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Altre Storie – Su niente, gratis
Saverio gatti, fotografo

Ho incontrato il fotografo Saverio Gatti un paio di volte, anzi tre. La prima fu nella calca feroce di cronisti e cacciatori di immagini che cercavano di carpire un’espressione, se non una frase, all’impassibile Eugenia Borghi.

La donna nascondeva il volto tra le mani mentre la conducevano via in manette dalla corte d’assise d’appello, dove le avevano ridotto a 27 anni la pena dell’ergastolo per la crudele e assurda strage della sua famiglia.

Cronista alle prime armi, ma più attento alle atmosfere che ai fatti, io stavo fuori della mischia, all’altro lato del piazzale davanti al Palazzo di Giustizia, e consideravo la violenza priva di significato dell’assalto.

Ognuno di quegli scatenati aveva un unico scopo: cogliere l’attimo in cui l’assassina avrebbe mostrato la faccia e pronunciato qualche parola, cedendo agli strattoni e alle domande dei giornalisti che la premevano e dei carabinieri che tentavano di sottrarla alla pressione.

Nell’aula, la Borghi aveva esibito in tutte le fasi del dibattimento, anche nei momenti più drammatici, il suo volto immobile e impeccabile di sinistra madonna. Ora i fotografi speravano in un gesto di reazione, anzi lo sollecitavano con quell’arrembaggio quasi rituale. E i cronisti non erano da meno: una parola, una sola, sarebbe loro bastata purché rivelasse la soddisfazione della donna per essere, seppure di poco, scampata alla pena massima. Ma cosa mai poteva pronunciare l’omicida in quella circostanza, se non un’imprecazione?

Vidi a un tratto uno dei fotografi emergere incredibilmente di tutto il busto sugli altri, e scattare. Subito dopo egli uscì dal branco che ancora si accaniva sulla condannata e sui suoi guardiani e venne verso di me con passetti affrettati, reggendo a fatica gli strumenti del suo lavoro, allora ingombranti e pesantissimi. Piccolo e mingherlino, era illuminato dalla certezza d’aver colto la migliore immagine, come il cacciatore che ha colpito per primo, e mortalmente, la preda ambita.

“Saverio, sei riuscito a prenderla prima degli altri anche stavolta?” gli gridò scherzosamente un collega che mi stava accanto. Non rispose ma sorrise a lui e a me con un distratto cenno d’intesa. Salì sulla sua vespa e, stando un po’ di sbieco per bilanciare il carico che portava sulle magre spalle, scappò via verso la camera oscura.

“E’ Saverio Gatti, non ne sbaglia una, quel figlio d’una buona madre” disse con ammirazione il collega, prendendomi sottobraccio per sospingermi ad attraversare la strada.

Davanti a noi si esaurivano le ultime scaramucce dello spettacolo insensato — la Stampa che esige di sapere e di vedere per Informare e la Legge che pretende di vietare e di imporre per Tutelare.

Tutto si concluse in fretta, non appena i carabinieri riuscirono ad infilare la Borghi nel furgone, andandosene con grande spreco di sirene.

Ci unimmo al gruppo che ora circondava con più calma l’avvocato della donna per cogliere qualche dichiarazione, scontata ma utile per completare con una battuta il resoconto del processo. Il difensore non riusciva a celare, sotto la contrizione d’obbligo, il compiacimento per il risultato raggiunto e per l’interesse della stampa. Scuoteva professionalmente la testa: aveva fatto il possibile, lo sconto di pena ottenuto era il massimo (trovò modo di ripeterlo tre volte) per quel delitto, del resto confesso. In futuro, con la buona condotta…

Un minuto dopo il piazzale era deserto e io stavo nel bar di fronte a girare il cucchiaino nel caffè e a guardare, attraverso i vetri, il punto in cui poco prima si accalcavano in tanti.

Riflettevo sull’elasticità atletica di quel Gatti. Era riuscito a sollevarsi di un bel tratto sugli altri, lui più piccolo di tutti e con quel peso di apparecchi, di batteria e di flash, che lo tirava giù verso il centro della Terra. Notai che sul piazzale non c’erano né scalini né paracarri né altro minimo sopralzo che potesse funzionare da pedana, per fargli spiccare quel breve ma efficacissimo volo. Era da escludersi che egli si fosse potuto arrampicare sulle spalle di un collega o di un carabiniere. Quelli, pompati com’erano d’adrenalina, l’avrebbero sbattuto giù in un attimo. Il Gatti aveva sbagliato mestiere: il salto in alto era la sua specialità.

Vidi l’indomani che egli aveva eternato, in esclusiva, una bellissima smorfia della Borghi. Smorfia contingente, dovuta all’esagitazione del momento, ma che assurgeva a simbolo universale di crudeltà assassina.

