fotografato, molto somigliante al vecchio, come si vede da un’immagine del libretto, ma con un piano in più, conservando dello stabile originario il portale con le colonne e il balcone, evidentemente scampati alle fiamme.

La casa attuale non è dunque l’autentica, originale Alla Torre, ma non è nemmeno vero che vi sia nato Franz, il 3 luglio 1888. Pare che ve lo avessero portato quando aveva una settimana. Dove avrà partorito, la signora Kafka, il primo dei suoi sei figli? Allora si veniva al mondo tra le mura domestiche. Con l’aiuto della levatrice piuttosto che dell’ostetrico. Probabilmente Julie si sarà sgravata, come si usava allora, nella casa Smetana, la più confortevole dimora deigenitori Löwy, lì a due passi, al numero 548/1 del Sentiero Reale. Emilio si compiace molto della sua deduzione, frutto delle attente letture. Gli pare di avere la città in mano.

Kafka non è più un segreto vergognoso, è un vanto nazionale, nonostante fosse ebreo e scrivesse in tedesco. E’ diventato addirittura uno dei simboli di una città in cui per secoli si sono mescolate e, insieme, divise, le sue tre anime, la boema, l’austro-tedesca e l’ebraica (quest’ultima praticamente sterminata ai tempi di Hitler).

Emilio, camminando nelle strade praghesi, si rende conto che Kafka è diventato sin troppo un simbolo locale. Accanto al Ponte Carlo, alla Moldava, all’Orologio, al castello Hradčany che domina il paesaggio, il suo volto intenso e malinconico è entrato nel pacchetto degli itinerari turistici. Cartolai e negozi di souvenir traboccano della sua immagine vagamente menagrama (la stessa che aveva affascinato Lucia), stampata su cartoline, libri, tazzine, portacenere, felpe e magliette, sempre con spessi tratti neri, come la cornacchia boema (kavka), che ne richiama gracchiando il nome. Ma s’è persa la traccia, in quelle semplificazioni grafiche, del “lungo nobile viso olivastro di principe arabo” che ricordava il suo amico Willy Haas.

Tante cose sono cambiate dal primo viaggio. Ora lo slargo davanti alla “casa natale” dello scrittore, non segnato sulla cartina per mancanza di spazio, è diventato una náměstí, una piazza, una piazzetta, dedicata naturalmente a Kafka. La targa stradale che ha sostituito U radnice dice però Franze Kafky, secondo il modo ceco di coniugare anche nomi e cognomi di persona. Ma il nome di battesimo è significativamente un’altra commistione ceco-tedesca resistita alla preoccupazione di cechizzare tutto, secondo le giuste istanze nazionalistiche manifestatesi sin dalla fine dell’Ottocento e alfine legittimate dopo la prima guerra mondiale con la proclamazione della repubblica. Perché in boemo il Franz, Francesco, dovrebbe suonare František.

Anche la stella rossa dei soviet sull’angolo è sparita. Al suo posto c’è una maschera della faccia di Kafka, triste come da convenzione, quasi mortuaria, che spunta da una placca di bronzo. Neanche un busto, si sono scomodati poco, pensa Emilio, ma poi scopre che la modestia della scultura è giustificata dall’epoca in cui fu posta sulla casa: era il 1965, in regime ancora comunista, solo un anno dopo il suo viaggio con Lucia.

Il bronzo è opera di Karel Hladík e la rivalutazione dello scrittore si deve soprattutto ad uno studioso germanista locale, Eduard Goldstücker. Avendo previsto la Primavera di Praga con qualche anno di anticipo, egli aveva coraggiosamente lanciato il sasso durante un convegno letterario. E Kafka era diventato accettabile, con una capriola ideologica, come “critico rivoluzionario dell’estraniamento capitalistico”.

Sono le nove di mattina, la piazzetta Kafka è ancora deserta. Emilio sosta a contemplare l’immagine bronzea e pensa a tutte le discussioni, a tutti i colloqui riservati a vari livelli di potere politico, qui e a Mosca, agli artifici teorico-dialettici, alle mozioni e lettere, soppesate parola per parola al fine di pararsi le chiappe, che si saranno dovute stendere per arrivare a mettere su quel muro quella piccola targa con quella faccia triste, contraddicente le mirabili sorti progressive, ma in perfetta sintonia con la tristezza dei tempi che allora correvano.

Poi Emilio scende con lo sguardo al portale e si accorge che sopra c’è scritto in caratteri gotici Restaurant Franze Kafky. A conferma, il portone si apre e ne esce un giovanotto con il grembiule e il panciotto da cameriere. Porta un cartello e lo sistema davanti ad una delle colonne. Rientra e subito riesce con un secondo cartello, che appoggia all’altro lato dell’ingresso. Su entrambi c’è ancora la stessa scritta, con accanto la solita faccia dello scrittore e, sotto, il menù con i prezzi. Ora il cameriere porta fuori dei grandi ombrelloni gialli, li apre e li colloca sul selciato: spicca sulla tela il marchio rosso-azzurro dell’Ice Tea Lipton. L’allestimento prosegue con i tavolini di plastica, le sedie e quattro vasi di verde. Intanto una cameriera spalanca il portone. Nell’androne i cartellini degli impiegati e l’orologio marcatempo sono spariti. Nel bugigattolo anni prima occupato dal portinaio si preparano le ordinazioni.

Che profanazione, pensa d’impulso Emilio, abituato a credere, da buon italiano, che le cose dello spirito debbano stare, o apparire, ben separate dalla materialità del quotidiano. Ma subito si ricorda di aver visto poco lontano da lì, in via Celetná, la birreria aperta nell’ingresso delle facoltà universitarie di filosofia e di pedagogia. Porte attigue conducono, rispettivamente, alla méscita e a una grande aula con le sue brave lavagne appese dietro la cattedra. Su tutto si diffonde un delizioso profumo di strudel appena sfornato. Fuori, da un lato c’è il bancomat e dall’altro un modesto negozietto di souvenir. A Praga, come a Heidelberg o nella Lubecca dei Buddenbrook, la cultura si mescola tranquillamente con ristorazione e commercio.

