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Altre Storie – Storie per quattro
Una bellissima bocca

Verità…verità…, mormora sovrappensiero l’avvocato. Tempo fa un tale me l’ha definita lo splendore del vero, o qualcosa del genere. Beh, bisogna vedere…

Beve, pensoso, un sorso.

Vi ho mai raccontato, prosegue, di quella volta che ho incontrato in treno una ragazza con una bellissima bocca?

Gli altri tre – l’ingegnere, il professore e Luigi – rispondono di no, non gli pare, che la racconti.

Bene, comincia l’avvocato con la sua aria sorniona, un giorno dovevo andare a S* e prendo un treno della riviera mezzo vuoto, seconda classe. Ma io, che non amo viaggiare da solo, mi infilo in uno scompartimento mezzo pieno, dove c’è un posto libero vicino, appunto, a una ragazza con una bellissima bocca. Domando permesso e mentre sistemo la sacca sento una forte puzza di gatto. Di piscio di gatto.

Due uomini occupano i posti vicino al finestrino. Uno atletico, col maglione blu, probabilmente un marinaio. E, di fronte, un grosso vecchio che occupa più spazio del suo sedile, non solo con il suo corpaccio ma anche con l’incredibile massa di pelame, capelli crespi che gli cascano sulle spalle e un’enorme barba grigia che gli nasconde la faccia. Faccia molto abbronzata, per quel po’ che se ne vede. Ma sarà abbronzata o sporca?

La storia si fa subito interessante e i tre si protendono ad ascoltare.

Improvvisamente, continua l’avvocato, mi rendo conto che il vecchio è un barbone. Un vagabondo ingombrante, infagottato in un vestito senza forma e senza colore. Pesca con le sue manone da una borsa scalcinata certi foglietti ingialliti e spiegazzati, dove scrive qualcosa con un mozzicone di matita. Un barbone grafomane.

Nessuno sembra essersi accorto della puzza di gatto. Il barbone scrive i suoi foglietti, il marinaio guarda il paesaggio che passa dal finestrino e la ragazza fissa il posto vuoto di fronte.

Anch’io guardo davanti a me, ma ogni tanto giro gli occhi e spio gli altri viaggiatori. E specialmente il profilo della bocca, senza rossetto, della ragazza.

Sto cercando un pretesto per girarmi e poterla ammirare meglio o per far volgere lei verso di me. Trovato: la puzza del gatto. Avvicino cauto la mia bocca al suo orecchio.

Scusi.

Si volta rapida a fissarmi proprio come un gatto e si scosta da me.

Anch’io, confuso, mi tiro un po’ indietro, ma ormai sono in ballo e mormoro: scusi, ma non sente anche lei un odore di gatto? Di pipì di gatto?

No, guardi, per me è qualcos’altro, mi sussurra lei pronta, come se ci avesse già pensato. Fa segno con gli occhi furbi al barbone e si pizzica il nasetto. Parlando mi è tornata vicino, a dieci centimetri dalle mie narici.

Dio mio. Quelle sue poche parole sono bastate a togliermi il respiro. Non per quello che hanno detto, ma per il fiato che me le ha portate. Sono sgomento. Quanto ti puzza la bocca, figlia mia.

I tre ridono.

Quanto ti pute!, cita il professore. Il Boccaccio avrebbe detto così, che è molto più efficace.

Nuova risata.

D’accordo col Boccaccio, dice l’avvocato, ma non era possibile! Quelle belle labbra, quella gola rosea. Forse sarà, ho pensato, perché non parlava da un po’ e le stagnava dentro l’aria. Forse aveva bisogno di un ricambio.

Alitosi, classica alitosi, sentenzia il professore. Dovuta purtroppo a un sacco di cause: denti, gas nella cavità orale, cattiva digestione, può essere anche sintomo di malattie gravi.

Insomma, lasciando la bocca e tornando alla ragazza, riprende l’avvocato, le rispondo facendole una domanda perplessa: Lei dice? E, contemporaneamente, mi allontano più che posso col corpo (e col naso), come se fossi sorpreso che abbia chiamato in causa il barbone, e mi servisse più spazio per pensarci su.

Assolutamente sì, conferma la ragazza, e si pizzica ancora il naso, arricciando le labbra.