Lo scatto aveva preso un po’ dall’alto il viso della condannata. Le sue mani serrate a nasconderlo s’erano dovute allentare per un istante nella frenesia della zuffa. Chi stava in basso non aveva colto quell’unico momento propizio. Il Gatti invece, sollevato su tutti, s’era insinuato con il suo implacabile obiettivo nella precaria barriera delle dita ed era riuscito a fermare nell’attimo giusto la maschera dell’assassina e la sua bocca contratta. La ripresa di scorcio ne aumentava l’efficacia e la drammaticità. Un’immagine perfetta.

Non incontrai di più il fotografo atleta per molti anni. A dire quanti, basta considerare com’è cambiata nel frattempo la tecnica fotografica: oggi un piccolo e leggerissimo apparecchio tascabile basta e avanza per tutte le esigenze della cronaca. E io non faccio più da tanto tempo il cronista, o il giornalista di qualche altra specie, se ce n’è, ma sono entrato in un ramo che ha pur sempre a che fare con le disgrazie umane: l’assicurazione.

M’avevano mandato a lavorare in provincia dove m’ero fatto le ossa, fino a diventare ispettore assicurativo. E da poco ero tornato nella metropoli. Non una gran carriera, la mia, però i miei capi si fidano di me. Sanno che per le sciagure grosse (forse per il mio passato di cronista), sono il funzionario più affidabile, quello che arriva sempre sul posto tempestivamente e presenta poi con sollecitudine una relazione minuziosa e sicura sull’accaduto. E’ a botta calda, difatti, prima che i “tecnici” riescano a confondere le carte, che si riesce a capire meglio se c’è sotto qualche trucco, se qualcuno ha combinato un imbroglio.

Gli incendi chiamano immancabilmente gli assicuratori. E i fotografi. Interi isolati stavano bruciando nella zona industriale. Soffiava dal mare un vento di maestrale e le fiamme minacciavano un deposito di carburanti. Ero corso tra i primi sul posto. E lì ho rivisto il Gatti.

Avevo aggirato un grande stabile occupato da uffici, tra i più colpiti dal fuoco, e osservavo la facciata posteriore. L’esperienza mi ha insegnato che il rovescio è sempre la parte più interessante delle cose, dove è più facile scoprire la magagna. Un fumo denso usciva da molte finestre e da qualcuna spuntavano già lingue rossastre. Non c’era nessuno perché tutti i pompieri, circondati dagli inevitabili curiosi, si accanivano a contrastare l’incendio sul lato principale. Sentii rumori di vetri infranti e una figura femminile comparve ad una finestra del terzo piano, tossendo e urlando. La scarsa luce dell’ora – era il tramonto – e il riverbero delle fiamme mi impedivano di distinguere chiaramente, ma sembrava una giovane donna rimasta bloccata lassù in una stanza sul retro.

Mentre mi giravo per correre verso l’altro lato a chiedere aiuto, intravidi l’ombra d’un uomo salire rapidamente lungo la facciata e arrestarsi all’altezza della finestra da cui si sporgeva la poveretta. La giovane tendeva le braccia al soccorritore, che scorgevo di schiena. Ma questi, che la poteva quasi toccare, sembrava occuparsi d’altro. Teneva i gomiti sollevati e manovrava qualcosa davanti al proprio viso. Lampi bluastri mi fecero capire che stava semplicemente fotografando.

Mi accostai di qualche passo e, con voce strozzata dall’irritazione, invocai: “Ehi, lassù, che sta facendo? Salvi quella disgraziata!”. Quel bastardo non si degnò nemmeno di voltarsi in giù verso di me. Fece un altro paio di foto e, rapido com’era salito, ridiscese. Solo quando fu a terra mi guardò. E riconobbi il Gatti.

Mi gridò: “Chiami qualcuno, c’è una donna là al terzo piano”, poi andò verso la sua vespa, salì e filò via verso un altro edificio in fiamme. Cercai la scala di cui si era evidentemente servito quel maledetto, ma non trovai niente. Sulla parete non vedevo appigli, la ragazza continuava a tossire e a invocare aiuto, e io non ero uno scalatore. Scorsi qualcuno che stava sull’angolo del lato principale, richiamai la sua attenzione, vennero uomini solleciti ed efficienti. Poco dopo la giovane era a terra, svenuta ma salva.

Come aveva fatto il Gatti a salire fino all’altezza del terzo piano e a ridiscendere in un attimo? E perché non aveva soccorso la donna in pericolo, limitandosi a fotografarla, con un cinismo che, a dir poco, mi scandalizzava?

Indignato lasciai perdere l’incendio e corsi alla mia auto: volevo raggiungere e redarguire come si doveva quel fotografo sciacallo, quel paparazzo.

Nuovi flash lampeggiarono di lato ad un altro edificio in fiamme. Mi avvicinai e la scena si ripeté uguale: qualcuno invocava aiuto (stavolta era un uomo), il Gatti saliva con stupefacente agilità lungo la parete, fotografava da presso la vittima urlante, ridiscendeva altrettanto rapidamente, montava in vespa, cercava un soccorritore, gli segnalava il pericolante e se ne andava.