Emilio si siede da U Kafky sotto un ombrellone e ordina una birra non troppo grande. Arriva un gruppo di giovani italiani che parlano veneto. Prendono posto al tavolo accanto e ordinano enormi boccali di Pilsen alla salute dell’estraniamento capitalistico. Il restaurant ha dirimpetto sulla piazzetta un concorrente, Da Alfredo, pizzeria italiana con contorno di spaghetti. Anche lì i camerieri sistemano tavolini e ombrelloni blu, griffati San Pellegrino. A tre giapponesine sopraggiunte non portano però cose italiche, ma yogurt e würstel con molta senape giallastra.

Quella salsa era piaciuta moltissimo anche a Lucia. Per tutto il tempo trascorso a Praga nel ΄64, ogni mattina ne prendevano da un banchettino una porzione abbondante a condimento di un cartoccio di würstel, che loro due si gustavano seduti su una panchina.

I veneti del ristorante-cafeteria si palesano per vicentini e discutono accanitamente di calcio nel loro strascicato dialetto. Calcio naturalmente italiano. Praga sembra essere per quei giovanotti solo un luogo qualsiasi, un’appendice del bar sotto casa, dove continuare ad accalorarsi sull’unico argomento che pare interessarli. Ma saranno soltanto loro a non accorgersi della realtà che li circonda? Emilio si rende conto che anche per lui, in fondo, questa antica città non è che pretesto per una rievocazione.

Eh sì, occorrerebbe reagire, uscire dall’ottica privata, sentire di più la vita, guardarsi attorno, scegliere magari un tema di visita. Le tante case abitate da Kafka, per esempio. Com’erano e come sono. Niente di più facile. Le informazioni abbondano, ora si sa tutto sul vecchio Franz. Ci si sono applicati in tanti, scopiazzandosi l’un l’altro e rubacchiandosi foto e documenti. Non resta niente da scoprire. Le scuole, i caffè, i teatri, le famiglie che frequentava con pochi amici, le nuotate, le vogate sulla Moldava, le partite di tennis in cui si rivelava buon giocatore, l’impiego apprezzatissimo all’Istituto delle Assicurazioni contro gli Infortuni sul Lavoro, l’illusione di una vita artigiana e naturale cercata applicandosi, nel tempo libero, in falegnameria e giardinaggio, le rare donne con cui ebbe difficili relazioni, la tubercolosi, le stanze in cui compose, quasi sempre nelle ore notturne, i suoi capolavori …

Si conoscono tutti gli itinerari e le date dei traslochi della famiglia Kafka: un ghirigoro di strade apparentemente complicato, ma che si estende per pochi isolati, entro “due piccoli cerchi” (parole di Franz, citatissime) nei quali lo scrittore abitò e lavorò per tutta la vita, di qua e di là della Moldava.

Facendo i conti, in trentadue anni, dal 1885 al 1917, Kafka visse in affitto a Praga, prima con  i genitori e poi da solo, in una quindicina di appartamenti diversi. Nei primi cinque anni, fino al 1889, la famiglia cambiò addirittura cinque case, una all’anno. Il tenace Hermann era impaziente di migliorare le condizioni di vita, di integrarsi e di affermarsi socialmente, pur senza rinnegare le origini. Tanto che a un certo punto, fiutando il vento nazionalista, era arrivato, come si vede dalle fotografie d’epoca, a togliere addirittura dall’insegna del suo negozio e dalla carta intestata la doppia “n” finale tedesca del suo nome, per cechizzarsi in Herman. Decisione opportuna per un ebreo che si poteva fregiare dell’incarico di Esperto Giurato, nel ramo tessile, della Camera di Commercio Imperiale di Praga.

Più tardi Franz, impiegato single affrancatosi dal padre, continuò a cambiare casa. “La mia salvezza sta nel mutamento”, aveva scritto nel suo diario. Salvezza dai rumori che lo ossessionavano e dall’angoscia del Nulla, dalla quale si difendeva con l’ostinata applicazione notturna allo scrivere. Che era per lui felicità, speranza e tormento, per sottrarsi alle oscure pulsioni negative e per “cancellare con le parole la morte”. Un bel nodo di problemi. E un modo straordinario per risolverli, diciamo così, opponendo al tragico dell’esistere la disperazione dell’ironia o addirittura, se non del comico, dell’umor nero.

Sixthaus, U minuty, Ai Tre Re, Alla Nave, Oppelt, Al Luccio d’Oro, la casetta di bambola nel Vicolo d’oro e palazzo Schönborn, dove Kafka ebbe la prima emottisi, la notte fra il 12 e il 13 agosto 1917. Emilio, guida alla mano, passa in rassegna tutte quelle case dai nomi fantasiosi e le altre segnate nel lungo elenco, tranne Alla Nave, che non c’è più, cancellata da grandi alberghi. Ma la sua memoria resta, perché in quel palazzo liberty con bella vista sulla Moldava, Franz scrisse varie cose importanti. La condanna, per esempio (buttata giù in una notte intera, fra il 22 e il 23 settembre del 1912), che come si sa è il racconto in cui si fanno strada per la prima volta i temi, le ossessioni e anche lo stile dei suoi capolavori. E poi La metamorfosi, tanto cara a Lucia, e anche un altro racconto, Il disperso, uscito nel 1913, primo capitolo del romanzo, incompiuto come gli altri due, pubblicato postumo con il titolo America a cura dell’amico Max Brod.

Emilio sosta un po’ davanti alla Sixthaus, la casa al numero 2 della vecchia prestigiosa Zeltnergasse (oggi è la via Celetná), dove i Kafka andarono ad abitare nell’agosto 1888, non appena gli affari del padre cominciarono a migliorare.