La nuova zaffata mi coglie in pieno: dunque non era una questione di ricambio. Non mi resta che raccogliermi nel mio sedile, fingendo di riflettere sulla sua versione, standole il più lontano che posso.

Pensa un po’, mi dico intanto, questa parla della puzza del barbone, e non si rende conto della sua. Tipico: la pagliuzza e la trave. Però. Però. Valutato il pro e il contro, io comunque ci provo. E vada per il barbone.

I tre riscoppiamo a ridere.

Sei incorreggibile, dice il professore, cosa non faresti per non perderti un’occasione.

Lo so, lo so, ammette l’avvocato, per amore di quella bocca, che a distanza di sicurezza restava bellissima, e per poter portare avanti la conversazione, ho accettato che il responsabile della puzza di gatto potesse essere il barbone. Cosa, badate, che poteva anche essere vera.

Ma va là, canzona l’ingegnere, mi ricordo di quella signora che zoppicava, e tu eri convinto che fosse una tattica di seduzione.

E poi si è scoperto che aveva un braccio, no, una gamba di legno, ricorda Luigi.

D’accordo, non nego, non nego, ma lasciatemi andare avanti, la faccenda è più complicata di quanto non sembri. Bene, mi alzo e socchiudo la porta, che entri un po’ d’aria dal corridoio, se non buona almeno diversa. Non voglio tampinarla e asfissiarla, voglio darle tempo e mi metto a leggere il giornale, anzi, a fingere di leggere il giornale, aspettando l’occasione giusta per riattaccare.

Tecnica raffinata, commenta l’ingegnere.

In realtà eri tu a essere asfissiato, mi pare, dice il professore.

Risate.

Passano le fermate, continua l’avvocato, e la puzza del gatto resta. Arriva il controllore e chiede i biglietti. Quando se ne va lo seguo nel corridoio.

Scusi, non ha sentito lì dentro una puzza di orina di gatto?

Il controllore torna indietro, si sporge nello scompartimento, dà un’occhiata professionale ai viaggiatori.

No, guardi, è qualcos’altro. Lo lasci dire a me che me ne intendo, è qualcos’altro.

Altro che cosa?

Eh, che cosa, immagini un po’ lei. Segna col mento il marinaio e, col pollice e l’indice stretti in punta, imita una fumata di spinello.

Droga?, sussurro sorpreso.

Lasci dire a me che me ne intendo, ripete a volume più alto il controllore, allontanandosi e scuotendo la testa.

Rientro, mi risiedo e spio dietro il giornale il marinaio, che sèguita a guardare fuori dal finestrino. Insisto a pensare che sia puzza di gatto. E poi sul treno è vietato fumare, sigarette o spinelli.  Però è possibile che i vestiti del marinaio, quel suo maglione blu, siano impregnati di fumo. Guardo la sua faccia, ha un aspetto sanissimo. Forse è uno spacciatore, nella valigia ha un pacco grosso così di marijuana o di hascish, o di tutti e due, da spandere più odore di un quintale di tartufi. Non sapevo, penso, che l’erba puzzasse di orina di gatto.

Sarà per questo che i cani della polizia la scoprono subito, interviene Luigi.

Ma va là, non dire sciocchezze, lo tacitano gli altri.

La cannabis ha un odore particolare, non certo del piscio di gatto, informa il professore, che è medico e se ne intende. Quanto all’hascish, non lo so.

D’accordo, dice l’avvocato, ma io sto descrivendovi quello che stavo pensando, fatemi raccontare.

Guardo il bagaglio del marinaio, ha una valigetta poco più grande di una ventiquattrore. E la sua faccia è quella di uno che non ha problemi. O che, se li ha, se li tiene. Per me, penso (e l’avvocato calca la parola): il controllore non ha capito niente. Tra l’altro, mi è sembrato che non abbia annusato nello scompartimento, ma solo guardato. La solita superficialità. E poi, per lui le puzze sono una routine, su quegli schifosissimi treni. Se gli dicevo che sentivo odore di cavolo, era uguale.

Su questo non hai torto, concorda l’ingegnere.

Cos’ha detto il controllore?, mi chiede improvvisamente la ragazza. Sento esalare sottovoce la domanda e gli occhi furbi mi guardano da sotto il giornale che fingo di leggere. E così ho due conferme: la situazione del fiato è cronica, ma la ragazza ci sta.

