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Altre Storie – Su niente, gratis
Il ritratto della zia Eris

Stare seduti e aspettare. Abbiamo capito da un pezzo che viaggiare significa questo. Prima, sedere e aspettare nella sala d’aspetto, spazio ormai essenziale in un viaggio (chiamato eufemisticamente ‘sala d’attesa’, come se l’attendere fosse uno stato dell’animo più provvisorio dell’aspettare, e ci lasciasse in forse tra il sedere e lo stare in piedi, tanto la partenza sarebbe per essere una questione di un minuto o due). E poi, sedere e aspettare nell’abitacolo del veicolo che va auspicabilmente verso la sua e nostra meta, dandoci l’illusione di essere fermi, grazie a sofisticati dispositivi che riducono al minimo gli scossoni e i rumori, e fanno apparire irreale il paesaggio che scorre nei finestrini. Paesaggio e viaggio tanto più irreali quando si siede (e si aspetta di arrivare) nella cabina insonorizzata e pressurizzata di un aereo, e i nostri sensi intontiti non avvertono la velocità mostruosa del mezzo.

Non più come una volta, quando mettersi in viaggio, in un qualsiasi lento viaggio, anche su un breve percorso, era sempre una ricca esperienza umana e un azzardo, paventato dai timidi ma fonte di stimolo per gli animi avventurosi.

Anch’io stavo seduto e aspettavo, da quasi due ore, nella sala d’attesa dell’aeroporto. Una musichetta senza inizio e senza fine si arrogava il compito di riempire lo spazio e il tempo, il mio tempo ormai protratto oltre ogni possibile previsione di partenza, dopo i periodici annunci di un ritardo per l’improvviso sciopero del personale di bordo, diffusi da una languida e smorzata voce femminile.

Ingannavo la frustrazione e la noia distraendomi ad ammirare l’aderente abitino blu intessuto di fili d’argento, poco adatto ai viaggi ma adattissimo a far risaltare la grazia felina e sinuosa della bellissima ragazza di colore (modella oltre ogni ragionevole dubbio), che lo indossava sedendomi di fronte.

Per non importunarla troppo con i miei sguardi falsamente indifferenti, in realtà desiderosi e indagatori di grazie non troppo riposte, fingevo di sfogliare una rivista appena comprata. E fu sfogliandola che vidi il ritratto della zia Eris.

Era lei, con i suoi capelli grigi e lisci che le incorniciavano il caro viso, le occhiaie pronunciate, il naso diritto e la bocca apparentemente imperiosa, ma sempre pronta a sciogliersi nella tenerezza d’un sorriso.

Per la verità, nella fotografia della rivista si scorgeva solo metà del volto, una sola occhiaia e mezza bocca, ma era pur sempre la zia, oltre ogni dubbio, ragionevole o no.

Il suggestivo ritratto campiva al centro di due pagine ed era un particolare ingrandito da un’altra fotografia, riprodotta accanto più piccola, nella quale si vedeva ancora, indicata da una freccia in una specie di deserto, la stessa faccina della zia scolpita in una roccia. Altre frecce segnavano due picchi a forma di piramide. Tre montagne, insomma, che sembravano disposte ai vertici di un triangolo. Guardai il titolo dell’articolo: Un’altra vita nel sistema solare? Lo sapremo presto.

Le fotografie, opportunamente rielaborate al computer, riprendevano immagini trasmesse alla Terra venticinque anni prima da una sonda Viking orbitante attorno a Marte. Ricordavo vagamente di averle già viste quand’ero bambino, ma senza riconoscervi la zia Eris. Il volto e le due piramidi, diceva la didascalia, stavano nel Mare Acidalium, nell’emisfero settentrionale del ‘pianeta rosso’.

Lessi l’articolo. Vi si mescolavano abilmente ipotesi di civiltà marziane perdute e scetticismo di specialisti, dando a ciascuno il suo, ma offrendo in modo furbo ai lettori, avidi di misteriose presenze spaziali, un bel mazzo di interrogativi per fantasticare.