Casa duecentesca, illustre anche per i pigionanti che l’avevano abitata nei secoli andati, personaggi medievali imprevisti come Cola di Rienzo e Francesco Petrarca.

Il primo, tribuno fuggiasco dall’effimera repubblica romana popolare e teocratica nel nome di Gesù, s’era rifugiato fiducioso a Praga presso l’imperatore Carlo IV. Ma questi doveva essersi presto stancato e preoccupato del capopopolo tiberino e delle sue confuse perorazioni messianico-democratiche, tanto da spedirlo prigioniero al papa francese Clemente VI, ad Avignone.

Quanto a ser Francesco, era stato mandato a Praga pochi anni dopo con un’ambasciata dei Visconti di Milano, che lo stipendiavano. Il poeta dovrà aver scelto di risiedere nella casa Sixt proprio pensando all’inquilino che lo aveva da poco preceduto. Avrà sentito risuonare tra quelle mura gli echi dei comizi di Cola, che l’avevano tanto entusiasmato e fatto sperare. Vaghi, condivisi progetti d’un “ordine nuovo” e d’una rigenerazione dell’Italia nel segno della classicità e d’un Cristo svincolato dal potere temporale della Chiesa romana. Sogni, sogni ricorrenti, smarriti presto nell’incubo non meno ricorrente della restaurazione del vecchio ordine.

Il tempo scorre in fretta, specie nelle guide turistiche, dove i duecento anni successivi sono saltati in un lampo per ospitare nella casa due altri personaggi degni di una città singolare. Il primo, di passaggio a Praga nel ΄500, era un negromante tedesco sinistramente famoso alla sua epoca, quel Johannes Faust, veramente esistito a quanto pare, cui si ispirò Goethe. Una specie di Cagliostro rinascimentale, che aveva scandalizzato ma anche plagiato i contemporanei con le sue arti magiche e ciurmerie.

Il secondo personaggio fu un altro scrittore, locale stavolta, Philip Fabricius, segretario di uno dei due nobili defenestrati dal vicino Municipio, nel 1618, dagli avversari degli Asburgo. Buttato giù lui stesso, fu l’unico dei tre a sopravvivere. E l’imperatore, dopo aver fatto tagliare la testa, lì sulla piazza (c’è ancora segnato il punto esatto), ai 27 capi della rivolta, blasonò lo scampato Fabricius col titolo di von Hohenfall, cioè “caduto dall’alto”, risarcendolo inoltre con denaro sonante, tanto da consentirgli di comprare la Sixthaus.

Belle storie, ma guardando la casa, Emilio, non vede che una facciata elaborata con tante finestre e in alto un timpano. Bisognerebbe poter curiosare nell’atrio, suonare qualche campanello, azzeccare gli inquilini subentrati ai famosi del passato e soprattutto a Kafka. In qualche stanza ci si potrebbe illudere di occupare per un attimo lo spazio vissuto dallo scrittore, magari cogliendone, chissà, un residuato, un corroborante atomo d’energia scampato alle ristrutturazioni e alle riverniciature.

Le case non sono che case, le pietre in sé non dicono molto a Emilio, e a questo punto egli si sente in certo modo in sintonia con Franz, perché pensa di aver finalmente compreso cosa volesse dire il suo biografo Wagenbach quando parlava di “sincero stupore per l’estraneità delle cose”, come di un tratto fondamentale nella natura dello scrittore.

Non meno estranea a qualunque traccia di Kafka appare a Emilio la casa successiva, cento metri più in là, nella piazzetta che chiamavano Piccolo Ring, dove la famiglia traslocò un anno dopo. In cerca di più prestigio, ma anche per problemi di spazio, perché la signora Julie era incinta per la seconda volta. E’ la casa U minuty, che si vede in tante cartoline, l’edificio rinascimentale vicino al famoso Orologio e al suo elaborato quadrante d’oro zecchino.

I turisti si affollano allo scadere di ogni ora, macchine fotografiche e telecamere pronte, davanti a quel segnatempo medievalmente tolemaico, per riprendere i dodici Apostoli che si affacciano alle finestrine, mentre la morte suona la campanella, ammonendo a non rimuovere il presentimento estremo. Lo spettacolino dovrebbe terminare con il chicchirichì (ma Emilio non è riuscito a sentirlo, forse è guasto), di un gallo dorato che sovrasta in una nicchia, come a dire: prima che io finisca di cantare mi tradirete tutti. Costruito agli inizi del ‘400, l’orologio oggi funziona ma al tempo di Kafka era fermo da secoli, tanto che Hugo Sales, un poeta di allora, scrisse che

Arrugginiti il congegno e la campana
Ammutolita in bocca la sua voce,
Indica sempre la stessa ora.

Quanto alla casa, che le guide traducono “Minuta” senza spiegare perché, Emilio non sente emozioni letterarie (anche perché a quell’epoca Franz era un bambino). Al più, ammirazione per i bei graffiti bianco-neri raffiguranti antiche storie che adornano la facciata, ridecorata poco prima che vi si trasferissero i Kafka.

La famiglia abitò U minuty per più di sei anni. Vi nacquero Elli, Valli e Ottla, le tre sorelle di Franz, deportate e svanite nei lager nazisti assieme ai mariti e a tanti parenti e amici. I loro nomi – Gabriele, Valerie, Ottilie – si possono leggere sulle pareti della sinagoga di Pinkas, lontana due minuti, tra quelli dei settantasettemila assassinati in Boemia e Moravia negli anni dell’ignominia. Stanze e stanze di nomi ordinatamente allineati dal pavimento al soffitto, con le date di nascita e (quando si è potuto saperle), di morte. Quante stanze ci sono volute solo per lasciare, in caratteri latini rosso-neri, scritti uno per uno a mano, con l’ostinazione della verità, una povera traccia di tante vite spente in meno d’un decennio, fra sofferenze e umiliazioni.