Faticai ad inseguirlo in macchina. Sfrecciava abilmente tra le automobili e dovetti bruciare più d’un semaforo per tenergli dietro. Entrò nella città vecchia e temetti di perderlo nel meandro dei vicoli. Ma alla fine scorsi la vespa posteggiata davanti ad una porta con l’insegna: “Saverio Gatti – Fotografo”.

Suonai e mi venne ad aprire una giovane col grembiule. Dissi che ero un vecchio cronista e che volevo salutare il collega. “Entri, mio padre è di sopra” sorrise.

Il Gatti stava riponendo gli strumenti. In fondo alla stanza un segnale luminoso ad una porta diceva che di là si stavano sviluppando i negativi del suo sciacallaggio.

Era un po’ ingrassato e ingrigito, ma l’esercizio lo aveva mantenuto agile come un tempo. Non poteva ricordarsi di me dopo tanti anni, dissi celando per il momento lo sdegno che ancora mi occupava. Avevo presto smesso di fare il giornalista. Rivederlo sul luogo dell’incendio e riconoscerlo, dai tempi del mio breve passato di cronista, era stato tutt’uno. Volevo complimentarmi. Allungai la mano. Me la strinse con un mezzo sorriso dicendo: “Ah, allora è lei che si è occupato della ragazza.” “Certo” risposi “l’hanno salvata. Spero che dopo abbiano soccorso in tempo anche l’uomo.” E subito proseguii, sempre con cordialità e passando al tu: “Ho visto che non hai perso la grinta d’una volta. Anzi, posso dire che per te la pietà è morta. Fotografi e te ne vai, infischiandotene se il soggetto brucia come un cerino. Bravo, complimenti.”

Vidi l’espressione di circostanza gelarsi sulla sua faccia. Ritirò la mano e corrugò la fronte, mentre mi osservava meglio, con improvvisa diffidenza. Era evidentemente sconcertato dal contrasto fra il mio tono cordiale e la durezza delle cose che dicevo. E così mi venne di fargli subito le due domande che mi premevano: come facesse a salire e scendere tanto facilmente lungo la parete di una casa, senza scale e senza appigli, e come gliene importasse così poco di quei poveretti che fotografava, e se ne andasse senza soccorrerli.

Non era vero che non li soccorreva, ribatté prontamente il Gatti, passando subito alla seconda domanda, con l’aria di rispondere più a se stesso che a me. Il suo mezzo sorriso gli era rimasto sulle labbra, ma ora sembrava avesse un altro significato, che mi sfuggiva. Non era vero che se ne infischiasse: prima di andarsene chiamava sempre qualcuno. Lì sull’incendio, per la ragazza, si era rivolto a me, a me aveva chiesto di cercare aiuto. E per l’uomo aveva richiamato l’attenzione di un pompiere. Perché poi non li soccorresse subito lui stesso, era un’altra questione, riguardava esclusivamente i suoi affari privati, non vedeva perché dovesse dare una spiegazione a me.

Ma io volevo una risposta anche alla prima domanda. E cambiai tattica. Alzai le mani in segno di pace e gli strinsi amichevolmente una spalla. Mi aveva frainteso. Il mio non voleva essere un interrogatorio, era una semplice curiosità. Sì, avevo notato benissimo che, dopo aver fotografato e prima di andarsene, si era assicurato che qualcuno provvedesse. La donna, infatti, era stata salvata e probabilmente anche l’uomo. Ma a me non interessava perché non li avesse soccorsi lui. Non era suo compito, dopo tutto. La cosa che mi aveva veramente impressionato e incuriosito era la sua agilità, nonostante non fosse più un giovanotto. Come si fosse arrampicato e come poi fosse sceso in un attimo: questo mi aveva lasciato di sasso. Ero rimasto colpito fin dalla prima volta che l’avevo visto al lavoro, al processo Borghi, tanti anni prima. Avevo ancora in mente la bellissima fotografia che era riuscito a scattare di quella donna. Si ricordava?

Se ne ricordava, eccome. Stette un momento in silenzio a guardarmi e capii che ero riuscito a lusingarlo. “Vieni, ti mostro le foto di oggi.” Mi guidò verso la camera oscura. La sua diffidenza sembrava caduta. Bussò e di là dissero che si poteva entrare. Nella luce della lampada rossa erano al lavoro la giovane che mi aveva aperto e un piccoletto che assomigliava spaccato al fotografo.

“Questi sono i miei figli” presentò il Gatti “qui è tutto in famiglia. E questo” proseguì indicando me “è un vecchio collega di tanti anni fa. Quando tu non eri ancora nato” disse rivolto al maschio.