I planetologi, scriveva la rivista, erano convinti che quelle immagini avessero ‘scarsissima relazione con la realtà’ e che fossero probabilmente effetti del caso, di un semplice gioco di luci e ombre. Ma subito dopo si precisava che le riprese erano state effettuate con raffinatissimi strumenti ottici, capaci di ‘vedere’ come distinti sul suolo di Marte oggetti lontani tra loro solo cinquanta metri. Erano tuttavia rielaborazioni digitali, si ribadiva. Ma a questo punto si introduceva il parere di uno studioso di misteri egizi, che confrontava la disposizione triangolare delle strane rocce marziane con quella della Sfinge e delle piramidi di Cheope e di Khafra. Sembravano identiche. Riproduzioni l’una dell’altra? Gigantesco puzzle trigonometrico? Tracce lasciate da chissà chi? Messaggi oltre il tempo? Le domande si affollavano, a sicura eccitazione dei lettori. ‘Siamo comunque di fronte a qualcosa di molto insolito, che ha assolutamente bisogno di ulteriori studi’, avevano concluso i ricercatori, stipendiati dall’ente spaziale, interessato a stimolare nella gente curiosità ed anche speranze irrazionali (e a sollecitare nuovi finanziamenti governativi).

Altre sonde erano atterrate molti anni dopo su Marte e avevano inviato sulla Terra ulteriori ma deludenti immagini del vicino pianeta, rosso per il colore dominante dell’ossido di ferro, come avevano confermato le analisi del suolo. Ma nessuna sonda era atterrata nel Mare Acidalium, per cui il mistero del presunto volto scolpito nella roccia era rimasto nient’altro che un mistero. Ora però, annunciava la rivista, era imminente (questione di pochi giorni), l’arrivo nel ‘mare’ marziano di una nuova sonda americana, in viaggio da sette mesi lungo la solita complicata traiettoria di quasi cinquecento milioni di chilometri. E alfine si sarebbe certamente avuta una risposta inequivocabile all’interrogativo che appassionava i terrestri: c’era veramente, lassù, la rappresentazione di uno sfingeo volto umano (e di mia zia Eris) al vertice di un triangolo, che Euclide avrebbe definito geometricamente simile a quello egizio?

Venticinque anni, riflettei tornando alla realtà, erano occorsi per questa rivisitazione. Cosa contavano al paragone, cercai di consolarmi, le mie due orette d’attesa in questo aeroporto? Io non dovevo andare su Marte, ma solo a Francoforte sul Meno, per le mie faccende di ingegnere. E ora la languida voce femminile diceva che l’attesa della partenza si sarebbe protratta ancora per un po’.

La modella tradì la sua impazienza con un gesto e con uno sguardo rivolto a me, che poteva essere interpretato come un invito a spazientirci insieme, visto che non c’era altro da fare. Io guardai invece l’orologio. A quell’ora la zia Eris era già in piedi da un pezzo e si stava probabilmente preparando il suo secondo caffè. C’era il tempo di farle una telefonata, dirle del ritardo, raccontarle del suo ritratto su Marte, riderne insieme.

La sorella della mia povera mamma era una seconda madre per me. Da quasi un anno, da quando i miei impegni di lavoro mi costringevano a frequenti e prolungati soggiorni all’estero, zia Eris aveva deciso di non dividere più la casa con me e di andar a vivere da sola, in un appartamento piccolissimo ma molto confortevole, attiguo a quello occupato dalla signorina Elvira, la sua più cara amica. Era come se abitassero assieme (una porta interna collegava le loro stanze), ma ciascuna preferiva, saggiamente, conservare un proprio spazio di indipendenza e, così, preservare meglio la reciproca amicizia. Alle mie proteste, zia Eris aveva obiettato: ero ormai un uomo, avevo le mie esigenze, avevo bisogno della mia libertà. E lei non sarebbe stata costretta a trascorrere lunghi periodi in solitudine, aspettando il mio ritorno. Ci separava, del resto, solo un isolato.

La chiamai dal cellulare. Il suo telefono squillò più volte a vuoto. Strano che la zia non fosse in casa a quell’ora. Forse era dall’amica. Stavo per chiudere la comunicazione quando zia Eris improvvisamente rispose, con un ‘pronto’ che mi parve come angosciato (sarà preoccupata per il mio viaggio, pensai). Le dissi della fotografia. Comprasse la rivista e si facesse due risate. Era lei spaccata, su Marte: stessi capelli grigi, occhi un po’ infossati e il resto uguale. Adesso, dopo un quarto di secolo da quella ripresa, un’altra sonda avrebbe risolto il mistero del suo ritratto lassù.