Emilio ha sostato in quelle stanze, ha scorso la moltitudine di nomi, procedendo lentamente di vano in vano, nel flusso ininterrotto di visitatori che affollano silenziosamente la sinagoga. Non sono soltanto ebrei venuti da ogni parte del mondo a ritrovarvi il segno di un parente, di un amico, o semplicemente a rendere omaggio ai sommersi. Molti sono turisti qualunque, allegri e ciarlieri all’ingresso, ma subito dopo ammutoliti e sgomenti.

Un’astrazione della memoria, in quelle stanze, che sono luminose, chiare, senza effetti scenici e ombre catacombali, per dire semplicemente: tutti questi erano vivi e innocenti e sono caduti nel trabocchetto. Le pietre sono mute, pensa Emilio, ma quello che è stato scritto sulle pietre resta e, per quel tanto che resta, testimonia.

Anche le cose scritte sulla carta sono astrazioni provvidenziali della memoria. Lo sono le carte di Kafka, riempite notte dopo notte con una calligrafia nitida e pochi pentimenti. Chiare e misteriose storie affascinanti e distruttive, che oggi tutti vedono come rappresentazione universale dei destini dell’uomo, salvate dall’esecutore testamentario Max Brod, che ignorò fortunatamente l’ordine di bruciare tutto ciò che l’autore non aveva già pubblicato o buttato.

Senza quella felice trasgressione alle ultime volontà di un uomo sempre insoddisfatto di sé, oggi Emilio non saprebbe tante cose, indiscrete e no, sul suo eroe letterario. Non saprebbe, per esempio, che la casa Ai Tre Re, ancora in via Celetná, dove la famiglia tornò ad abitare nel 1896, stavolta al numero 3, primo piano, fu galeotta di quella rara avventura erotica del bel ragazzo dallo sguardo profondo e intelligente, del colloquio  di occhiate e di cenni avviato  dalla finestra (la prima sua finestra), con la commessa del negozio di rimpetto. E dei due brevi incontri in una camera d’albergo, fissati nel diario come “eccitanti e ripugnanti”. Che possibilità c’era di portare avanti un rapporto con una donna per un giovane che vedeva possibile l’amore “solo tramite la letteratura e il coito”? E che considerava quest’ultimo “una punizione della felicità di stare assieme”?

In fatto d’amore e di questioni sessuali, Franz ne capiva tanto poco (lo dirà lui stesso, anni dopo) quanto della teoria della relatività. A proposito: lo scrittore aveva sentito parlare delle nuove rivoluzionarie idee della fisica nel salotto culturale della signora Berta Fanta, una vicina, che egli frequentava spesso, restando silenzioso ad ascoltare. Sarà vero che ne avrà avuto notizia da Einstein in persona? Il futuro premio Nobel insegnava all’Università tedesca di Praga negli anni tra il ’12 e il ’13 e un paio di sere pare sia andato in casa Fanta, portandosi il violino. Tanto è bastato a qualche biografo per scrivere che in quel salotto “Einstein spiegava a Kafka la relatività”.

Ancora una casa che Emilio non può mancare è al numero 22 del cosiddetto Vicolo d’Oro, stradina sotto il castello reale Hradčany, sopra il quartiere di Malá Strana, sull’altra riva della Moldava. Era una delle abitazioni adibite nel Settecento ad alloggi per le guardie del castello e successivamente a dimore dei maghi e alchimisti di corte, grande passione di Re Rodolfo II, che sperava di ottenere, attraverso le loro arti, le formule della pietra filosofale e della trasformazione dei metalli vili in oro.

Emilio sale a visitare la casupola, sgomitando tra la moltitudine che affolla in ogni ora il vicolo. E gli appare, per quanto può distinguere nella calca, lo scenario di un mondo di bambole o di marionette. Le casine sono state appena ridipinte, a beneficio del turismo, di delicati e irreali colori pastello. Nel primo Novecento, senza torme di visitatori, questo doveva apparire un luogo magico, silenziosissimo, ideale per appartarsi a colloquiare con la propria immaginazione.

Fu la prediletta sorella Ottla a trovargli quel minimo rifugio, che gli serviva solo come studio dove scrivere, dopo il lavoro, in perfetta solitudine, fino a mezzanotte ed oltre. Poi scendeva lungo scale e antichi sentieri deserti, varcava la Moldava sul ponte Mànes e rientrava nell’appartamento che occupava allora, al Luccio d’Oro, in via Dlouhá.

Rimase così soddisfatto del suo studiolo che, nel 1917, per maggior comodità, decise di trasferire anche la sua abitazione in Malá Strana, nel palazzo Schönborn (dove oggi c’è l’ambasciata, sorvegliatissima, degli Stati Uniti), ultima dimora da single prima della malattia. Un posto bellissimo, con le finestre che guardano sul Monte San Lorenzo ricoperto di verde. Emilio ha ridisceso in ore notturne i pittoreschi vicoli ben selciati, con i nomi stradali ancora emergenti in tedesco dagli intonaci delle case. Lo scrittore li percorreva in pochi minuti per tornare a casa, sollevando con baldanza le sue lunghe gambe e “facendo allegramente crocchiare le giunture”. E per un attimo il viandante d’oggi s’è sentito vicino a Franz più che in ogni altro momento.

Nella casetta di bambola numero 22, dipinta d’azzurro, si penetra a fatica tra la folla. Ora è solo un emporio di cartoline e souvenir, formato di due stanzette sovrapposte. Un’esigua scaletta porta a quella inferiore, completamente vuota. Emilio pensa che Kafka, con tutta la sua statura, doveva chinarsi parecchio per varcare la porta, proprio una porticina. E, dentro, rischiava di sbattere la testa contro il soffitto, se non stava attento. Ancora una volta Franz gli sfugge, non sa immaginarlo curvo sul tavolino, con la penna in mano, intento a comporre i racconti, poi riuniti in Un medico di campagna. Scriveva nella stanza di sopra, o sotto? Questo luogo claustrofobico doveva piacergli come il labirinto sotterraneo scavato dall’ansiosa bestiola del racconto La tana.