I ragazzi avevano sviluppato i negativi e li stavano asciugando. Il Gatti prese una pellicola, la osservò controluce e la infilò nell’ingranditore. Scelse un fotogramma.

Poco dopo, nella bacinella, vidi comparire in un classico bianco e nero il volto terrorizzato della giovane fermata dallo scatto mentre gridava aiuto. Dietro, si intravedevano vicinissime le fiamme. Una fotografia assolutamente drammatica.

“Una foto così non riesce a farla nessuno” mormorò con orgoglio il Gatti. “Dico una foto autentica, non un trucco, che oggi è facile per chi ne sa un po’ di computer e non ha i minuti contati. E me la pagano bene. E serve anche a far vedere come vanno certe cose…”

“Immagino” risposi “e non ti sono mai capitati …incidenti? Non a te ma, insomma, a qualcuno che ci sia rimasto?”

“Vuoi dire se è morto qualcuno? Certo che ne muoiono, ogni giorno. Ma non per colpa mia” continuò guardandomi fisso negli occhi “nessuno, mai. Incendi, terremoti, disgrazie, incidenti. Delle persone che io ho fotografato vive, mai, nessuna.” Si fermò un attimo. “Si, qualcuno è poi morto all’ospedale per le ferite, ma io…”. Alzò le spalle, come a significare che non poteva farci niente. Rifletté ancora. “Uno sì, una volta. Uno che si era arrampicato su un cornicione per suicidarsi. E poi ha finito per farlo. L’ho preso proprio mentre si buttava giù… preso con la macchina fotografica, s’intende. Ma non è stata colpa mia. Erano in tanti lì affacciati per cercare di salvarlo. Di me che lo stavo fotografando non si era nemmeno accorto. E neppure gli altri: stavo nascosto dietro una sporgenza del tetto. Nessuno ha capito come diavolo fossi riuscito a scattare quella foto. E io non l’ho detto a nessuno.” Fece una pausa. “Li ho sempre aiutati a cavarsela. Dopo che avevo fotografato, è chiaro. Loro lo sanno” aggiunse accennando ai figli. “D’altra parte è il mio mestiere. Non sarò Bob Capa, ma cerco sempre che le mie fotografie servano a dire anche qualcos’altro: come va il mondo, le sofferenze, le finzioni…E qualche volta ci riesco. Non sono certo l’unico, anche altri lo fanno. Senza essere Capa.” Mi guardò di nuovo fisso. “Solo che io scatto stando un po’ più in alto degli altri…”

Per quest’ultima frase il Gatti si era riservato una punta di furbo compiacimento, e i due ragazzi che stavano a sentire ebbero uno sbotto di riso, subito trattenuto.

Quella era evidentemente la sua esclusiva. Si fermò lì e mi guardò con una strana aria, un po’ canzonatoria, come di uno che abbia escogitato un sistema semplice ed efficace per lavorare meglio della concorrenza, e si guardi bene dal divulgarne il segreto.

“E come fai? A me non lo puoi dire? Non sono più un giornalista.”

“Questo non possono proprio dirtelo” rispose tranquillamente. Alzai una mano. Basta. I segreti del mestiere vanno rispettati.

Chiacchierammo ancora un po’, mentre i figli trafficavano con le macchinette elettroniche per trasmettere alle redazioni le immagini dell’incendio. Mi offrì un caffè e mi mostrò le sue più belle fotografie (parecchie le conoscevo già dai giornali). Era vero che dietro molte di esse si indovinava una denuncia: imprudenze, trascuratezze, incoscienze criminali… Mentre le sfogliavo mi chiedevo se, in fondo, tutte le foto di cronaca nera non nascondessero le stesse colpe, i mali dell’umanità.

Parlammo delle nostre professioni. Nemmeno la sua era stata una grande carriera. Guadagnava bene, era stimatissimo e richiestissimo, ma tutto era fondato sul suo lavoro personale. Un artigiano di talento, pensai.

Gli chiesi perché non aprisse un’agenzia. Ormai non era più giovane. Poteva passare la mano ai figli, a gente fidata, insegnandogli il suo metodo segreto. Avrebbe potuto almeno raddoppiare il lavoro, e tutto sarebbe rimasto in famiglia. Scosse la testa recisamente. Non era possibile. Il suo non era un metodo che si potesse insegnare, disse. Stavo per giudicarlo un presuntuoso, ma egli aggiunse : “Il mio non è un sistema trasmissibile, purtroppo.” Ci salutammo con la promessa di rincontrarci.