Ma venticinque anni prima, obiettò la zia come se sapesse già della foto, i suoi capelli non erano grigi e le occhiaie le erano venute dopo, quand’era dimagrita per via della tiroide. Parlava con una certa impazienza, senza stare al gioco scherzoso, come se volesse ribattere alle ragioni di qualcun altro che fosse lì ad ascoltarla. Mi pareva anzi di sentire nella sua voce un fondo trattenuto d’ansia. Stavo cominciando a dirle che io la vedevo sempre uguale, ma mi interruppe e, in modo insolitamente brusco, tagliò corto: “Non posso restare al telefono. Scusa” disse in fretta. E riattaccò.

Non ebbi il tempo di stupirmi perché gli altoparlanti annunciarono con un languido sussurro senza emozione che finalmente l’aereo per Francoforte era in partenza. Affrettandomi verso il punto d’imbarco rifeci il numero, ma nessuno rispose. Strano. Ormai non c’era più tempo. Corsi al varco e poco dopo ero a bordo, seduto accanto alla bella indossatrice.

 Il volo fu breve e piacevole. La ragazza era giamaicana e simpaticissima. Peccato che dovesse proseguire in serata per Londra. Le mostrai la rivista con il ritratto della zia su Marte. A riprova, tirai fuori dal portafogli la fotografia che mi ritraeva accanto a lei, in occasione di una recente festa per il suo compleanno. Ci ridemmo su, ma la modella ripeté l’obiezione che avevo appena sentito al telefono: quello su Marte era il ritratto della zia di adesso, con i capelli grigi, non di venticinque anni prima, quando la sonda aveva ripreso l’immagine e lei certamente era una donna ancora giovane, non una vecchia.

Logica femminile perfetta Ci accomiatammo scambiandoci i numeri telefonici. Tornava spesso in Italia. Chissà.

Dal taxi che mi portava all’appuntamento telefonai alla zia per avvisarla, come facevo sempre nei miei viaggi, che tutto andava bene. L’apparecchio era occupato. Rifeci il numero tre volte. Strano, la zia non era una chiacchierona telefonica. Pensai di lasciare il messaggio alla sua amica. Rispose subito, come se aspettasse la chiamata, con voce affranta. Sentendo che ero io, scoppiò a piangere. “Purtroppo devo darti una brutta notizia” disse tra i singhiozzi “Eris è morta”.

“Morta? Ma cosa dici!” urlai “ma se le ho parlato un’ora fa, prima di partire!”

“Una disgrazia, una disgrazia orribile!” gridò l’Elvira. Era sconvolta. Si esprimeva a fatica. Riuscii a capire che era uscita per una mezz’ora a portar fuori il suo cagnolino. Al ritorno, aveva sentito un tremendo puzzo di bruciato provenire dall’appartamento della zia. Era entrata e uno spettacolo orrendo le si era presentato in cucina. L’amica riversa sul fornello del gas acceso, la testa… Non poté proseguire. Prese il telefono una ragazza che abitava da qualche mese al piano di sopra e che era subito entrata in dimestichezza con le due anziane. Disse che avevano trovato la zia morta, con il corpo mezzo bruciato. La testa, la testa soprattutto, completamente carbonizzata dalle fiamme. Irriconoscibile. Tutto doveva essere successo in pochi minuti.

Ma come poteva essere accaduto, chiesi mentre sentivo una mano fredda stringermi il cuore e la mia bocca riempirsi d’un rigurgito acido e amaro. Nessuno riusciva ancora a capire. Forse un malore improvviso.

Ero stupefatto, annientato dal dolore. E non potevo rinviare l’incontro, al quale i colleghi tedeschi si preparavano da un mese. Raccontai cos’era accaduto. Furono gentilissimi, risolvemmo i problemi più urgenti e rimandammo gli altri ad una riunione da tenere presto nella mia città. Potei ripartire dopo poche ore. Per tutto il tempo penoso dell’attesa (breve, stavolta, ma per me insopportabilmente lungo) e del ritorno (ancora seduto, aspettando), non feci che interrogarmi sulla incredibile fine della zia, in circostanze che mi apparivano inesplicabili, prive di senso. Quel tono d’ansia e di impazienza che avevo avvertito nel nostro ultimo colloquio telefonico, si caricava ora di interrogativi inquietanti. E quella sua brusca interruzione? Da lei, che non era mai stata brusca con me!