Ma Kafka non è assolutamente qui. E non lo è nemmeno in via Bílkova, nella casa prestatagli in precedenza dalla sorella Valli, dove aveva iniziato Il Processo, proseguito poi speditamente nell’appartamento di via Polská, lasciato libero per lui da Elli, le terza sorella. Franz vi compose anche il tremendo racconto Nella colonia penale e altre cose, tra cui Blumfield, un vecchio scapolo, storia di un uomo perseguitato dal rumore.

Per illudersi di ritrovare ancora Kafka, o un fantasma di lui, pensa Emilio, oltre a ripercorrere i suoi passi, occorrerebbe forse inseguire la sua apparenza fisica, liberandosi dal cliché di quella faccia cristallizzata su tazze e magliette. Cercarne le tracce umane nelle figure, in qualcuna delle immagini sopravvissute per miracoli del caso alla cieca distruzione, all’inferno della violenza e del fanatismo. Le fotografie di Franz decenne o poco più, per esempio, che illustrano oggi le tante biografie dello scrittore. Mostrano un tenero e bel bambino e poi giovinetto ben pettinato con la frangetta. Ai piedi ha gli stivaletti che allora calzavano tutti i savi fanciulli, allacciati con lunghe stringhe o chiusi sul lato esterno da una sfilza di bottoncini. Gli stessi stivaletti che portava Proust adolescente e che si vedono in vecchie illustrazioni edificanti, anche sotto il letto del bambino che si desta dal lungo sogno di essere stato un burattino di legno. In Italia quegli scarponcini si chiamavano “polacchetti”, un acquisto, un investimento importante per le famiglie che non fossero abbienti, e servivano a molti scopi: riparare dal freddo, dall’umidità della neve e della pioggia, dagli schizzi di fango, proteggere dalle storte il collo del piede e nascondere le calze rattoppate ai talloni di tante giovani generazioni che camminavano su strade mal selciate o più spesso di terra battuta.

Dalla lunghezza previdente e buffa di quelle scarpe di Franz ragazzino, si capisce che la famiglia si aspettava che il primogenito crescesse in fretta, diventasse quell’altissimo giovanotto, di cui restano le immagini allampanate di pochi anni dopo.

Fra tante figure una colpisce particolarmente Emilio: si vede Kafka trentenne accanto a una delle colonne d’ingresso (dice la didascalia), di un’altra delle sue case, la Oppelt, all’angolo della piazza vecchia con il viale che porta alla Moldava, strada aperta dopo il risanamento e chiamata, in omaggio alla modernità parigina, Pařižská Třída. Alla sua sinistra è Ottla. Nessuno dei due è in posa, l’atteggiamento è spontaneo. Franz s’appoggia rilassato alla colonna, con le mani intrecciate (ha una fasciatura al pollice sinistro). Il sorriso dolce, il corpo elegante nell’abito scuro, le scarpe nere lucidissime, esprimono bene quella “sommessa semplicità” che Brod ammirava e amava in lui. E’ contento d’esser lì con la sorella più cara, un po’ arretrato rispetto a lei e protettivo, in attesa dello scatto. Due persone ritratte così non possono non essere legate da un grande affetto. Non sembra esservi traccia, nel Kafka diurno, di quel tormento, di quel male d’esistere, che di notte lo portava a scrivere di non avere con se stesso “niente in comune”, di sentirsi “buttato fuori dal mondo a pedate”, di sperare nella solitudine quale unica difesa, di considerare il proprio corpo come “ricavato da un ripostiglio di ciarpami”. Non pare essere lo stesso che diceva di gioire nell’immaginare “un coltello piantato nel mio cuore”. Ma per una piccola ferita reale, come in quel dito fasciato che si vede nella foto, stava attento a curarsi (Emilio lo sa perché c’è una lettera in cui lo scrittore ne parla), con “metodi naturali”, che preferiva alla farmacopea tradizionale.

Emilio va con la foto davanti al portone monumentale della casa Oppelt. Vuole controllare se Franz col pollice bendato fosse stato effettivamente ripreso assieme a Ottla all’ingresso di quel palazzo, dove abitò con i genitori dalla fine del 1913 al luglio 1914 e dove tornò nel ’17, quando non vi furono più dubbi sul suo male: aveva la tubercolosi, non era consigliabile che continuasse a vivere da solo.

Nonostante qualche dettaglio non coincida, probabilmente per piccole modifiche apportate negli anni alla facciata (tra l’altro, il grande ingresso oggi è sbarrato, c’è l’insegna di un ristorante, che però sembra chiuso, nella casa si dovrà entrare da un’altra parte), tutto sembra in generale corrispondere. Emilio si appoggia come Kafka alla base della colonna a sinistra (che gli sembra più bassa di quella che si vede nella foto, ma sarà per un effetto ottico), e scruta invano la pietra, come a cercarvi qualche traccia lasciata dallo scrittore. Ma poi alza lo sguardo e la sua attenzione è distratta da due figure marmoree femminili assise sulle volute baroccheggianti che sormontano le colonne.

Sono statue di belle ragazze, in puro stile realistico fine Ottocento. Una di esse protende con fervore polemico il braccio destro e punta l’indice, con aria accusatoria, verso la statua seduta sull’altra colonna. E costei la guarda, muta e scontrosa, opponendo all’aggressiva collega solo una spalla levata e un braccio ripiegato a difesa di sé. Un riserbo che lascia peraltro benissimo in evidenza il prosperoso seno e altre bellezze.