Tornando a casa, riflettei sulla sua ultima frase. Che cosa mai non poteva essere insegnato e trasmesso di una tecnica di ripresa fotografica, tanto da doversene rammaricare? Cosa differenziava il suo metodo da quello degli altri fotoreporter? Non certo le qualità innate, difficili da definire, che fanno di un fotografo un grande artista, un innovatore, e che si riconoscono subito, semplicemente guardandone le immagini. Il Gatti era bravo, senza alcun dubbio, ma non un “genio dell’obiettivo”, come si usa dire. E lo sapeva. Con la sua frase aveva inteso qualcos’altro, e mi sorpresi a volerlo scoprire. La mia non era più una semplice curiosità, ma il desiderio, anzi il gusto di vederci chiaro, di andare fino in fondo. La stessa determinazione che mi guidava nel mio mestiere di ispettore assicurativo, insomma una deformazione professionale.

Decisi così di seguire il Gatti nelle sue imprese. Non era difficile arrivare tempestivamente accanto a lui sul luogo dei fatti: mi bastava allargare appena la rete dei soliti canali di informazione di cui mi servivo per il mio lavoro. La difficoltà era un’altra: indovinare quali avvenimenti potessero interessare il mio fotografo per mettere a frutto la sua particolare e misteriosa tecnica. Avevo bisogno di un po’ di tempo. Chiesi una settimana di ferie.

Cercai un antico collega di redazione ancora in servizio e gli raccontai che, per testare una certa nostra ricerca sulle assicurazioni, avrei dovuto seguire per qualche tempo la cronaca nera più grave: sinistri stradali, sciagure, delitti, processi, eventi strani, cose del genere. Lui poteva darmi una mano: avrei saputo ricompensarlo. Poi mi sedetti accanto al telefono con un pacco di giornali, la radio, la televisione e il cellulare accesi. E aspettai.

Accorsi a terribili incidenti automobilistici, assistetti a scene raccapriccianti, estrazione di corpi da lamiere contorte, strazianti riconoscimenti, ma il Gatti non c’era. Un incendio con molto fumo e gran clamore di sirene si risolse senza troppe conseguenze disastrose, e senza il Gatti. Seguii, più per scrupolo che per altro, le ultime udienze di un processo a un tale che aveva ammazzato tre persone perché gli ingiungevano di abbassare il volume della tv. Il dibattimento si rivelò noioso, una sequela di perizie per stabilire se l’imputato era pazzo o no. C’erano tutti: la televisione, naturalmente, la radio, i fotografi, i cronisti e i corsivisti specializzati nei commenti di costume, ma il Gatti non si vide.

I fatti di cronaca più clamorosi della settimana me li sorbii tutti, ma invano. Chiesi a qualcuno dei fotografi se per caso il Gatti non fosse ammalato. Mi dissero che l’avevano visto, proprio il giorno prima, scendere da una gru dopo che un vecchio palazzo pericolante era stato fatto saltare con l’esplosivo. Avevo letto l’annuncio dell’operazione: non mi era venuto in mente, purtroppo, di cercare là il mio uomo.

Era ormai domenica e le ferie finite. Avrei dovuto rinunciare alle mie indagini. I quotidiani portavano in evidenza le fotografie del palazzo che si abbatteva in una nuvola di polvere. Una mi attirò subito: il punto di vista scelto per lo scatto esaltava al massimo l’aspetto catastrofico del crollo, meglio delle riprese dall’elicottero. L’immagine inconfondibile era firmata: “foto S. Gatti”.

Nel pomeriggio mi rimisi a sfogliare sconsolatamente i giornali. La radio trasmetteva un notiziario provinciale e diceva che un tizio, un uomo noto per le sue bizzarrie, in un paesino sperso sulle colline, da qualche ora s’era arrampicato su un albero altissimo e rimaneva lassù appollaiato per protestare contro una multa che riteneva ingiusta. Non voleva più scendere finché non gliela toglievano. Si era mosso anche il sindaco per esortarlo a desistere, senza successo. Quella era forse una notizia che poteva attirare il Gatti. Guardai l’orologio. In un’oretta avrei potuto essere sul posto. Montai in macchina e partii di corsa.

Arrivai al tramonto. L’arrampicato, che non doveva avere tutte le sinapsi in funzione, si era scelto per la sua protesta una quercia enorme, ai margini di un lieve pendio erboso. Uno sbarramento e un cartello con la scritta pericolo facevano capire che il terreno era cedevole. Ad ogni pioggia, evidentemente, una fetta di prato franava in uno scoscendimento, un vero precipizio in fondo al quale, cento metri più sotto, scorreva un torrente. Sporgendosi, si potevano vedere le radici dell’albero in parte già scoperte e protese nel vuoto. Qualche altro giorno piovoso e anche la quercia sarebbe rovinata giù nel baratro.

La scelta del protestatore non era sbagliata. Mancava infatti ai piedi della grande pianta uno spazio sicuro dove appoggiare senza rischio una lunga scala per raggiungerlo. Sull’erba giacevano sparsi resti di picnic, bottiglie, barattoli di coca-cola, carte unte. Ma non c’era più nessuno. Evidentemente intere famiglie di curiosi erano salite a trascorrere sul prato qualche ora domenicale, attirate dalla notizia del matto arrampicato lassù.