Imbruniva quando suonai alla porta dell’Elvira. Venne ad aprirmi la giovane del piano di sopra. Disse a bassa voce che l’amica della zia stava dormendo. Era venuto il medico e le aveva dato un calmante.

Era la prima volta che vedevo quella ragazza, ma la zia me ne aveva parlato favorevolmente, in tono protettivo. Avevo altro in testa, ma notai la sua faccia anonima e slavata, quasi non finita. Non si capiva che età potesse avere. Parlava senza accenti e senza modulare le parole, mi parve, un po’ meccanicamente, per stereotipi, come la maggior parte dei giovani di oggi. Ma forse questo era il suo modo di reagire ad un evento che doveva aver colpito duramente anche lei.

Dalla porta comunicante entrai nell’appartamento della disgrazia. La luce era saltata, mi ci volle una candela. L’odore acre, terribile, dell’incendio e della carne bruciata mi impediva quasi di respirare. Mi agghiacciò in cucina, al chiarore incerto del lume, il disordine della scena di morte. Sulla piastra inossidabile del gas, una macchia nerastra delineava atrocemente la forma del busto riverso della zia, che le fiamme avevano consumato. Accanto, giaceva ancora, rovesciata, la caffettiera con il liquido sparso, carbonizzato. Dal telefono a muro penzolava il microfono, che nessuno aveva pensato di riagganciare. Nel silenzio, si avvertiva fioco il segnale rapido dell’„occupato„. Rimisi a posto la cornetta, con un gesto automatico. Volsi in giro la candela nella vana speranza di cogliere qualche traccia che mi aiutasse a capire le cause di quella fine assurda. Ma non si vedevano che i segni dell’intervento, inutile, dei soccorritori.

Tornai di là. Le spoglie della zia – mi informò la ragazza – erano all’istituto di medicina legale. Le circostanze della morte rendevano indispensabile l’esame dei periti: un’altra ingiuria a quel povero corpo. Telefonai: era ormai tardi, avrei potuto vederlo solo l’indomani.

La mattina dopo, alle sette, ero già all’istituto. Mi portarono in uno stanzone freddo rivestito di mattonelle bianche. Coperte da lenzuoli, su tavoli d’acciaio inossidabile, indovinavo forme umane. Una era la zia.

Della testa non era rimasto che poco più d’un teschio, da me non identificabile, d’un colore bruno scuro. Serravo le labbra, a trattenere commozione e raccapriccio. Vidi che quel colore s’estendeva, schiarendosi un poco, alla parte superiore del busto. Il fuoco aveva compiuto un buon lavoro spietato. Non volli vedere di più.

Mi spiegarono che, per le formalità dell’identificazione, avrebbero dovuto ricorrere alle schede odontoiatriche e mi chiesero il nome del dentista. Potei riconoscere solo le pantofole e un lembo bruciacchiato della vestaglia blu, che mi furono mostrati in un sacchetto di plastica. L’amato viso mi tornò in un flash, assieme alle parole universali di Amleto al cospetto del cranio di Yorick. Scacciai con un moto mentale d’insofferenza l’inopportuna sovrapposizione fra realtà e ovvia citazione, ma la banalità del dolore, la mia banalità voleva, non volendolo, quel fatuo raffronto. E mi ci abbandonai, coltello rigirato nella ferita. Rividi la verruca sulla guancia, verso la quale, bambino, avevo tante volte teso le dita nel gioco di chiedere: “Che cos’hai lì?”, venendone dolcemente allontanato dalla mano indulgente e carezzevole della zia Eris. Su quel ricordo mi sciolsi alfine in pianto, al di là di ogni pensiero.

