Storie

Altre Storie – Su niente, gratis
Indagini incrociate su niente, gratis

I passi nel corridoio erano rapidi e leggeri, quasi un fruscio. E io, che di passi me ne intendo, decisi che quelli non erano di donna ma di bambina. Così, quando li sentii fermarsi davanti alla porta dei Cinque Sensi – Agenzia Investigazioni (la mia porta) e il cicalino ronzò brevemente, pensai alla solita zingarella in cerca di monete e di occasioni per rubacchiare negli uffici che si apprestavano a concludere un’altra giornata di lavoro.

Mentre premevo il pulsante, radunai sulla scrivania un po’ di spiccioli. La porta cigolò e comparve una splendida signora vestita di nero col cappello dalle ali enormi, sotto le quali si intravedeva una chioma corvina ordinatamente trattenuta.

Mi ero sbagliato, e dovetti restare a guardarla con la bocca aperta mentre avanzava sinuosamente con le sue lunghe gambe. Non diede segno di avvedersi della mia sorpresa e venne a sedersi davanti a me senza nemmeno un saluto e senza nessun rumore. Era grande e fascinosamente pallida, d’un pallore vedovile. Dalla finestra, l’ultimo sole di un tramonto settembrino disegnava con maestria bellissime ombre sulla sua formosa eleganza. Un profumo leggero, fresco come una brezza nuova, si diffuse nell’aria stantia e penetrò negli anfratti dei miei schedari.

In ritardo mi alzai confuso e tesi la mano oltre la scrivania. Me la prese in silenzio con la sua, guantata, e quasi non mi accorsi che me l’avesse stretta. Aprì una costosa borsa di pelle, cercò qualcosa senza trovarlo, sollevò incredibili occhi neri a guardarmi e si protese appena verso di me, movendo discretamente due dita a chiedere una sigaretta.

Perso a contemplarla compresi, ancora in ritardo, la muta domanda, ma in un attimo recuperai il tempo perduto e mi precipitai a offrirle tutto il mio stropicciato pacchetto e subito dopo l’accendino acceso. Fu allora che capii cosa significa aspirare con voluttà: pareva che quella fosse la sua prima sigaretta dopo secoli. Emise delicatamente il fumo e si accomodò sulla poltrona. Accavallò le gambe con sapienza.

La osservai mentre fingevo di riordinare la scrivania e facevo sparire gli spiccioli e i resti di uno spuntino pomeridiano. Donna di classe senza alcun dubbio, fin troppo per il mio ufficio, ma sotto la classe indovinavo curve e morbidezze che uno (o più) fortunati prescelti avevano già potuto scoprire e apprezzare. Se poi l’ultimo eletto dalla fortuna era il morto cui si potevano riferire le gramaglie e il pallore della signora, be’, aveva vissuto abbastanza e bene, e ora il suo posto era libero per qualcun altro: un po’ per uno in braccio alla mamma, diceva sempre mio padre.

Fin che riflettevo tra me e me il saggio proverbio e mi mettevo mentalmente in coda, il mestiere mi richiamò all’ordine: sentii che quella bellezza mi ricordava una donna che avevo già visto in fotografia o dal vero. Ma certo, era la moglie del Branzi, Arturo Branzi, l’antiquario di piazza Verdi, un mio vecchio cliente. Come non averla riconosciuta subito. Stavo evidentemente invecchiando. Per almeno tre settimane ero stato la sua ombra, un paio d’anni prima. Avrei dovuto scoprire se aveva un amante. O non l’aveva, o era troppo furba anche per i miei cinque sensi. Che ora, però, la percepivano in tutto il suo splendore.

“La signora Branzi, mi pare, Claudia Branzi.”

Annuì. “So che mi conosce. Mi ricordo di quando mi spiava.”

Allargai professionalmente le braccia, con una punta d’imbarazzo. “E ora dovrei controllare qualcuno per lei, suppongo” ribattei, calcando sul verbo. Sentirsi dare della spia non piace a noi che facciamo questo lavoro. E specialmente non piaceva a me, che cerco di farlo con un minimo di decenza.

“Mio marito è scomparso sei mesi fa” disse lei abbassando gli occhi, forse per non farmi vedere quanto restavano asciutti.

“Scomparso?…” Non capivo se avesse usato il consueto eufemismo per dire ‘morto’ o se fosse un modo per significarmi che era stato rapito o che si era volatilizzato. Non ricordavo di aver letto o sentito parlare di rapimenti o cose del genere. O era crepato o se l’era svignata.

“Morto, morto” precisò la signora. “O, almeno, io credo… credevo che fosse morto.”

“Credeva?”

“Sì, non è morto in casa o all’ospedale. È successo in Turchia, dov’era andato per i suoi… cosiddetti affari. Un incidente stradale. L’auto in un burrone. Era con una ragazza turca, una ballerina del ventre. Bruciati tutti e due. Sono andata laggiù, e sono tornata con l’urna delle ceneri. Però lui, ora, è ricomparso.”

“Ah!”

“Sì, mi perseguita continuamente.”

“La perseguita?”

“Non so come dirlo altrimenti. Succede soprattutto di notte. È un’ossessione.” Notò la mia espressione perplessa.

“Ma sì, da un mese…dopo che…” Non proseguì a specificare dopo che cosa. Sembrava a disagio. Non mi era chiaro se l’imbarazzo che mostrava fosse vero o finto. Mi venne chissà come il sospetto che il Branzi fosse ricomparso dopo che la vedova aveva cominciato a ‘prendere in braccio’ qualcun altro.

“Di giorno, passi. Sta lì fermo in piedi dietro di me come… come faceva lei, ma allora lei stava lontano e cercava di non farsi notare; lui invece fa di tutto perché io me ne accorga. Mi segue dovunque, persino in bagno. Di notte, poi… di notte mi fa proprio paura. E lui lo sa. Si diverte a spaventarmi. Fa il fantasma.”