L’uomo sulla quercia stava parlando da solo. Scrutai in alto e lo scorsi, le braccia aggrappate al tronco e i piedi appoggiati a due rami. Proclamava stralunato le sue ragioni (che non apparivano poi tanto stralunate), guardando davanti a sé, come se parlasse al sole che calava. Staccò a un certo punto un braccio dall’albero e lo avanzò a perorare con più calore la sua causa. Mi parve che si stesse rivolgendo non all’orizzonte, ma a qualcuno di fronte a lui, che lo stesse ascoltando. Guardai meglio. E vidi il Gatti.

Non sembrava appeso alla quercia, ma galleggiare nell’aria, all’altezza esatta dell’uomo. Per l’abbaglio del sole al tramonto o per il fogliame, non vedevo come si fosse assicurato all’albero per non cadere. Appariva sospeso nel vuoto sul precipizio, tanto che potevo distinguere chiaramente le suole delle sue scarpe. Era perfettamente a suo agio: stringeva davanti a sé la macchina fotografica e osservava il matto in faccia senza parlare. Mirò e scattò. Lo vidi sollevarsi di un poco e scattare ancora. Era intento, come trasognato, indifferente alle parole dello strano tipo che gli stava innanzi e che continuava a sproloquiare. Fotografò nuovamente, stavolta col flash.

“Gatti, ma che fai lassù?” mi venne l’impulso di esclamare. Dovette udirmi, perché lo vidi riscuotersi, guardare verso di me e subito dopo traballare nel vuoto e agitare le braccia, come se stesse perdendo l’equilibrio. L’apparecchio gli sfuggì di mano e penzolò giù, trattenuto al collo dalla cinghia. Il fotografo si aggrappò ai rami sporgenti, ma sentii rumore di legni che si spezzavano. Stava cadendo.

“Attento!” gridai, ma in un attimo era già davanti a me che precipitava. Mi sporsi istintivamente, appena in tempo per afferrargli il giubbotto di nailon. Il suo corpo ruotò attorno al punto della presa, rovesciandosi, mentre io scivolavo sull’erba stringendo freneticamente tra le mani il tessuto sfuggevole. Riuscii non so come a serrare le braccia attorno ai suoi fianchi. Arcuò la schiena e poté aggrapparsi a me, a denti stretti, senza una parola. Con uno sforzo disperato potei tirarlo su, prima sul terriccio friabile del bordo e poi, un poco alla volta, sul prato, al sicuro. Giacemmo sull’erba, ansimanti.

“Mi hai salvato…Grazie…Ma che ci fai tu, qui?” mormorò il Gatti girando la testa verso di me, non appena poté riprendersi. Era pallidissimo.

“Volevi forse che ti lasciassi andare? Per fortuna sono venuto su anch’io.”

“Quando mi hai chiamato…” mormorò coprendosi il viso con le mani, “…sentire ´Gatti´ e cadere è stata una sola cosa.” Allargò le braccia, stupefatto, trasognato.

Mi sollevai a guardarlo. Mi rimproverava, anche. “Ti ho chiamato come ho fatto all’incendio, quando ti ho visto là in alto fotografare la ragazza che ti chiedeva aiuto. E allora tu non eri caduto. Si vede che stavolta non ti sei legato bene.”

“Io…io non ti avevo sentito, all’incendio…”.Sembrava sincero. Fece una pausa. “Vedi, io…” Pareva indeciso se proseguire o no. “Ma sì, te lo devo dire:…io non mi lego affatto. Sto semplicemente sollevato in aria. E quando sto lì non avverto più niente, fotografo e basta. Stavolta però ho sentito gridare ´Gatti´… e sono caduto.”

E’ vero, ricordai, all’incendio non l’avevo chiamato per nome. Era solo un’ombra arrampicata su un muro, prima che lo riconoscessi. E mentre pensavo così, mi resi conto di quello che, dopo, aveva incredibilmente aggiunto: “Sollevato in aria?”, esclamai mettendomi a sedere, “ma cosa mi stai raccontando?”

“In aria, sì, in aria”, rispose ora con impazienza, come se le sue parole non richiedessero altri chiarimenti. Si mise a sua volta seduto, mi guardò un momento, poi disse d’un fiato: “Insomma, io quando fotografo mi sollevo in aria, ecco.”

“Cosa?”

“Sì, mi sollevo, mi sollevo, devo cantartelo?” quasi gridò.

“Vuoi dire che quando fotografi ti alzi da terra?” Ero trasecolato.

“Sì, mi alzo da terra, quando mi serve.”

“Ma com’è possibile? Come fai?”

“Eh, non lo so…Mi viene spontaneo. Succede e basta.”