Per l’autorizzazione a seppellire la salma ci volle un altro giorno. Lo passai a ricostruire in qualche modo le circostanze in cui la zia aveva trovato una morte piena d’orrore. L’Elvira si era un po’ ripresa e potei parlarle a lungo nel suo salotto. Era presente anche la ragazza del piano di sopra. Entrambe non poterono che confermarmi quanto m’avevano già anticipato nelle prime, concitate conversazioni. L’amica della zia era uscita di casa verso le nove e mezza ed era rientrata alle dieci. E in quei trenta minuti s’era consumato il dramma. Facemmo delle ipotesi sulle risposte che m’aveva dato la zia Eris al telefono nel nostro ultimo colloquio e sulla mia sensazione che avesse un tono strano, un po’ angosciato. Chiesi se c’era qualcuno con lei in quel momento, come m’era sembrato ascoltandola, magari la ragazza, ma risultò che la zia era sola quando le avevo telefonato prima di partire. Sul perché avesse chiuso la conversazione in modo così brusco e inusuale, la giovane suggerì una spiegazione che mi parve logica: la zia doveva aver sentito il brontolio del caffè che saliva nella macchinetta, aveva interrotto la telefonata ed era corsa verso il fornello per spegnere il gas. Evidentemente, nel momento in cui stava per farlo, era stata colta da un malore ed era caduta riversa sulla fiamma, rovesciando la caffettiera e offrendo il capo all’implacabile morsa del fuoco.

Era l’unica ricostruzione plausibile. Mentre così parlavamo, mi venne di guardare il telefono dell’Elvira, anch’esso del tipo a muro. “Un momento” dissi “quando la zia interruppe bruscamente la nostra ultima conversazione, dovette riappendere la cornetta, perché io non sentii più niente, nessun rumore. Quando sono entrato ieri in cucina, invece, il microfono penzolava dal filo…”

“Si vede che qualcuno, un pompiere o un infermiere, l’ha lasciato inavvertitamente staccato” disse prontamente la ragazza del piano di sopra.

“Forse”, riflettei. Mi ricordai che quando avevo richiamato la povera zia prima di partire, avevo sentito l’apparecchio suonare, ma nessuno era venuto a rispondere. Forse il quel momento si compiva la tragedia, il fuoco distruggeva il suo viso mentre il telefono… Distolsi la mente da quel pensiero. Di più non era possibile sapere. La ragazza mi guardava, una mano sulla spalla dell’Elvira, che fissava il vuoto e si premeva il fazzoletto contro la bocca.

Ritornai nell’appartamento di zia Eris per cercare ancora, alla luce del giorno, non sapevo cosa. La scena era sempre la stessa, intollerabile, fermata nel momento assoluto in cui vi era passata la morte. Guardai qua e là, rigirai oggetti, muti testimoni. Nella camera da letto, intatta sul cassettone, stava la scatola da biscotti in cui la zia conservava le sue poche cose di valore, più che altro affettivo. Sollevai il coperchio, e mi venne ancora da piangere.

Il giorno dopo, mi dissero che dall’autopsia risultava che la zia era stata vittima di un infarto. C’era qualche dubbio sul fatto che fosse già morta mentre le fiamme l’avvolgevano. Poteva darsi che l’infarto fosse venuto dopo, come conseguenza del trauma. Bella notizia: sperai che non fosse stato così.

L’indomani ci fu il funerale e due ore più tardi la nuova sonda scese nel Mare Acidalium a poca distanza (mezzo chilometro, dissero alla televisione), dalle supposte ‘piramidi’ e dall’altrettanto presunta ‘sfinge’.

L’operazione avvenne mentre la notte marziana oscurava l’intero emisfero settentrionale del pianeta, per cui (così dissero) non era stato possibile riprendere durante la discesa altre immagini delle famose montagne e completare la visione parziale rilevata venticinque anni prima. Solo con lo spuntare del sole fu dato di scorgere, riprese dalle telecamere della sonda già posata sul suolo alieno, le sagome rossastre di quelle rocce sullo sfondo di un cielo non meno rossastro. Eravamo milioni, forse miliardi di persone a guardare, credule e incredule, in ogni parte della Terra, comodamente sdraiate o stravaccate, stese, sedute o accoccolate su miliardi di poltrone, divani, letti, sedili, sgabelli, pavimenti.