“Il fantasma?”

“O è un fantasma, o fa finta di esserlo.”

“Ma lo vede lei sola?”

“Si, questo è il punto.” Ebbe un altro momento di incertezza, sembrava sincera, stavolta.

“Lo vede anche in questo momento? È qui?”

Scrutò in giro. “No, ora non c’è.  Va avanti da un mese… da quando ho un amico, una persona che… Bene, il mio amico non vede niente. Mio marito sta lì a capo del letto a guardarmi… e lui non lo vede. Poi Arturo mi insulta e cominciamo a litigare. Oltre alla paura, è una cosa estremamente imbarazzante. Anche perché il mio amico comincia a dubitare della mia salute mentale.”

“Capisco” dissi, nonostante non capissi niente, tranne che aveva, come facilmente da me previsto, un amante. Feci una pausa, durante la quale dibattei dentro di me la maledetta questione dell’etica professionale. Se il Branzi era morto, non c’erano problemi. Era un fantasma guardone, questo arrivavo a capirlo anch’io e a giustificarlo, anche. Ma se era vivo e tutta quella storia era una montatura della moglie o anche del mio cliente stesso, magari d’accordo con l’amico della ‘vedova’, la faccenda cambiava aspetto. Inutile, non ero capace di buttarmi la deontologia dietro le spalle.

“Mi dispiace, signora,” dissi (e mi dispiaceva veramente, giuro). “Mi dispiace, ma io non posso aiutarla, in queste circostanze. Se risultasse che suo marito è vivo, non potrei farmi assumere dalla moglie. E dato che esistono dubbi…”

“Ma è appunto per chiarire questi dubbi che io voglio assumerla!” Ora il tono era angosciato, l’espressione di preghiera, quelle lunghe ciglia sbattute e quella stupenda bocca implorante avrebbero smosso qualsiasi altro mio collega, ma non me, stupida torre che non crolla. Scossi il capo tristemente e mi sollevai in piedi con enorme fatica (non sai quanto sono triste, avrei voluto sussurrarle, diciamo per i tuoi occhi, e per i tuoi assegni, bellezza mia).

Mi guardò incredula: “Proprio non mi può aiutare?” domandò con aria lusingatrice. Feci di no, e intanto mi maledicevo. Stringeva ancora la sigaretta tra le dita. La brace era lì per raggiungere il filtro e le stava già bruciando il guanto. Pensai che tra un attimo l’avrei sentita gridare per la scottatura, ma non successe. Gettò il mozzicone nel posacenere e vidi chiaramente che nella pelle nera del guanto s’erano aperti due fori dagli orli fumanti, attraverso i quali si scorgeva il rosa delle dita. Si alzò. Senza salutarmi si volse e uscì.

Gran donna ma distratta, pensai, già pieno di rimpianti. Distrattissima, anzi: sulla poltrona era rimasta la borsa.

“Aspetti, signora, la sua borsa!” Corsi alla porta e guardai fuori nel corridoio lunghissimo. Era vuoto. Mi chiesi, un po’ sconcertato, come avesse potuto raggiungere l’ascensore in quei pochi istanti. Aveva gambe lunghe, elastiche, e i suoi passi, quand’era arrivata, li avevo sentiti rapidi, non però da Speedy Gonzalez. Non poteva aver allargato i compassi dei suoi bellissimi arti inferiori per percorrere in tre secondi venti metri. Ma ero troppo arrabbiato con me e con la mia inflessibilità per starci a pensare su. Ormai erano le sei. Un’altra giornata persa, senza il becco d’un cliente. E d’un quattrino.

L’idea del denaro e dei suoi vani simboli mi riportò alla borsa, che continuavo a tenere tra le mani. La esaminai, rigirandola. Borsa nuova, roba di lusso, griffata. Tanto nuova da avere ancora, annodato alla cinghia, il cordoncino della boutique, che si perdeva sotto il risvolto della chiusura. Lo tirai con un dito e scivolò fuori il cartoncino con il nome del negozio e il prezzo. Sufficiente per una settimana del mio lavoro. Sospirai.

Era mio dovere ispezionare l’oggetto smarrito, per cercarvi la conferma di un indirizzo, o il numero di un telefono, una traccia per la riconsegna, nell’evenienza che la signora non dividesse più il domicilio del fu Branzi Arturo. La borsa era vuota, completamente, come il corridoio. Guardai in tutti gli scomparti, di seta e di pelle. Niente. La infilai in un cassetto e me ne andai.

La mattina dopo era grigia e piovigginosa almeno quanto lo ero io, quando entrai in ufficio all’ora giusta per un secondo cicchetto e la terza sigaretta. E vidi, seduto nella poltrona, il Branzi.

“Ho trovato la porta aperta” disse cordialmente, anticipando la mia domanda. “Come sta?”

“Come sta lei… Non era morto in Turchia?” chiesi a mia volta, facendo tintinnare in mano eloquentemente le chiavi con cui avevo aperto la porta, chiusa con due mandate.

Agitò la mano con un gesto affettato da gay, ma non mi risultava che lo fosse. Frutto, probabilmente, delle sue lunghe e proficue frequentazioni antiquarie. Era piccolo, quasi un nano, grosso e viscido, più di quanto lo ricordassi, con una faccia da rospo scaltro e un’espressione prepotente. Non mi era mai piaciuto, più che altro una questione di pelle, credo. Ma non sta scritto in nessun regolamento che il cliente debba sempre affascinare. Notai che, contrariamente al solito, era vestito male, con un impermeabile sgualcito e macchiato, e il suo abito non era in condizioni migliori. Portava scarpe infangate.

“Turchia! Una storia troppo complicata da raccontare.”

“Mi piacciono le storie complicate.”

“Non questa,” tagliò corto. “Sono qui perché ho ancora bisogno di lei.”

“La famiglia Branzi ha un gran bisogno di me: ieri è stata qui sua moglie, e voleva la stessa cosa.”