Cosa rimproveri l’una all’altra è chiaro. Basta osservare il loro abbigliamento, per capirlo. La ragazza di destra è evidentemente una giovane di morale salda, che ha ben chiaro. il senso del proprio “essere nel mondo”. Un peplo le avvolge in modo appropriato gambe, fianchi e spalle. Il fatto che abbia anch’essa il petto e l’ombelico scoperti è giustificato dalle convenzioni statuarie dell’epoca, lontanissime dal coevo senso comune del pudore, e non contraddice pertanto la sua onestà. Anche l’acconciatura della sua chioma è significativa: i riccioli un po’ ribelli denotano un animo intrepido, ma sono quasi tutti ben trattenuti da un nastro e raccolti sulla nuca in una crocchia, secondo la moda del tempo. Tiene sulle ginocchia un”papiro”, un lungo foglio in parte srotolato.

L’altra statua, invece, è l’immagine stessa della sciatteria e della sconvenienza. Le gambe sono scoperte sin oltre le ginocchia e le trecce sciolte ricadono in disordine. Una ragazza bella ma accidiosa, sorpresa in pieno giorno ancora in déshabillé, appena levatasi da un letto di peccato, e per di più poco pulita, coperta malamente di stracci e incapace di amministrare bene nemmeno il ricavato dei propri amori venali. Da uno strappo nella manica della camicia sbrindellata le spunta un gomito nudo. Ai suoi piedi, altri rotoli di fogli, buttati alla rinfusa.

Si tratta chiaramente di due statue allegoriche, a significare il contrasto tra Ordine e Sregolatezza. Ma perché proprio su quella casa, all’angolo della piazza principale della città? Strano che Kafka non abbia mai accennato nei suoi scritti, nel diario, nelle lettere o, almeno, nel poco che ne ha letto Emilio, a quelle due figure che gli capitava di vedere ogni giorno.

E’ possibile che le statue vogliano alludere anche a qualcos’altro. Non soltanto all’ignoranza, al disordine fisico e morale, all’umiliazione dei “miserabili”, termine amministrativo corrente con cui una volta si bollavano, nei documenti anagrafici, i derelitti, i diseredati, i poveri che avevano ispirato a Parigi Victor Hugo e a Londra Charles Dickens.

Casa Oppelt doveva essere stata ultimata all’epoca in cui s’era appena concluso, lì accanto, oltre la barriera frapposta dalla chiesa protestante di San Nicola, il risanamento del ghetto, ormai vergogna di Praga, mentre ancora si trascinavano polemiche infiammate sulla nuova sistemazione del quartiere. La statua perbene punta l’indice in direzione non solo della ragazza perduta, ma anche del ghetto ripulito, come per un’accusa e un’esortazione figurate, uno strascico marmoreo a tante discussioni. Come a dire: ”Con te abbiamo chiuso, basta con le turpitudini della miseria. Diamoci da fare per il bene della città e della società!” (non pare che voglia aggiungere “per il bene dell’anima”, perché la ragazza mostra nel suo atteggiarsi un certo che di positivismo “laico”).

Se non fosse per questo e non ci si trovasse, d’altra parte, nella città che vide i Gesuiti e altri padri e frati a sciami, per tutto il Seicento e più, impegnati nel sacro compito di cancellare con innumeri edificazioni e statue barocche ogni residuo della sconfitta Riforma, parrebbe che le sculture tardo-naturalistiche di casa Oppelt tendano ad esaltare uno dei principi di fondo dell’etica protestante. E’ curioso che Kafka non ci abbia ragionato su. Ma poi Emilio ricorda che lo scrittore diceva di preferire, nel suo cuore, l’antica e malsana città ebraica ormai scomparsa, “molto più reale dell’igienica città nuova intorno a noi”.

Pare giusto, dunque, che ignorasse quei simulacri di marmo. Egli era curioso d’altro, era soprattutto assetato di immagini di vita, di persone vere. Che poi trasformava e reinventava, nella sua prosa esatta e implacabile di entomologo. Stupito e, insieme, terrorizzato di scoprire in ogni atto vitale la quieta minacciosa atrocità formale del mondo. No, a Franz non doveva importare nulla di quelle due ragazze pietrificate sul portone di casa e dei loro possibili significati. E, dovendo scegliere fra le due, più simpatica gli sarebbe stata, francamente, la stracciona.

Ma basta con Kafka e le sue case. Per loro Emilio ha trascurato tante altre cose interessanti. La sua collezione di sguardi ha molte caselle vuote e, nonostante egli sia, in fondo, consapevole della loro insignificanza, tutto questo gli dà un senso di insoddisfazione. C’erano altri personaggi da inseguire a Praga, avendo tempo, nei luoghi di Werfel, di Walser, di Brod, di Rilke e di Mahler studenti, di Smetana, di Dvořák, di Janácek venuto da Brno in cerca di ascoltatori, e la villa in cui Mozart compose il Don Giovanni¸ e le birrerie, i cabaret, le bettole fumose dove si sbronzava il buon soldato Schwejk, anzi pardon, Jaroslav Hašek.

La domenica sta finendo, domattina si riparte per l’Italia. Emilio progetta di concludere la sua ultima giornata praghese con una cenetta in Malá Strana e con una solitaria passeggiata notturna all’isola di Kampa, lungo la riva della Moldava. Il ristorante migliore sarebbe lo Štajnic, all’angolo tra le vie Mostecká e Lázeňská, subito dopo la torre del Ponte Carlo, dove sedevano sempre i protagonisti di una vecchia storia di Jan Neruda. Ma lo Štajnic non c’è più. Così Emilio va a cercare un po’ di colore culinario locale in un’osteria dal nome lunghissimo e dimenticato, intravista camminando sulle orme di Kafka. Pare che sia una delle più antiche della città, dove si radunavano una volta i patrioti dell’indipendentismo boemo. E’ un antro col soffitto a botte e grandi tavoloni di legno massiccio. Gli portano un enorme stinco di maiale e un piatto molto gustoso ma infinito di patate bollite, cotte con carne affumicata, cipolla, uova, erbette e altro ancora. Per chiudere, un dolce locale, eccellente, e un bicchiere di distillato, fortissimo.