Ora, dissero alla televisione, la sonda avrebbe espulso un veicolo robot, che si sarebbe subito diretto verso l’obiettivo. Andava piano, pochi metri all’ora, ci sarebbe voluto del tempo prima che l’occhio elettronico dell’alacre carrozzino potesse sostituirsi a quello della sonda, per mostrarci da vicino le montagne. Si sarebbe così risolto il gran mistero di quelle piramidi. E di quel volto, che a me sembrava più che mai, ora, il ritratto della povera zia Eris. Avremmo comunque avuto il tempo di sbrigare le nostre faccende e di dormirci sopra, prima dello svelamento. Nell’attesa, in tutto il mondo la gente cambiò canale o spense il video, si mise a letto o s’occupò d’altro.

Io feci qualche telefonata, fissai il nuovo appuntamento con i tedeschi. Un paio d’ore dopo, da un radiogiornale qualsiasi, appresi che su  Marte, le cose erano andate diversamente dalle previsioni.

L’annunciatore pareva affranto, come se stesse parlando di una sua personale sconfitta. Il robot era uscito regolarmente dalla sonda e aveva iniziato il suo lento viaggio di avvicinamento alle enigmatiche figure. Ma, ahimé, percorso non più d’un metro, arrampicatosi su un minimo pendio e discesa la china opposta, si era arrestato.

Corsi ad aprire la televisione: facce oscure ripetevano pari pari quello che aveva detto la radio. Ed ecco che le ultime riprese appena giunte da Marte lo confermavano senza remissione. La telecamera della sonda mostrò il robot salire un risibile rilievo del terreno, una corrugazione di pochi decimetri e, giunto in cima, apprestarsi a discendere il versante opposto. A un tratto il trabiccolo spaziale parve scivolare un po’ in giù e restar bloccato con il sedere in aria, come un’automobilina da bambini finita contro una pantofola. Si scorgeva una ruotina posteriore del mirabile congegno girare pateticamente a vuoto, avanti e indietro. E quando misero in azione la telecamera di cui era dotato, quel che si vide a distanza ravvicinata non fu che un po’ di terriccio rosso contro il quale s’era inesplicabilmente ma irrimediabilmente arenato quel costosissimo veicolo, studiato per far fronte ad ogni evenienza. Era bastato a fermarlo, e pareva per sempre, una trascurabile crepa del suolo, cunetta, avvallamento o cos’altro fosse.

I tecnici dell’ente spaziale dovettero dare in escandescenze irripetibili e non proponibili in onda, tanto che la trasmissione fu subito interrotta, non si capì bene se sul robot, sulla sonda o nella sala di controllo a terra.

Le cose non erano cambiate qualche ora dopo. Il carrettino era sempre là, fermo con la sua ruotina in aria. Esperti dichiaravano che l’incidente era assurdo e impossibile. Non si capiva come il robot avesse potuto incastrarsi in modo tanto banale. Qualcuno ricordò certi strani inconvenienti avvenuti nelle precedenti missioni, comunicazioni interrotte e altri guasti, ritenuti tecnicamente inspiegabili. Era più d’una malasorte, disse un tale. Come se qualcosa ostacolasse il previsto svolgersi delle operazioni.

Potevano essere giustificazioni suggerite ad arte, per attribuire a misteriosi influssi, magari a nascoste intelligenze (parola che tutti si guardarono bene dal pronunciare), errori commessi nel progettare la missione. Che si doveva comunque considerare fallita.

Restavano, a procrastinare chissà per quanto la soluzione del mistero, se non a rinviarla per sempre, le vaghe immagini riprese dalla sonda (da appena mezzo chilometro di distanza!): non più che profili di rocce. Si vedevano, sì, due montagne puntute (ma potevano essere tanto piramidi quanto coni vulcanici) e, più in là, parzialmente, si scorgeva quell’altra roccia che, si assicurava, era la presunta ‘sfinge’. Mostrava (ma a livello del suolo e non dall’alto), il lato opposto a quello che appariva nelle vecchie fotografie di venticinque anni prima. E solo con uno sforzo inaudito dell’immaginazione vi si poteva scorgere il lato destro di quel volto a noi noto solo nella parte sinistra.

I contribuenti americani, immaginai, stavano in quel preciso momento riflettendo con amarezza e indignazione sui soldi delle loro tasse finiti miseramente in quella ‘fottuta cunetta’ marziana (così pare avesse detto il responsabile della missione, un attimo prima della conferenza stampa in cui erano state annunciate le sue dimissioni).