“Mia moglie!” esclamò l’antiquario. “E stata qui?” La sua espressione era improvvisamente cambiata. Non capivo se era sorpreso o allarmato.

“Il nero dona molto alla sua signora. Lutto stretto, a quanto pare.”

“Ma quale lutto. Mia moglie è morta sei mesi fa!”

“Non mi dica.” Fingevo ironica indifferenza, ma ero io, stavolta, a sentirmi stupito e allarmato. “Ieri non mi è sembrata uno spettro. Direi anzi che era più bella e affascinante di quando la inseguivo per conto suo. Si è dimenticata la borsa.” La tirai fuori e la misi sulla scrivania.

La prese e la rigirò. “Mai vista.”

“Sfido, è nuova. Guardi, c’è ancora il cartellino col prezzo.”

La buttò sul tavolo alzando le spalle. “Mi sta tormentando da un mese.”

Ora il Branzi era chiaramente ansioso, angosciato. Si torceva le mani. “Mi compare davanti in casa all’improvviso, nei momenti meno opportuni. Ho una donna, capisce. Mi ossessiona. Le confesso che sono spaventato. Ora poi, che compare anche a lei, a quanto pare.”

“Posso sapere come… come sarebbe morta sua moglie?”

“Non ‘sarebbe’, è morta. Nell’aprile scorso. Ero in Turchia. L’ho saputo in albergo. Un fax dall’ufficio del mio legale, l’avvocato Negretti. Mia moglie aveva avuto un incidente stradale. Era in macchina proprio con l’avvocato. Sono caduti da un ponte dell’autostrada. Auto in fiamme, bruciati entrambi. L’avrà letto sui giornali.”

Mi ricordai di aver sentito mesi prima una notizia così alla televisione, in un bar, ma non avevo fatto attenzione ai nomi. Gli incidenti d’auto sono ormai pane quotidiano.

“Ma allora, chi è la donna che le fa queste visite?”

“È quello che vorrei sapere da lei.”

“È sicuro che sia sua moglie? Non è per caso qualcuna che le assomiglia?”

“E lei, è lei…” Pareva sicurissimo, ma subito ci ripensò. “Almeno, sembra assolutamente lei. Questo voglio sapere.”

“Bene. Comincio subito a occuparmene” dissi mentre tiravo fuori dal cassetto il blocco delle ricevute. Per la formalità dell’anticipo.

“Non ho con me il libretto degli assegni, ma in giornata provvedo. La solita cifra?”

“La solita.” Ero un po’ contrariato, e lo lasciai vedere. L’antiquario, comunque, era stato sempre una persona corretta, almeno con me.

“Ieri sua moglie, o la sua sosia, mi ha detto che è lei, Branzi, a perseguitarla da un mese, da quando si è trovata un amico che la consola.”

“Amico! Ma è Vincenti, il socio di quello che è bruciato con lei, l’avvocato Negretti. Se non è morta, si è consolata subito. Via un avvocato, sotto un altro. Quando due anni fa le ho dato l’incarico di spiarla per poterla incastrare, mi tradiva già da qualche mese, proprio col Negretti. Due maledetti furbi, che hanno preso in giro anche lei.”

“E dàgli con lo ‘spiare’. Io non spio, indago. Se lei mi avesse detto allora il nome dell’amante, visto che lo sapeva già, avrei potuto far meglio il mio lavoro di ‘spia’.” Calcai acidamente sulla parola che tanto mi bruciava. Ma tutta quella storia mi bruciava. O meglio, puzzava di bruciato. E ora più che mai, con tutti quei barbecue d’automobili uscite di strada e di sopravvissuti che ricompaiono.

“Lasciamo stare il passato, e si dia da fare.”

“Bene. Aspetto sue notizie” conclusi alludendo all’anticipo.

“Non dubiti, stasera. Al massimo domattina.”

“Meglio stasera. Forse potrò già dirle qualcosa. Sua moglie abita…” mi corressi, “le compare sempre a casa sua?”

Fece un gesto, come a dire ovviamente sì. Si alzò andandosene via con passi leggeri sulle sue gambette da brutto anatroccolo non destinato a diventare un cigno. E appena uscito mi avvidi che aveva dimenticato la borsa della moglie sulla scrivania. Andai alla porta per chiamarlo e consegnargliela, ma nel corridoio non c’era nessuno. Che rapidi questi Branzi, pensai. E che distratti. Poi riflettei: evidentemente, il mio cliente non poteva scoprirsi con la moglie restituendole la borsa lasciata da me. Stavo proprio invecchiando.

Mi misi subito all’opera. La prima cosa da fare era vederci chiaro su quegli incidenti stradali. Cominciai la mattina stessa, in biblioteca, dai giornali di aprile, sei mesi addietro. Trovai senza difficoltà le notizie. Poche righe per il Branzi. Un po’ più lungo l’articolo sulla moglie e l’avvocato. L’incidente in Turchia era avvenuto il 10 aprile, e i giornali da noi ne avevano parlato due giorni dopo, senza accenni alla ballerina morta con il mio cliente. Il sinistro in cui erano bruciati i corpi della Branzi e del Negretti era accaduto il 26, e la notizia era stata pubblicata il giorno successivo. Non si mancava di sottolineare la strana coincidenza tra le morti del marito e della moglie, a due settimane di distanza, in circostanze drammaticamente uguali. C’erano anche gli annunci funebri: la tragica fatalità; la vedova inconsolabile, i parenti affranti, gli amici tutti uniti nel lutto.