La cena è stata pesante, e due boccali spropositati di birra ad alto tasso alcolico non sono certo serviti a farla più leggera. Una passeggiata è indispensabile. S’è fatto tardi, la notte è bellissima. La strada in discesa, con la luna piena, facilita il passo aggravato di Emilio, che arriva senza fretta al Ponte Carlo, ormai deserto, e sosta un momento a prendere fiato.

Sarà per effetto della Pilsen, o dei sortilegi praghesi, ma dall’altra parte del vecchio ponte, là in fondo, si odono tuoni sordi, e al loro cupo martellare le statue barocche issate con fede arrogante sui parapetti, si stanno animando nel chiarore selenico. Santi e Madonne scendono dai piedestalli e muovono con passi lunghi e lenti (le falcate dei sogni), alla volta di Malá Strana.

I tuoni diventano presto colpi vibrati di grancassa, e si comincia a percepire anche il filo tenue-acuto d’un suono di flauto. La marcia incantata s’avvicina, non si vedono più statue venire avanti, ma altissimi lèmuri. Li precede il biancore incerto d’una forma continuamente mutevole.

Passo dopo passo, l’irreale processione si fa più distinta, i lèmuri si manifestano per animali, no, per caricature di animali – un cavallo, una zebra, una giraffa, un orso – che avanzano con moto rallentato ma irresistibile verso l’antica torre romanica. Ora si capisce perché procedano come in sogno e siano così alti: camminano su vertiginosi trampoli. E la forma che apre il corteo si rivela per un’aerea, ammaliante creatura fatata, circonfusa di chiarori argentei, lunghe fasce di veli diafani, agitati con gesti ieratici, misteriosi.

Le strane figure scortano un carro traballante. Sopra, in equilibrio precario, un pupazzo obeso, in giacca e cravatta sgargianti, si regge a fatica ai braccioli d’una poltronaccia sfondata e cerca, tra gli scossoni, di seguire il programma che illumina un immenso televisore. Attorno, rotolano qua e là telefoni, dentifrici, elettrodomestici, barattoli di Coca-Cola e di conserva, tegami e altri casalinghi.

L’apparizione sfila sotto l’arco della torre, sparisce in via Lázeňská, ricompare rumorosamente nella strada che scende verso l’isola di Kampa, e si arresta a uno slargo. Una piccola folla si è radunata, viandanti attardati, gente uscita da ristoranti e birrerie al frastuono del tamburo, curiosi affacciati a finestre che si illuminano.

La fata danza sulle sue aste con indicibile grazia, componendo attorno a sé mirabili figurazioni turbinanti di veli. Le saltellano attorno gli animali coi loro passi erti e legnosi. La zebra, specialmente, si aggira instancabile con balzi e piroette, puntando il muso contro donne e bambini, che si ritraggono ridendo, con urletti di spavento. I colpi di grancassa sono sempre più assordanti, il flautista si abbandona a variazioni di acuti, di soffi, di fischi rauchi e stonati.

Gli animali si accalcano poi attorno al carro. Protendono i lunghi colli verso il televisore, o cercano di afferrare con le goffe zampe gli oggetti casalinghi, contrastati affannosamente dal pupazzo.

Una satira ingenua e sin troppo palese del consumismo, dunque, un’allegra clownerie, divertente ma paradossale in un paese uscito da poco dalla quaresima del socialismo reale e già ben avviato verso i miti e le illusioni più confortevoli dei popoli opulenti. I costumi sono ben fatti, le caricature azzeccate, l’allestimento perfetto nella sua cialtronaggine, il ritmo dei movimenti studiato accuratamente. Non sembra essere un’esibizione estemporanea, improvvisata. Verrà da un circo o sarà il riutilizzo estivo di un carro carnevalesco. Comunque sia, gli spettatori applaudono con calore, e applaude anche Emilio, che ha accolto la simbolica epifania come un evento sorprendente e un godimento inaspettato.

Il tamburo e il flauto tacciono, lo spettacolo è terminato, gli interpreti scendono dai trampoli aiutandosi l’un l’altro e si liberano dei costumi. La fata si rivela per una piccolina, molto bella. Il grosso pupazzo è un giovane smilzo, insaccato in abiti imbottiti più larghi di quattro misure. Qualcuno dentro la maschera della zebra sta districando le gambe dalla complicata armatura che la reggeva. E’ un biondino madido di sudore, sfinito. Sotto il carro c’è un’automobile. Gli attori ammucchiano nell’abitacolo i travestimenti.

A Emilio che ha guardato, avido di tutto, il disvelamento seguito allo spettacolo, sembra di capire che quei ragazzi, ora in jeans e magliette, si apprestino a raggiungere in Kampa un’osteria. Decide di seguirli. Entrano in un minuscolo locale gremito di gioventù, dove si sta strettissimi nonostante il caldo, bevendo fiumane di birra. Trovano fortunosamente un tavolino e siedono. Riesce a sedere, in seconda fila, anche Emilio.

Parlano in incomprensibile ceco, contenti ed eccitati della loro riuscita rappresentazione. Emilio vorrebbe attirare l’attenzione della fata (ha sentito che la chiamano Kačenka, e ha fatto in modo di sederle alle spalle), per complimentarsi e chiacchierare. Vorrebbe anche sapere com’è nata l’idea della processione. Ma non sa spiegarsi nel suo approssimativo anglo-tedesco, e tace.