Le prime volte, tanti anni prima, addirittura non se n’era accorto. Poi, guardando le fotografie, aveva capito. “Nemmeno ora avverto quello che mi sta capitando. A un certo punto, se occorre, mi alzo. Non provo nessuna sensazione speciale. Vedo tutto chiaro, chiarissimo, ma nelle orecchie non sento più niente, nessun rumore, come fossi diventato sordo. Come un film muto. Quando l’ho detto a mia moglie si è preoccupata. Voleva che andassi dal dottore.”

Stranamente, gli succedeva solo quando aveva in mano la macchina fotografica. Se davanti a lui c’era un ostacolo che gli impediva di fotografare come voleva, si alzava. Doveva superare l’ostacolo. E si sollevava in aria.

Mi venne in mente di aver letto qualcosa su casi del genere, in una vecchia agiografia: “Ma ti rendi conto che stai parlando di levitazione?”

“Levi…che?”

“Levitazione, Gatti, sollevarsi, stare in aria da solo! Guarda che è un fenomeno straordinario. Tu sfuggi alla gravità! Niente sulla Terra ci riesce. O meglio, tu e gli astronauti. Ma quelli hanno sotto il sedere dei razzi spaventosi…”

Ero eccitatissimo. Il Gatti se ne avvide e subito si preoccupò. “Ora non andarlo a raccontare. Nessuno deve saperlo. Ti sembrerà strano ma nessuno se n’è mai accorto.”

Parlava come se la sua fosse una provvidenziale soluzione tecnica, accessibile chissà perché solo a lui. E che gli garantiva delle buone fotografie, facili da piazzare.

“Ma lo sai” lo interruppi “che ne parlerebbe tutto il mondo? Diventeresti celebre come quell’israeliano…come si chiama? Quello che piega le forchette.”

Mise avanti le mani preoccupatissimo, e scosse con determinazione la testa: “Per carità, sta zitto, non parlarne neanche per scherzo. Io non voglio nessuna pubblicità. Faccio il fotografo e basta.”

“Guarda che ti darebbero un sacco di soldi! Nemmeno ti immagini quanto.”

“No, io faccio il fotografo e mi basta quello che guadagno.”

Lo contemplai per un po’. Non sapevo se ero più stupito o ammirato. “Sei come i santi, quelli che si alzavano da terra e facevano i miracoli gratis. Come San Giuseppe da Copertino. Mi pare anzi che ce ne fosse uno che si chiamava Saverio come te…Ma sì, San Francesco Saverio.”

“Dici?” Il Gatti mi guardò sorpreso. “Ma senti! Mia mamma era devota di quel santo lì, aveva anche il ritratto sul comò in camera da letto. Mi ha messo il suo nome, era sicura che mi avrebbe protetto.”

“Vedi che sei quasi un santo anche tu? Fra un po’ comincerai a fare i miracoli…”

“Io non sono un santo, faccio il fotografo”.

“Ma potresti essere un fotografo ´sensitivo´, un medium…”

“Quelli che alzano i tavolini?”

“Quelli.”

“Per carità. Ho letto su una rivista che sono tutti bidonisti. Me l’ha detto anche un collega che ne ha fotografato qualcuno. E’ tutto un trucco. Ma io non faccio trucchi. E neanche cose poco belle.”

E così mi resi conto che il Gatti aveva un suo codice morale, una deontologia inflessibile. Ne fui stupito come dell’aver scoperto che sapeva sollevarsi in aria. Di più, quasi.

Stemmo sdraiati a parlare a lungo sul prato, mentre imbruniva.

Il matto, che aveva seguito la scena della caduta e del salvataggio, era sceso di qualche ramo ad osservarci. Visto che nessuno era precipitato e che stavamo lì a chiacchierare di fatti nostri, risalì in alto tra fruscii di foglie.

Un’altra singolarità che mi meravigliava, dissi, era che nessuno si fosse mai reso conto delle sue eccezionali prestazioni: colleghi, vigili, pompieri, feriti, gente che sta a guardare le disgrazie. Ma a pensarci, aggiunsi, nemmeno tanto singolare. Anch’io non l’avevo capito, pur avendo avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di strano nel suo modo di fotografare. Tutti vedono solo quello che si aspettano di vedere. Non un fotografo che vola.

“Per fortuna” disse il Gatti. “Te ne sei accorto, o quasi accorto, solo tu, in tanti anni. Bravo, hai l’occhio sveglio. E’ un peccato che tu non abbia continuato a fare il cronista. Meglio così, altrimenti mi avresti scoperto prima.”

Risposi che facevo un lavoro nel quale occorre essere altrettanto svegli. L’ispettore delle assicurazioni è come un cronista o un poliziotto, anzi di più, perché ci sono in ballo milioni. Molti milioni, ma che dicevo, miliardi.