Andai a controllare anche i verbali della polizia e poi all’anagrafe: i coniugi Branzi e il Negretti risultavano ufficialmente deceduti. Le date corrispondevano. Le mie indagini incrociate non lasciavano dubbi. L’antiquario era stato riconosciuto in Turchia dalla moglie, e la moglie dalla sorella Luisa. Se non loro, qualcuno era certamente morto al loro posto. Sostituzione di persona? Bisognava sapere come provarlo. Trovare salme ‘compatibili’ poteva essere forse più facile in Turchia che da noi, ma io non ci credevo troppo. Insomma, pareva che fossero proprio morti tutti e tre. E il Negretti non era nemmeno tornato a smentire la sua dipartita, come si erano preoccupati di fare, almeno con me, i coniugi Branzi. Che non sembravano spettri, nel mio ufficio. Lei aveva stimolato le mie ghiandole, lui il mio senso di repulsione per le pelli viscide. Reazioni che, a parere di uno scettico di normale comprendonio quale ancora mi consideravo, solo esseri reali sanno suscitare.

Un momento. Mentre uscivo dall’anagrafe fui colto da un’illuminazione e mi fermai sulla porta, ingombrando il passaggio. L’antiquario era morto il 10 aprile, lei e l’amico il 26. Ma il Branzi mi aveva detto, quella mattina stessa, di aver saputo dell’atroce fine della moglie e dell’avvocato da un fax arrivatogli in Turchia. Un fax che gli sarebbe pervenuto, stando alle date, quindici giorni dopo che era bruciato lui. Questo non andava. Oltre all’anticipo, il mio cliente doveva darmi qualche spiegazione plausibile su quell’incongruenza cronologica. E io dovevo farmi vedere dal medico, perché il mio cervello andava a rilento, aveva bisogno di una seria revisione.

A questo punto, mi restavano solo due cose da fare: telefonare al negozio dell’antiquario e, se non rispondeva, fargli una visita a casa. Telefonai, e non rispose nessuno. Presi un taxi e gli diedi l’indirizzo, pregandolo di passare prima da piazza Verdi. Il negozio aveva le saracinesche abbassate. C’era ancora un cartello mezzo strappato, listato a lutto.

Un quarto d’ora dopo suonavo al pesante cancello del Branzi, nel quartiere più ricco e appartato della città. Era una palazzina circondata da un giardino, discretamente protetto da un’alta e ben curata siepe di pitosforo, dietro una massiccia cancellata. Un cartello ammoniva di stare attenti ai cani. Suonai e dopo un po’ sentii nel citofono una voce leziosa chiedere “sìì?” Dissi chi ero e il cancello scattò. “E per i cani?” chiesi. “I cani non ci sono più” fu la risposta, in linguaggio lezioso.

Il titolare di quelle smancerie intanto affacciò una faccia tonda al portone dalle maniglie lucidissime, verniciato con la vernice esclusiva delle case ricche. Era un tipetto molto sulle sue, con gli occhi stretti degli orientali e il panciotto a righe dei camerieri. Chiesi se c’era il Branzi. Spalancò gli occhi per quanto era consentito a un orientale e mi guardò con l’espressione di meraviglia con cui i camerieri checche cercano di imitare le padrone di casa.

“Il signol Blanzi è mancato sei mesi fa, signole.”

“Potrei parlare con la signora?”

Nuovo spalancamento orientale d’occhi. “È mancata anche lei, signole, pochi giolni dopo.”

“Se sono tutti morti, chi c’è ora in casa?”

“Ola in casa non c’è nessuno, signole. In questo momento ci sono solo io, che spolvelo e faccio oldine. E poi me ne vado.”

“E in un altro momento?”

“C’è la solella della signola, ma ola non c’è, è in Eulopa.” Mentre mi dava queste laconiche spiegazioni in ‘elle’, il cameriere aveva aperto un po’ il portone, tanto da permettermi di guardare dentro. E vidi in fondo, seduto sul primo gradino di uno scalone di marmo, il Branzi che mi faceva con la mano segno di entrare.

“Signor Branzi” dissi sopra la spalla della checca e facendo un passo avanti, “lei è morto o non è morto?”

Il cameriere si voltò a guardare ed evidentemente non vide nessuno perché subito mi sbarrò il passo, allarmato e impaurito.

“Signole, non faccia schelzi, lei non può entlale!”

“Non vede niente lì? Non lo vede, il signor Branzi, lì seduto sullo scalino?”

“Io non vedo niente. Se ne vada, pel favole.”

Mentre la checca spingeva il portone con le sue braccine magre, il Branzi alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. Poi mi fece segno che sarebbe venuto lui da me.

Tornai in ufficio e vi trovai l’antiquario seduto in poltrona. Aveva un’aria smarrita, stavolta.

“Come la mettiamo, signor Branzi. Lei mi ha detto di aver ricevuto un fax in Turchia. Quindici giorni dopo che era morto?”

Mi guardò con un’espressione incerta. “Non capisco cosa mi stia dicendo…” Sembrava che non fingesse. Appariva chiaramente sconcertato, come se si rendesse conto che qualcosa non quadrava, ma non sapesse cosa.

“Senta, io mi ricordo perfettamente di aver ricevuto un fax in Turchia, me l’hanno portato in camera, vedo ancora la faccia del fattorino dell’albergo, aveva un foruncolo sulla fronte. Com’è possibile?”

Lo guardai. Stavo pensando all’anticipo che avrebbe dovuto darmi. Volli metterlo alla prova: “Lei mi aveva promesso per stasera l’anticipo.” Guardai l’orologio, erano quasi le cinque. “Ha portato l’assegno?”

Sollevò gli occhi persi. “Ah, già, l’anticipo… Be’, non so come fare. Ho cercato in casa il libretto degli assegni… L’avrà preso mia moglie…”

“Sua moglie risulta morta, Branzi, quindici giorni dopo di lei.”

“E allora chi può averlo preso?”

“La sorella di sua moglie. Il cameriere mi ha detto che adesso è lei che abita in casa vostra e che in questo momento se la sta spassando in Europa. Con i suoi assegni, Branzi.”

La Luisa? Quella puttana?”

“Si chiama Luisa? Ebbene sì, proprio lei. Che sia puttana non lo so, ma è senz’altro lei.”