Il biondino della zebra estrae da una tasca un telefonino e lo esibisce agli amici con l’aria di dire: guardate che roba. Prorompono grida e fischi di finta meraviglia e di compiacimento beffardo. Tutti protendono le mani verso l’oggetto di scherno rifacendo i gesti burleschi degli animali attorno al carro. Il pupazzo si atteggia a protettore della zebra e del suo tesoro. Ridono, ma presto la pantomima finisce e Kačenka chiede conto all’amico di quel possesso esecrato. Il biondino sembra giustificarsi di qualcosa, e a un certo punto pronuncia chiaramente la parola: “Urbino”.

“Urbino, Italia?”, interviene pronto Emilio dalla sua seconda fila, e tutti si volgono verso l’estraneo che si è unito a loro e che si presenta: “Io Emilio”. “Tu italiano? Io František” dice il biondino e riesce a spiegare in italiesco che il cellulare è un regalo appena giuntogli da parte della sua ragazza di Urbino. Che si chiama Ilaria e dovrebbe chiamarlo tra poco, a mezzanotte, la sua prima telefonata dall’Italia.

“Ammore italiano!” declama Kačenka simulando grande passione, e gli altri le fanno coro ridendo. František, tra confuso e lusingato, si schermisce e dice a Emilio: “Kačenka è gelosa con me e mia ragazza”. Protende il telefonino: “Tu conosci questo?” “Certo, in Italia tutti cellulare”. František traduce e subito Kačenka gli prende l’apparecchio e mima una telefonata galante all’italiana, una filastrocca incomprensibile farcita ancora di molti “Ammore”, che fa nuovamente sbellicare tutti. Poi cambia brusca di tono e conclude con una breve frase, secca e acida. Il biondino alza il cellulare traducendo: “Italiani sono prigione di questo”. Emilio vorrebbe ribattere che lui non ha il cellulare e non lo ama, ma non sa come dirlo, e solleva un po’ le spalle.

All’improvviso il telefonino sul tavolo si illumina e prorompe in un concerto di campane. František sobbalza, i compagni lo esortano rumorosamente a rispondere, lui cerca qua e là il tasto giusto, lo trova, preme e grida “Hallô, Ilaria, hallô, qui František, pronto!”, ma c’è troppo rumore nel locale, non capisce, si deve alzare e farsi strada fra i tavoli, col cellulare appiccicato all’orecchio, mentre tutti lo guardano. S’affretta verso l’uscita, per proseguire nel silenzio della strada il colloquio amoroso. Gli altri riprendono a chiacchierare tra loro, ogni tanto accalorandosi (specie Kačenka), ma subito dopo scoppiando a ridere.

Emilio, escluso dalla conversazione, ripensa alla mascherata. Sarà stata una salutare reazione “verde” alle mode consumistiche occidentali e ai condizionamenti della globalità, o un residuato dei cliché anticapitalistici del passato regime? O tutt’e due assieme? In ogni caso, una delle tante pietre lanciate invano contro la “falsificazione della vita” di cui parla proprio Vàclav Havel, autorevole voce di qui.

Quei ragazzi staranno beffeggiando la follia inarrestabile della sovrapproduzione di cose e di segni, che uccide la cultura e la bellezza. Si chiederanno come trovare un accordo (possibilmente divertente) nel disordine, per renderlo sopportabile. Qualcuno di loro spererà che il progresso malato sparisca solo cessando di crederci. Staranno citando Kundera, Kafka, Borges.

Emilio si ricorda che, durante la sua visita a Praga del ’64, gli capitò di assistere, proprio sul Ponte Carlo, a una scenetta girata per qualche film o documentario. Un tale scagliava con rabbia nella Moldava un televisore. Sempre lo stesso tema. Un gesto che avrà voluto significare una protesta in chiave ironica contro i nuovi mass media incalzanti. O che forse mascherava un segno polemico contro l’informazione strettamente controllata dal potere comunista.

Telefonini, oggetto di desiderio in Italia, di derisione e di sprezzo a Praga (ma soltanto per pochi giovani, probabilmente, disincantati e insieme candidi). Processioni buffe contro i Beni di Consumo su un ponte che, un tempo, ne aveva viste ben altre, a celebrare la vittoria sanguinosa della Controriforma.

Ora ogni idea sembra poter convivere, bene o male, con le altre, in ossequio al relativismo culturale (non einsteiniano), per cui, secondo i moralisti che scuotono la testa, tutto è uguale a tutto, cioè a niente (ma sempre meglio dei roghi, delle intolleranze, degli integralismi). Non come una volta, quando Adamo ed Eva e discendenti erano puniti nel modo più severo (salvo redenzione), per aver cercato la Consapevolezza. O come Prometeo roso al fegato in aeternum (se non interveniva Ercole), per aver portato agli uomini il fuoco del Progresso. E al povero Galileo, tratti di corda (di cui peraltro ci si è dovuti recentemente molto scusare).

Dopodiché, indulgenza quasi plenaria per tutti (salvo i transitori Hitler e Stalin e le Nazioni Canaglie), con pochi, sempre più pochi, principî irrinunciabili. Innumerevoli risse, ma solo verbali, o su carta o su internet, pro e contro cellulari, buco dell’ozono, effetto serra, fame, sete ed altro, con previsioni molto pessimistiche su quello che verrà. Ed Eliot poeta, che si domandava se tutto non finirà soltanto in un piagnisteo. Trovata geniale, bellissimi versi, ma Emilio si chiede come potrebbe essere, realmente, all’ultimo momento, il piagnisteo. E chi si dovrebbe assumere il compito di “gestirlo” (giovani allegramente intransigenti, come quelli attorno al tavolino davanti a lui, ma invecchiati e pronti ai compromessi, o i loro figli, o i loro nipoti o pronipoti?).

E Lucia, la stanca Lucia, cosa direbbe se potesse vedere seduto qui, nella Praga d’oggi apparentemente non più tanto triste, Emilio sempre uguale, sempre curioso di guardare indietro e avanti, oltre la stupidità degli angoli.