Storie

Storie Brevi – Cosa so?
Spazzini

Macché studiare, per te ci vuole un bel mestiere all’aria aperta, sano, senza preoccupazioni, senza libri. Lo spazzino, meglio ancora il vigile, ecco quello che ci vuole per te, dice il padre a Emilio, quando lo studente svogliato porta a casa un brutto voto. Il figlio sta al gioco, non sa bene se per orgoglio e per altre ragioni. Ma sì, ripete, spazzino, vigile, ciccaiolo, via, all’aria aperta, libero!

Ma ci sono momenti in cui Emilio immagina di essere veramente uno spazzino, e che suo padre lo veda all’opera. Ha osservato al lavoro, nel quartiere periferico dove abita, gli addetti alla Nettezza Urbana. Emilio è uno di loro.

Viene avanti arrancando su uno di quei tricicli con la scritta N.U. Le buche e i sassi della strada periferica dissestata fanno traballare i due bidoni di ferro sistemati davanti al manubrio, già carichi di spazzatura a mezza mattina. Ad ogni sobbalzo si urtano tra loro, con un rumore smorzato, di cosa cedevole, come quando si rompe un uovo marcio.

Ai cancelli delle villette e ai portoni pianoterra dei caseggiati, le pattumiere aspettano, gonfie di rifiuti da scaricare direttamente nei bidoni. Le volte che non ci sono, occorre suonare i campanelli e salire le scale portandosi a mani nude – ai guanti da lavoro e all’ecologia mancano molti decenni –, il lurido sacco pesante di grossa tela. Le porte si socchiudono, bambini di pochi anni sbirciano sul pianerottolo e si ritirano subito gridando: mamma, c’è lo spazzino. Compaiono donne reggendo la cosa con meno dita che possono. Emilio insacca tutto porta per porta e ridiscende col peso sulla spalla.

Il suo giro quotidiano di raccolta termina nella strada dove abita, e suona al cancello della propria casa. Compare la Gianna con gli zoccoli, il vestito corto e i capelli strinati dal ferro dei ricci, e allunga a Emilio l’oggetto maleodorante tenuto ben lontano da sé. La servetta riprende la pattumiera vuota e rientra come se scappasse, senza salutare. Da una finestra, immagina Emilio, il padre lo sta guardando e commiserando.

Nessuno saluta gli spazzini. Come non esistessero, apparizioni di prima mattina da dimenticare subito. Anche con le serve, che dovrebbero avere più dimestichezza con la spazzatura, gli uomini delle immondizie non hanno nessuna fortuna. Nemmeno i più giovani, simpatici e meno brutti. Meglio non fermarsi a scherzare con uno di loro, specie se minaccia carezze. Non più del tempo necessario alla consegna e ripresa della pattumiera. Le serve hanno altro in mente, i militari in libera uscita la domenica pomeriggio, con le divise in ordine e i capelli imbrillantinati.

Anche Emilio ha una divisa grosso modo militare, giacca e calzoni, ma da fatica, della stessa tela grigia del sacco, logorata dall’uso e inevitabilmente sporca. Anche il berretto è quasi militare, diciamo da usciere, con la visiera nera che sarebbe lucida se il sudore e il resto non l’avessero da tempo resa opaca, scrostata. A nessun bambino viene in mente di imitare uno spazzino mettendosi in testa il suo berretto.

La pattumiera della casa di Emilio è la migliore della strada, di banda zincata, con il coperchio ribaltabile. Le altre sono per lo più informi recipienti di recupero che nessuno pulisce mai, vecchie pentole, secchi mezzo sfondati all’ultimo utilizzo, tenuti assieme col filo di ferro, arrugginiti, invasi da una lebbra tenace che divora il metallo, talvolta gocciolanti di liquami fetidi.

Puzza. Una puzza fatale e inconfondibile accompagna il mondo di Emilio spazzino. È l’aura che circonda lui e i colleghi e li allontana dal resto dell’umanità. Eppure il loro lavoro è potenzialmente benemerito, perché libera ogni casa dai rifiuti cosiddetti solidi e in modo speciale da quelli chiamati umidi, i più aborriti. Bucce, scarti di verdure e residui che sino a poco fa erano cibo appetitoso, hanno cambiato statuto nel momento stesso in cui sono stati versati nella pattumiera, hanno perduto ogni nome proprio, e improvvisamente puzzano, suscitano disgusto, roba da cancellare immediatamente dalla memoria, assieme a tutto ciò che agisce attorno a loro.

A mezzogiorno, riversato il raccolto della mattinata nel ventre dell’autocarro, grosso insetto schifoso e maleodorante che li segue lento nel giro, gli spazzini si riuniscono in uno spiazzo lontano dalle case e tirano fuori dal ripostiglio sotto il sellino cartocci di mortadella, salsicce, pezzi di formaggio. Uno torna dal fornaio col pane fresco per tutti. Si accendono piccoli fuochi di sterpi per scaldare gavette di minestra e pastasciutta preparate da madri e mogli, o grosse fette di polenta infilate negli stecchi, da stupirsi che siano così gialle, splendenti, pulite. Mangiano accosciati lungo i marciapiedi, discutendo delle partite di calcio, bevendo a turno vino da un fiasco. I più spiritosi scambiano battute, sempre le stesse, con poche varianti. Poi tacciono per un po’, berretto calato sugli occhi, digerendo.

Succede qualche volta che, nella pausa, i più giovani tentino una breve gara di tricicli. Al via, partono curvandosi sui manubri e puntando sui pedali tra grida scherzose e chiasso di bidoni vuoti, sbattuti tra i ferri che li tengono. Emilio si vede vincitore, alza trionfalmente le braccia alle maniera dei corridori ciclisti e scende di sella con mosse lievi ed elastiche, come ha visto fare al cinema, nei documentari sportivi.