“Io non l’ho vista. Io vedo solo mia moglie, in casa, con il suo nuovo amico, quel gigolò di Vincenti.”

“Che non vede lei, scommetto.”

“Questo non lo so, e le dirò che non me ne importa niente. Non ci faccio caso, se mi vede o no. Sono troppo sconcertato e infuriato quando lo sorprendo nudo nel mio letto e lei davanti che gli fa lo spogliarello come se fosse viva. Quando entro, lei si gira e urla (evidentemente non si aspetta di vedermi ed è spaventata). Io urlo altrettanto nel vedere lei, perché sul primo momento anche lei mi spaventa. Succede tutte le volte, è più forte di me. Poi cominciamo a litigare. Una scena penosa. Di fronte all’amante.”

“Le ripeto che sua moglie è sembrata viva anche a me, quando è venuta qui a trovarmi. Per niente morta, le assicuro.”

L’antiquario scuoteva il capo. Non si capacitava.

Mi venne un sospetto. “La sorella, quella Luisa, assomiglia per caso a sua moglie?”

“In un certo senso, sì. È uguale a Claudia, ma in miniatura. E non è bruna, ma piuttosto sul biondo. Molto bella, se vogliamo, ma in scala ridotta, tascabile. L’unica cosa in cui si assomigliano perfettamente è che sono due puttane. Identiche.”

 “Forse è la Luisa che si è messa col Vincenti, e lei nell’agitazione del momento si confonde.”

“Senta, non cominci anche lei a dire sciocchezze. Pensa che non sappia distinguere una donna bruna e alta…” fece un gesto con le braccia e le mani, come si fa per dare l’idea di una femminilità prorompente “con due gambe lunghe un chilometro, da una bionda carina ma…” segnò con la mano vicino al pavimento a esagerare una statura bassa, “no, non mi faccia queste domande sceme, per favore.”

Pensai che ad un nano come lui la Luisa sarebbe andata meglio come scala, ma si sa che in fatto di scelte, specie in amore, domina la legge degli opposti. Qui il rospo non si sbagliava.

“Allora non so che dirle, Branzi, le conviene rassegnarsi. Lei è un fantasma, e sue moglie anche.” Mi alzai, per significare che il colloquio era finito.

Fece di sì, con riluttanza. Stette ancora un momento a pensarci su, poi si sollevò dalla poltrona e si avviò mogio alla porta. Si ricordò di qualcosa e tornò indietro. “Tenga, ecco le chiavi di casa mia, vada a vedere cosa succede di notte, se ne ha voglia.” Me le buttò sul tavolo. “La chiave piccola” aggiunse “è dell’allarme, nell’ingresso, a destra del portone. La infili e giri. Vedrà accendersi un pulsante rosso, lo prema e l’allarme sarà disinserito. Mi dispiace per il suo anticipo, ma…”

“Non ci badi. Incerti del mestiere.”

Allargò le braccia e sospirando se ne andò.

Sospirai anch’io. Fra tutti gli incerti che mi erano capitati, questo era indubbiamente il più incerto. In assoluto. Mi sedetti a riflettere. Io non mi fermo mai alla prima evidenza. Quel Branzi non me la raccontava giusta. Alzai il telefono e chiamai un vecchio collega di commissariato. Sull’antiquario avevano un fascicolo grosso così. Era stato un uomo ricchissimo ma la fonte principale dei suoi proventi non era il negozio di piazza Verdi. Quella era la facciata. In realtà pare che il suo vero lavoro fosse stato il traffico d’armi e, forse, di droga. Ma non erano mai emerse prove sufficienti per una incriminazione. In Turchia aveva avuto una rete di loschi amici. La ballerina che era morta con lui era l’amante di un boss mafioso locale. Forse era stata una vendetta, ma non c’erano riscontri oggettivi. Solo sospetti. Ma oramai era defunto, la pratica era chiusa. Anche la morte della moglie sembrava proprio un incidente. Perché mi interessavo ancora al Branzi? Sapevo forse qualcosa?

Spiegai che l’antiquario non mi aveva pagato l’ultimo lavoro per lui, cose di corna, ma che ormai ci dovevo mettere una pietra sopra. Spostando i tempi, era quasi vero.

Eliminato il Branzi, chiarito (per modo di dire) il suo mistero, restava la moglie. La moglie… Non per soldi, ma per una mia pura e semplice curiosità, professionale o meno che fosse, volevo vederci più chiaro anche su quella parte del mistero. In fondo, molto in fondo, mi spingeva anche la speranza, incerta come tutte le speranze, di farmi risarcire da lei per il tempo sprecato. Del resto, se aveva pagato la borsa, e profumatamente, poteva pagare anche me. Tirai fuori il lussuoso oggetto, lo avvolsi in un giornale e uscii.

La boutique la conoscevo di fama, tra le più alla moda e più care della città: La commessa che mi venne incontro aveva la gonna più corta che avessi visto nell’ultimo semestre. Le gambe non erano perfette ma, così esibite, non mancavano il loro effetto. Posai la borsa sul banco di cristallo. Il viso della ragazza si illuminò di sorpresa.

“È la borsa che ci hanno rubato!” esclamò . “C’è ancora il cartellino!”

“Quando è stato?” chiesi esibendo il mio tesserino di investigatore.

“Sarà un mese. Venne una signora, una bella donna alta, bruna, molto elegante. Cercava una borsa che andasse bene col suo vestito, era tutta in nero, sembrava in lutto. Scelse l’articolo più costoso, ma non sapeva come pagare: aveva dimenticato le carte di credito e il libretto degli assegni. Le dissi che potevo mandarle la borsa a casa ma lei si portò una mano alla fronte, come avesse un capogiro. Mi chiese un po’ d’acqua. Il tempo di andare in bagno e di tornare col bicchiere, ed era sparita insieme con la borsa. Posso riaverla?”