Poi Gatti mi chiarì altri interrogativi. Quando si sollevava con la sua macchina, doveva pensare solo a riprendere, senza mai distrarsi. Una delle prime volte aveva guardato in giù ed era subito ricaduto a terra, fortunatamente da un paio di metri. A poco a poco aveva preso confidenza e s’era azzardato a salire sempre più in alto. Ora poteva arrivare persino all’altezza di quindici piani. S’era dovuto allenare ad una assoluta concentrazione sul soggetto da riprendere e ad ignorare tutto il resto che accadeva attorno a lui. Aveva imparato a controllare le proprie reazioni a ciò che percepiva con la coda dell’occhio e che non sentiva, per la strana assenza di rumori. Era molto difficile, specie nelle situazioni critiche in cui si trovava ad operare: incendi, incidenti, terremoti, dove un qualche movimento, un muro che crollasse, una persona che entrasse improvvisamente nel campo visivo, poteva significare un pericolo, o il rischio di essere scoperto. Finora gli era andata bene. E quel giorno aveva imparato da me un’altra cosa: non doveva essere chiamato per nome mentre stava in aria.

Quanto ai soggetti da fotografare, il Gatti si era autoimposto dei limiti ben precisi. Niente amori proibiti o incontri compromettenti rubati spiando personaggi celebri, boss della mala o uomini politici colti attraverso finestre vertiginose, ritenute inaccessibili a sguardi estranei; e niente segreti militari o industriali carpiti oltre muraglie considerate invalicabili. Capii che si serviva dello straordinario potere elargitoli chissà come e da chissà chi, solo per confrontarsi ogni volta con i colleghi meno privilegiati, non più che se disponesse di un talento speciale, ma naturale, di un ´occhio´ fotografico particolare con cui sfidare la concorrenza. Come se il dono della levitazione egli volesse continuare a doverselo meritare con un comportamento virtuoso, offrendo ogni volta un tributo d’umiltà all’ignoto elargitore, se non a Dio (mi parve di capire che il Gatti non fosse un credente particolarmente devoto).

Ma andava anche più in là. Preferiva fotografare personaggi e scene da cui emergesse una qualche denuncia sociale, un esempio di cattiva gestione pubblica, di comportamento deplorevole, colposo o addirittura criminale. Oppure episodi di coraggio, di dedizione disinteressata, o meraviglie della natura e della tecnica. Avrei scoperto più tardi, a vicenda conclusa, che il grave incendio, con la donna e l’uomo che urlavano, nascondeva un’ignobile speculazione.

S’era fatto tardi, era l’ora di tornare. “Dio Santo! La macchina fotografica!” esclamò il Gatti portandosi le mani al petto e al collo e balzando in piedi. Si precipitò a sporgersi sul baratro e io lo seguii: l’apparecchio non era caduto nel burrone e si distingueva ancora nella luce ormai incerta. Giaceva tranquillo su una sporgenza, con la cinghia impigliata in una radice, quasi a portata di braccio. Sarebbe bastata una breve discesa per recuperarlo.

 Il Gatti si levò il giubbotto, per usarlo come mezzo di sicurezza. Lui si sarebbe tenuto ad una manica mentre io avrei stretto l’altra con tutte le mie forze. Prese a scendere con cautela lungo la parete scoscesa e cedevole. Afferrò senza difficoltà l’apparecchio e lo trasse a sé, ma la cinghia era trattenuta dalla radice. Tirò prudentemente. La radice cedette all’improvviso. Il Gatti perse l’equilibrio, un sasso gli franò sotto una scarpa, la manica gli scivolò di mano. Cadde nel vuoto senza un grido.

“Lèvita! Lèvita!” gli gridai disperatamente. Ma non c’era niente da fotografare e da levitare.

Vidi il corpo precipitare giù, rimbalzare contro una roccia sporgente, sparire nel nulla. Dopo qualche attimo eterno, udii un debole, orribile tonfo.

Ci vollero ore per recuperarlo, alle luci dei fari. La macchina fotografica non era caduta con lui fino in fondo: la trovarono impigliata in un arbusto, e non s’era aperta. L’uomo sull’albero era intanto sceso. Ammutolito, allungava il collo a scrutare nel precipizio, illuminato come un palcoscenico. Riferii ai carabinieri tutto quello che sapevo, tranne la faccenda della levitazione, naturalmente, che non è prevista dalla Legge.

Dopo il funerale, i figli svilupparono la pellicola e stamparono le fotografie. La ragazza si teneva il fazzoletto sul viso per evitare che le lacrime cadessero sulla carta sensibile. Nell’ultimo fotogramma era centrata la cima dell’albero, sullo sfondo del cielo. Si vedeva l’uomo con un braccio aggrappato al tronco e l’altro proteso in avanti. Guardava verso l’obiettivo, la bocca spalancata a gridare le proprie ragioni. La sua espressione sembrava significare che non era matto, ma solo vittima di un’ingiustizia. I suoi occhi ora guardavano noi, che guardavamo con il cuore stretto il risultato dell’ultima levitazione del Gatti. Un’altra immagine eccezionale, un’esclusiva perfetta.