Dice che è droga, bisbiglio, e indico col mento il marinaio.

Macché droga e droga, è lui! Ricambia il sussurro, e punta di nascosto un dito verso il barbone.

Ed ecco che improvvisamente siamo diventati complici. Vicinissimi e complici. Una cosa bellissima, se non ci fosse quel fiato. Ma non si può avere tutto dalla vita.

Lo dicevo io, sogghigna l’ingegnere, tu ti adatti a tutto pur…

Sì, confessa l’avvocato, puzza di gatto, di droga, di fiato, in quel momento ho sentito che non me ne importava più niente. Dovevo stare solo attento a non prendere aria col naso mentre lei mi stava lì, a pochi centimetri con la sua bella bocca. Un po’ complicato, ma potevo farcela.

Le chiedo con una certa malizia: ma lei ha mai sentito l’odore della droga?

Se per droga intende lo spinello, l’odore lo conosco, e non mi sembra questo. (Vedete che avevo ragione?, dice il professore).

Lo conosce come?

Beh, ogni tanto. E fa il gesto disinvolto di fumacchiare.

Ah. E cosa sente quando fuma?

Allegria, voglia di parlare, di ridere, e allo stomaco una specie…come quando si va in altalena.

Solo allo stomaco, o anche in qualche altra parte?

UUh!, esclamano i tre tutti in coro, che audacia!

Sì, ho osato, ammette l’avvocato, e vi dirò che ero sorpreso di me stesso.

Anche, fa lei con una risatina pronta. Accetta la mia insinuazione, con gli occhi un attimo spalancati, di finta sorpresa. Ma non necessariamente, aggiunge subito, dipende da chi sta con me.

E, per esempio, con me?

Accidenti, dice l’ingegnere, sei andato subito al dunque.

La puzza gli ha dato alla testa, aggiunge il professore. E lei cosa ti ha risposto?

Qualche volta mi addormento…

Toh, prendi e porta a casa, sghignazza l’ingegnere.

Sì, mi ha detto proprio così, sorridendo, senza guardarmi e senza offendersi. Evidentemente era una abituata a civettare. Poi ha allungato la mano sinistra verso di me muovendo l’anulare. Anello matrimoniale.

Puttana, sentenzia l’ingegnere.

Poco seria, senza dubbio, corregge Luigi, che non sopporta le volgarità.

Sia come sia, prosegue l’avvocato, io le rispondo subito: ho visto, ho visto (in realtà non ho visto niente). E in uno slancio, nel quale non mi riconosco, cerco addirittura di afferrarle la mano, che lei ritira senza scomporsi. Io invece nello scatto mi sono sbilanciato e le finisco addosso. Però non la tocco. Tengo le braccia tirate indietro e le palme aperte, che capisca quanto sono corretto.

Gentiluomo perfetto, dice il professore.

Quando occorre, sì. Difatti mi scuso. E per il momento, tutto finisce lì.
Stiamo arrivando a R*, continua l’avvocato. Si alza il marinaio, si alza il barbone. E mi rendo conto che non è un barbone. E’ solo un signore imponente, e certamente un po’ strano, con la barba e i capelli molto lunghi. Anzi, mi accorgo che è addirittura una persona elegante. Quel vestito, che coperto dalla barba mi sembrava uno staccio, ora vedo che è uno di quegli abiti di moda molto abbondanti in lana merino che usano le persone robuste. Roba di qualità, direi raffinata. Con tanto di camicia a righe e di cravatta, che mi appaiono per un istante sotto la barba mentre si infila non uno dei soliti giubbotti, ma un leggero soprabito color pulce, di quelli che portava una volta la gente chic.

Chiede cortesemente permesso. Saluta, e si avvia nel corridoio con la sua borsa. Che è di morbido cuoio, per niente scalcinata, come mi era sembrato, forse perché la teneva schiacciata contro le ginocchia. Non era un barbone ma una persona del nostro mondo. Un professore, forse. Uno di quei pignoli, che sentendomi dire ‘odore di orina di gatto’ avrebbe potuto storcere la bocca e ammonirmi: ‘Brutto quel doppio genitivo’. O magari uno scrittore. Gli scrittori hanno spesso il pelo lungo. Dietro di lui esce anche il marinaio con passo sciolto. Portandosi via la sua valigetta e i sospetti del controllore.