Ero più che mai perplesso. Forse anche il vestito nero e il cappello erano rubati. Ma come aveva potuto procurarseli? Entrando nuda in un negozio? Poi pensai alle chiavi di casa che mi aveva lasciato l’antiquario. Ero combattuto se andarci o no. Ma prima volevo qualche altro riscontro. Forse interrogando il Vincenti… Lo studio non era lontano. Cercai il numero e telefonai. Dissi che avevo necessità di comunicare all’avvocato notizie urgenti sui signori Branzi. Mi passarono subito il mio uomo.

“Sono un investigatore privato,” dissi “ è venuta da me la signora Branzi che voleva certe informazioni su suo marito. Per correttezza io non potevo dargliele, perché avevo avuto un incarico dello stesso tipo dal signor Branzi. Vorrei qualche chiarimento in proposito da lei.”

 “Guardi che lei si sbaglia. La signora Branzi era una cliente di questo studio, ma sfortunatamente è morta sei mesi fa.” disse tranquillo e cortese l’avvocato, con lo stesso tono che avrebbe usato per rifiutare l’acquisto a rate dell’Enciclopedia Britannica. Era troppo poco sorpreso, pensai, devo fargli sputare la verità.

“Strano. Ancora stamane suo marito, l’antiquario, mi diceva che lei in questo momento è l’amante della signora.”

Il silenzio che venne dal telefono mi confermò che avevo mirato giusto.

“Possiamo vederci da qualche parte?” chiese l’avvocato. Il tono della voce era completamente cambiato. Mi piaceva di più.

Mezz’ora dopo eravamo seduti in un caffè del centro. Il Vincenti era un bel giovanotto atletico, dall’eleganza naturale e piena di soldi. Un po’ troppo pallido, per la verità. In circostanze normali doveva anche essere una persona molto piacevole, e capii perché la signora Branzi, morta o viva che fosse, aveva deciso di prenderselo in braccio. Ma in quel momento era sulle difensive e non mi pareva un gran giocatore di poker. Avevamo ordinato due martini molto secchi e ce li avevano portati mentre ancora finivamo di presentarci.

“Lei vuole da me delle informazioni, ma sembra saperne più di quanto ne sappia io: lei dice delle cose molto strane.”

“Strane come il caso sul quale sto indagando.”

“Per conto di chi?”

“Per conto del signor Branzi, naturalmente” mentii.

“Ma è morto da sei mesi!”

“Non direi, visto che era nel mio ufficio non più tardi di due ore fa. Una delle tante cose strane di questa faccenda”.

“Ma è assurdo. C’è stato il funerale, con le ceneri, sono andato anch’io, c’era la moglie, c’era anche il mio socio, l’avvocato Negretti…”

“Ecco, appunto, l’avvocato Negretti. Non è morto anche lui, assieme alla signora Branzi, quindici giorni dopo, giù dal ponte dell’autostrada, bruciati entrambi come il marito?”

“È quello che stavo per dirle…”

“E allora perché ha accettato di vedermi?”

“Senta, non so come…” Ora sembrava imbarazzato. Restò un momento in silenzio, stava cercando le parole per proseguire. “ Un mese fa è venuta nel mio studio una donna che assomigliava in modo impressionante alla signora Branzi. Come fosse una gemella, una sorella…”

“Una sorella c’è, si chiama Luisa, ma sembra che non assomigli affatto alla signora Branzi.”

“Lo so benissimo. Ho conosciuto Luisa al funerale della sorella. Non è che non le assomigli. È uguale, ma…”

“Ma in scala diversa, in formato tascabile, me l’hanno già detto. E allora, questa ‘gemella’?”

“Be’, quella donna sosteneva di essere la moglie dell’antiquario. Guardi che la signora Branzi è morta, le ho obiettato io, morta assieme al mio socio, l’avvocato Negretti. Sono andato al loro funerale… Niente, sosteneva che era lei, viva. Era andata in Turchia a raccogliere le ceneri del marito, era tornata, l’aveva sepolto ed era subito ripartita per un lungo viaggio. Ora voleva conoscere le disposizioni del testamento, sapere dell’eredità…”

“Dunque era questo lo scopo della sua visita.”

“Esattamente. Le spiegai che il grosso del patrimonio era andato a sua sorella, a Luisa. Si mise a piangere. Be’, a vedere quella bellissima signora in lacrime…”

“Le è venuta la  voglia di consolarla” completai io.

Fece un gesto per dire che tutto era cominciato così. “Le assicuro che sembra proprio Claudia…la signora Branzi in carne e o…”

Stava per dire ‘ossa’ ma si fermò . “Vivissima” dissi, e l’avvocato fece un gran sì con la testa. Era preso fino ai capelli, il giovanotto.

“Lei l’ha vista, può capirmi…” Afferrò il bicchiere e trangugiò fino in fondo. Non doveva essere tutte rose e fiori, quella storia. Capivo tutto, anche perché fosse così pallido.

“Da allora ci vediamo tutte le sere, a casa sua…a casa dell’antiquario. E lì ogni sera c’è la stessa scena: siamo in camera da letto, lei comincia a spogliarsi davanti a me e io…io la guardo.” Da come lo disse, mi resi conto che non gli era possibile non guardarla. “A un certo punto lei si volta come se sentisse entrare qualcuno. E si mette a urlare dallo spavento. Poi comincia a litigare furiosamente contro l’aria. Insulti, rispostacce. Io non vedo niente e sto lì ad aspettare che il monologo finisca. Dopo un po’ sembra che l’intruso se ne vada. Lei scoppia a piangere e viene tra le mie braccia. Sostiene che è il marito a tormentarla, a dirle che è morta, che è una puttana morta. E lei stessa non sa più se è vero o no. Non sa nemmeno se quel Branzi che, secondo lei, le compare davanti, sia una persona vera o un fantasma. Il fatto che io le assicuri di non vederlo non è sufficiente a convincerla che è tutta un’allucinazione. Perché lei invece la vedo e la sento… e come! Con questo argomento finisco per rassicurarla. E facciamo l’amore. Caspita! Le assicuro che è viva, accidenti se è viva… Guardi, io mi sono convinto che è tutto un gioco, una fantasia erotica, una specie di rituale preliminare…”

“Ma non si è chiesto chi sia questa donna?”