Un telecommentatore ironico rilevò, giustamente, che guardare quelle squallide montagne marziane era come osservare Mount Rushmore, nelle Black Hills del South Dakota, da un punto di vista in cui non si poteva capire se vi fossero eternate le facce dei presidenti Washington, Jefferson, Lincoln e Teddy Roosevelt secondo i bozzetti dello scultore Gutzon Borglum, oppure se non si trattasse invece di casuali asperità scavate dai capricci atmosferici (e fece vedere un’immagine eloquente ripresa da quella particolare angolatura).

Basta, pensai, col ritratto marziano della zia Eris. Dovevo invece preoccuparmi di far stampare qualche copia del ritratto vero della cara scomparsa, da distribuire agli amici con un mesto cartoncino ricordo. Cercai la foto nel portafogli. Strano, non c’era più. L’avevo forse smarrita sull’aereo, dopo averla mostrata all’indossatrice giamaicana? No, ricordai benissimo di averla esibita al medico legale, nel momento del penoso tentativo di riconoscere la salma. Dopo di allora non avevo più avuto occasione di aprire il portafogli, dove non tenevo soldi ma solo tessere, carte di credito e poche immagini care. Rammentai che, quand’ero tornato in casa dell’amica della zia Eris per ricostruire le circostanze della disgrazia, m’ero tolta la giacca e il portafogli era scivolato fuori dalla tasca interna, cadendo sul pavimento. Ne era uscita la foto? Improbabile.

Cercai in casa mia, senza successo. Tutte le immagini della zia sembravano sparite, compresa un’istantanea giovanile, che l’aveva colta abbracciata a mia madre, da sempre incorniciata in salotto. Si scorgeva benissimo l’ombra di polvere sul muro, che segnava il punto in cui il quadretto era stato appeso. Chi l’aveva tolto? Forse la zia stessa, quando s’era trasferita nel suo appartamentino. E io non ne avevo notato l’assenza. Ci si abitua alle figure attaccate ai muri di casa, dopo un po’ non si vedono più. Guardai e riguardai nel cassetto in cui erano ammucchiate le vecchie fotografie. Niente. Apersi un album che avevo sfogliato tante volte da bambino, ma il nastro di seta, d’un verde sbiadito dal tempo, che legava le pagine, s’era strappato e per poco tutto non si sparse in giro. Lo strappo appariva recente, anzi recentissimo, i lembi mostravano ancora il colore vivo del tessuto. Dalle pagine mancavano tutte le foto della zia, le ricordavo bene.

Una copia del ritratto era certamente nel suo appartamento. E sapevo di un’altra copia custodita dall’Elvira. Le telefonai immediatamente. Certo che c’era, la foto. L’aveva anzi mostrata, proprio dopo la morte della zia, alla ragazza del piano di sopra. La teneva appoggiata al lume sul comodino, accanto a letto. Andò a prenderla, e attesi a lungo al telefono. Tornò confusa: non riusciva più a trovarla. Disse con voce di pianto che non ci stava più con la testa.

Corsi a casa sua. Ero deciso a scovare una copia del ritratto. Non potevano essere scomparse tutte. Cercammo anche nell’appartamento della zia. Ancora niente. Sembrava che qualcuno avesse fatto accuratamente sparire ogni immagine che la raffigurava. Chiamammo la ragazza del piano di sopra, che scese sollecita. Ricordava che l’Elvira le aveva mostrato la foto, ma non sapeva altro.

A quel punto sentii che mi stavo arrabbiando. Perdinci, esclamai a voce alta, improvvisamente agitato, possibile che si fossero volatilizzati tutti i ritratti della zia? C’era qualcosa che non capivo, proprio non capivo. Mentre l’Elvira scoppiava a piangere, guardai fisso la ragazza, che mi ricambiò con uno sguardo fin troppo fermo. Perdinci, gridai ancora più forte, non era possibile!