“Le confesso che ho smesso di chiedermelo. Ho smesso dopo la prima sera. Non mi sono più preoccupato di andare a fondo. Anzi, le dirò che mi piace così…finché dura. Mi rendo conto che è diventata un’ossessione, ma per il momento sono preso completamente, con tutti i miei sensi. E non me ne importa più di tutto il resto. Aspetto solo che venga sera. Il mio lavoro comincia a risentirne, e non ho più l’aiuto, la guida di Negretti. Non so come andrà a finire…”

Il Vincenti era proprio partito per la tangente. Finché durava. In fondo, non era una filosofia sbagliata. Carpe diem. Con una donna vera, o con una bella fantasma che sembrasse viva, tutto poteva andare.

Cercando una sigaretta, sentii nella tasca le chiavi del Branzi.

“Vi vedete anche stasera?”

Annuì. “Alle undici.”

“Buon divertimento, comunque sia” gli dissi alzandomi. Lo lasciai che faceva segno al cameriere di portargli lo stesso ma doppio.

Fuori cominciava leggermente a piovere. Girai le chiavi nella mano e le soppesai. Era un modo per chiedermi se dovevo andarci o no. Decisi di andarci. Alle undici sarei stato anch’io della comitiva. Non da guardone, ma certamente da ‘occhio indiscreto’, come dicono di noi i libri. Forse, era l’unico modo per venire a capo della faccenda.

Andai una buona mezz’ora prima, per trovarmi il nascondiglio adatto. M’ero portato una torcia e, per il caso improbabile che servisse, la Beretta. La casa era buia come devono essere, di notte, le case. Soprattutto quelle vuote. Attraversai il giardino sull’erba per non far rumore, aprii il portone, trovai subito l’impianto d’allarme, inserii la chiave, spensi il pulsante rosso. Il fascio di luce della torcia percorse fantasmi di mobili ricoperti da teli bianchi. Era il prototipo della casa ricca e deserta. Lo scalone, su cui avevo visto seduto il Branzi, portava al piano delle stanze da letto. Salii, accompagnato dagli sguardi severissimi di una confraternita di antenati in cornici dorate, quanti ne può mettere assieme un conte palatino in venti generazioni e un antiquario in una vita di furberie. Guidato dallo stesso profumo che s’era sparso nel mio ufficio durante la visita della vedova, trovai subito la camera del signore e della signora. Un po’ lugubre, come stanza nuziale, anche per le coperte nere, sotto le quali indovinavo lenzuola dello stesso colore. Tutta una sinfonia di neri e di grigi, contrappuntati da un’infinità di specchi, che rilanciavano e moltiplicavano da parete a parete l’occhio abbagliante della torcia. Anche la porta del bagno era uno specchio e, dentro, il raggio di luce spaziò su nere ceramiche lussuosamente catacombali, su rubinetti d’oro e su altri specchi a parete intera. Un luogo per narcisi con fantasie mortuarie, nel quale riuscivo benissimo a immaginare la signora emergere con il grande corpo bianco da una vasca per idromassaggi, ma non il suo gnomesco marito.

Decisi di nascondermi in un piccolo spogliatoio, o boudoir che fosse. Per ulteriore prudenza, mi infilai in un armadio che portava all’interno un ennesimo specchio, nel quale, per un attimo, mi vidi intero e squallido nel mio abito stazzonato. Lasciai socchiuse le ante, per respirare e per sentire.

Mancavano cinque minuti alle undici quando udii lontano aprirsi e chiudersi il portone d’ingresso. Poco dopo vidi filtrare nello spogliatoio la luce della camera. Qualcuno andò nel bagno e, dai movimenti e rumori, capii che era un uomo. Un colpo di tosse me lo confermò: era il Vincenti.

Sgusciai dall’armadio e spiai dalla porta socchiusa. Vidi, rilanciata dagli specchi, l’immagine virtuale dell’avvocato, nudo come un verme muscoloso, attraversare la stanza e infilarsi tra le coperte nere. Restò lì seduto, in attesa, guardando il vuoto, o meglio, l’immagine decuplicata di sé che gli rimandavano gli specchi. Qualcosa nella sua espressione mi fece capire che era ubriaco.

Due minuti, ed ecco apparire silenziosamente nella stanza la vedova. Aveva il solito vestito nero e i guanti. Era più bella che mai. Il Vincenti, senza distogliere lo sguardo da lei, allungò una mano verso il comodino e premette un paio di pulsanti. La luce si attenuò e nella camera si diffuse l’avvio inconfondibile del Bolero di Ravel. Previsto dal rituale, evidentemente.

E subito ebbe inizio lo spogliarello. Ritmato perfettamente sul tempo della musica, inesorabilmente lento, lentissimo, senza i fastidiosi atti stereotipati delle professioniste, ma pieno di invenzioni spontanee, da appassionata del genere. Il Vincenti guardava, fascinato.

Non voglio descrivere la sequenza del denudamento, perché non ne sarei capace, non mi verrebbero le parole, benché le varie fasi di quello spettacolo siano stampate nella mia memoria attimo per attimo. Dal mio spiraglio vidi e capii che in ogni suo gesto la donna anticipava senza pudore la nudità che stava per rivelare, e il suo desiderio totalmente offerto.

Durò a lungo, molto a lungo, quanto la musica. Nel momento esatto in cui la signora svelò il pube e, sull’ultima nota, lo protese all’uomo che la guardava rapito, comparve il Branzi.

“Puttana! Puttana!” inveì con quella sua faccia da rospo congestionata dall’ira. La donna si girò con uno scatto felino e, nuda com’era, gli si avventò fulmineamente contro stridendo e graffiandolo al viso.