Ma che potevo fare. Chiamare la polizia, chiedere una perquisizione in casa della ragazza, per quattro foto scomparse? Mi sedetti e manifestai il mio sconforto: non avevo più un’immagine della cara zia. Poi mi venne un’idea. Esagerando nei toni ciò che davvero provavo, improvvisai una scena di disperazione, ultimo goffo espediente per tentar di ottenere una risposta chiarificatrice. E man mano che recitavo mi caricavo sempre di più. Stavo lì con le mani sugli occhi, e intanto tra le dita cercavo di spiare le reazioni dell’Elvira e soprattutto della ragazza del piano di sopra. Che mi guardava, attenta, senza emozioni, e taceva. L’amica della zia continuava a piangere. A un certo punto cercò di venire verso di me. La ragazza la prese per un braccio come se volesse consolarla, ma invece la tratteneva. O così mi parve. Poi la giovane accese una sigaretta e sbuffò il fumo. Lo fece in un modo strano, come se non sapesse bene come si fa a sbuffare.

Dopo un po’ me ne dovetti andare. Le due mi accompagnarono alla porta e l’Elvira promise di continuare la ricerca. Appariva confusa, addolorata, anche impaurita. Finsi di scendere le scale a piedi, ma quando chiusero l’uscio tornai su a passi di lupo e mi misi ad origliare. Mi sembrò che la ragazza dicesse con voce aspra qualcosa come “Sta zitta e tutto finirà bene”, ma non era chiaro, si sentiva male. Forse aveva detto “Sta tranquilla”. L’Elvira continuava a piangere e la ragazza parlava ancora. “Era necessario”, questo lo capii distintamente. In quel punto qualcuno azionò l’ascensore e il rumore coprì i suoni che venivano d’oltre la porta. Udii altre frasi indistinguibili e infine percepii un “su Marte” seguito da suoni confusi e da un’ultima parola: mai.

Me ne andai turbato, pervaso da una sensazione d’angoscia e di impotenza. Dormii male, sognai un video con il volto marziano della zia. I computer, diceva una voce, avevano completato l’immagine. La parte mancante mi venne incontro in uno zoom spaventoso: era la sezione d’un cranio scarnificato, un ghigno di denti, un’occhiaia vuota nel cui nero mi destai con un urlo.

La mattina dopo i giornali annunciavano in prima pagina il fallimento della missione. I titoli riferivano le durissime critiche all’ente spaziale e all’amministrazione americana. Difficilmente si sarebbero spesi altri soldi dei contribuenti per esplorare il ‘pianeta rosso’. Un corsivo ironizzava sugli sprechi astronautici. Marte, dio della guerra, figlio di Zeus e di Era, diceva l’articolo, confondendo in un unico pasticcio lo sfoggio di reminiscenze classiche greche e romane, da sempre ha preteso oro e sangue e fuochi sacri accesi nei suoi templi, ha portato stragi feroci e lutti al mondo, immancabilmente affiancato dalle divinità sue compari: Eniò (l’Espugnatore di Rocche), Dimo (il Timore), Fobo (lo Spavento), Eris (la Discordia). Finita l’era delle grandi guerre, Marte continua a succhiare risorse ai popoli o per conflitti locali o per imprese altrettanto insensate. E la Discordia regna sovrana…

Eris, il nome della zia! Io lo ricordavo come abbreviazione di Amneris, figlia del Faraone d’Egitto, la rivale senza speranze di Aida nel cuore di Radamès, un omaggio verdiano del nonno appassionato melomane. Ma la coincidenza era ben strana e aggiungeva nuovi interrogativi alle mie domande senza risposta.

Intanto i miei occhi scorrevano le ultimissime, insulse fotografie delle rocce marziane, che occupavano mezze pagine a colori. A non saperlo, avrebbero potuto anche essere brutte riprese di certe montagne brulle di casa nostra. Spiccava anche l’incerto profilo del lato destro di quella che tutti continuavano a chiamare ‘sfinge marziana’. Non si distingueva niente, come il Mount Rushmore guardato dal punto sbagliato. Ma osservando meglio scorsi (o credetti di intravedere) — grumo d’ombra sulla roccia o difetto della riproduzione a stampa che fosse — l’immagine esatta, all’altezza supposta, della verruca sul mento della cara zia Eris.

Mi chiesi ancora una volta cosa potessi ricavare da tanti vaghi indizi. Nulla, purtroppo. Ma capii che, d’ora in avanti, tutto il mio tempo libero sarebbe stato occupato a spiare la ragazza del piano di sopra. Sedere e aspettare, come sempre. In attesa di non so che.