L’antiquario, che le arrivava a fatica al petto, si aggrappò alle sue mammelle e ne morse una con furia animalesca. Lei urlò, mi sembrò più per l’offesa che per il dolore, e seguitò a tempestarlo di graffi. Poi gli si buttò contro con quel suo grande corpo bellissimo e lo travolse. A terra la lotta continuò frenetica, in un groviglio belluino di membra e di bocche ringhianti. Stavo assistendo ad uno scontro di inaudita ferocia. Lei artigliò il Branzi alla fronte con entrambe le mani e tirò con furia. Vidi con sgomento aprirsi una larga ferita lungo l’attaccatura dei radi capelli dell’uomo e la pelle venirgli via dalla faccia come una maschera sanguinante. Ringhiando, l’antiquario azzannò la moglie ad una spalla, staccandole larghi brani di carne. Quei due si stavano letteralmente sbranando, e il gioco degli specchi moltiplicava quell’orrendo spettacolo. Sì, perché gli specchi, a dispetto di tutte le storie di fantasmi, riflettevano perfettamente quei due personaggi imbestiati.

Senza rendermi conto di quel che facevo, spalancai la porta dello spogliatoio e corsi verso di loro per cercar di separarli in qualche modo. Il Branzi girò verso di me gli occhi iniettati si sangue ed ebbe un fremito, ma non allentò la presa delle mascelle. Anche lei mi guardò, orribilmente trasfigurata…e nello stesso istante entrambi scomparvero. Ma le loro urla ferine restarono, continuando a riempire la stanza in un crescendo allucinante, tanto che mi guardai in giro, pensando che la sparizione della loro immagine fosse un’illusione dovuta agli specchi. No, non si vedevano davvero più, ma la lotta continuava, ed ora sembrava che si stesse spostando verso il letto. Vidi le coperte incurvarsi come per il peso di corpi che vi si avvinghiassero sopra. Mi volsi a guardare il Vincenti. Era in piedi, traballante sui cuscini, inutilmente, miseramente nudo con il membro che gli penzolava tra le cosce. Guardai i suoi occhi sbarrati e capii che stava continuando a vedere ciò che a me non si mostrava più. Doveva scorgere, per la prima volta, anche il Branzi perché le sue pupille si muovevano chiaramente seguendo la lotta dei corpi invisibili. Sussultò, come fosse stato investito da uno spruzzo. Si guardò le braccia e le mani tremanti, ebbe un moto di raccapriccio Cercò di ripulirsi. “Sangue! È sangue!” gridò inorridito, mentre l’agitazione delle coperte si andava sempre più avvicinando ai suoi piedi. Si addossò alla parete terrorizzato, come a volerla penetrare per sfuggire a ciò che vedeva.

A un tratto le grida cessarono e cadde il silenzio. L’uomo nudo stette ancora un attimo a guardare fisso davanti a sé, poi si afflosciò sulle coperte come un burattino.

Gli sentii il polso: era vivo, ma il cuore gli batteva furiosamente. Lo stesi sul letto e lo avvolsi nelle coperte sfatte. La stanza era tornata una normale camera da letto pretenziosa e kitsch in una casa di ricchi.

Erano le due passate quando si riprese. Girò attorno gli occhi stupiti, mi guardò interrogativamente.

“Dove sono? Cos’è successo?” chiese imbambolato. Pareva che la sbornia gli fosse passata.

“Non è successo niente, e lei è nella camera da letto dei signori Branzi.” risposi laconicamente.

“I signori Branzi?” Stava cadendo dalle nuvole.

“Sì, sono stati qui fino a poco fa, hanno litigato di brutto e lei è svenuto dalla paura.”

“Sono stati qui?” Si sollevò a sedere e si accorse di essere nudo. “Sono nudo!” esclamò.

“Certo, tenuta di prammatica per incontrare la signora Branzi”.

“La signora Branzi? Ma è morta da sei mesi! E anche suo marito è morto!”

Evidentemente aveva ancora la testa confusa. Non che io avessi le idee più chiare, ma tutto è relativo: di fronte a lui mi sentivo un pensatore greco.

Aspettando che si riprendesse, ero andato in cucina dove avevo trovato delle bustine di caffè solubile. Gliene porsi una tazza. Bevve in silenzio.

“Lei ha le chiavi di questa casa” dissi. “I suoi abiti devono essere di là, nel bagno. Prima di uscire, riattivi l’allarme. Sa come fare, visto che lei è stato qui tutte le sere nell’ultimo mese.”

“Tutte le sere?” Mi guardò senza capire. Mi faceva tenerezza, in fondo, ma in quel mese s’era divertito molto più di me, benché per il momento non se ne ricordasse, ed era giusto che pagasse dogana. Un po’ per uno in braccio alla mamma. Per me era un modo, forse leggermente vile, di rifarmi dello sconcerto che mi sentivo dentro.

Andai verso la porta ma con tutti quegli specchi la sbagliai. Era un armadio. Mi ci vollero due o tre specchi prima di trovare il varco giusto e non mi piacque la faccia che mi vidi riflessa nel cristallo prima di uscire di scena.

Aveva smesso di piovere e io avevo lavorato gratis per due giorni. Arricchendo la mia esperienza nel ramo soprannaturale, di cui non riuscivo peraltro a vedere sbocchi applicativi. Indagini incrociate su niente, e per niente. Decisi di farmi una passeggiata. Un po’ di moto ogni tanto fa bene anche a noi di questo mondo. Schiarisce le idee.

Quei Branzi. Si aggiravano negli uffici e nelle case, fumavano, ricevevano fax, rubavano borse, facevano l’amore, litigavano come fossero vivi. L’unica cosa che non sapevano fare era staccare assegni. Mi consolai, se così si può dire, pensando che, comunque, sarebbero stati assegni a vuoto.