Siamo rimasti solo noi due. Il treno riparte.

Va anche lei a S.*?, chiedo.

No, scendo a C.*

Sente?, le dico, la puzza c’è ancora e non è colpa di quel… Ha visto che non era un barbone? Ci siamo sbagliati a giudicarlo.

Ho visto, risponde lei, e sento. Ma come si fa a portare quella barba e quei capelli? Almeno fosse stato un ragazzo. A me piacciono i ragazzi con i capelli un po’ lunghi. Ma non così! Per me quello è un matto.

E la droga del marinaio?, insisto.

Come fa a sapere che era un marinaio?

Non so, mi sembrava, dico io.

E in quel momento siamo sbottati a ridere, racconta l’avvocato, e mi si sono in un colpo cancellati due imbarazzi: quello di prima, di aver mancato la presa della sua mano, e quello nuovo, che eravamo noi due soli nello scompartimento.

Ora viene il bello, annuncia l’ingegnere.

E invece no. Ora che potevamo parlare liberamente ad alta voce, non sapevo più cosa dire. Lei stava seduta pacifica e a suo agio. Guardava avanti e sembrava divertita. Come se mi stesse aspettando al varco.

Povero avvocato, motteggia il professore.

Eh, càpita, càpita.  In quel momento passa nel corridoio il carrellino delle bibite.

Posso offrile qualcosa?

Ringrazia e dice no. Io approfitto e compero una scatoletta di pastiglie alla menta, di quelle fortissime, vi ricordate la pubblicità dove si gela tutto?

Volevi che le si gelasse il fiato.

Qualcosa del genere. Gliene offro una e lei ne prende due e se le infila insieme nella sua bella bocca e io comincio a sperare.

E mi trasferisco sul sedile libero di fronte, il posto migliore per andare avanti con la conversazione, faccia a faccia (e alla distanza giusta). E vedo che non ha soltanto una bella bocca, è tutta fatta bene, liscia e compatta, tette di giuste dimensioni, cosce sode, gambe lunghe e dritte. Ma la bocca resta la prima bellezza. La bocca mi persuade completamente. Certo, prosegue l’avvocato rivolgendosi al professore, anche a Beatrice qualche volta, con tutte le sue sette Virtù, puzzava il fiato (come diceva Boccaccio?… putiva). Non si può pretendere.

Certo, concordano i tre in coro, non si può pretendere.

Forza, mi esorto, trova qualcosa da dire, prima che scenda…

E finalmente chiedo: Vive in riviera?

Uuuh! I tre lo canzonano in coro. Persino Gigetto fa un fischio.

Originale come domanda, commenta l’ingegnere.

Sì, vive in riviera, a L.*, uno dei posti più belli. Mi dice che le piace fare delle lunghissime camminate a piedi nell’entroterra col marito e gli altri soci di un club di escursionisti. E’ sposata da pochi mesi, ma conviveva già da qualche anno col marito. Lavora in un’agenzia di viaggi.

Conosce l’entroterra? E’ bellissimo, mi dice. E tira fuori una sfilza di nomi, località, itinerari.

Per amor di Dio!, esclama il professore.

Eh, sì. La nostra conversazione si era ridotta a notizie, descrizioni, dati. Lei parlava, io mi limitavo a fare le domande. Ora che eravamo soli e potevo osare… niente. Addio al gioco delle allusioni sottovoce così bene avviato prima. E addio complicità, quella me l’ero già dimenticata.

Chissà se pensava solo alle escursioni, o se voleva metterti alla prova. Sai, le donne le sanno molto lunga, è difficile capire…, dice l’ingegnere.

Per me, dichiara il professore, le ragazze che sanno far bene l’amore non stravedono per le camminate. La mia idea è che sono pigre. Stanno sdraiate sul letto ad ascoltare i cd, aspettando le telefonate.

Io non conosco ragazze pigre, dice l’avvocato, e questa era la prima escursionista che mi capitava. Non so cosa pensare. Tu, Gigetto, che sei un piegadonne, cosa avresti fatto?

L’ingegnere e il professore guardano Luigi, preparandosi a ridere.

Chiedi a loro due, risponde Luigi, anch’io non ho mai avuto occasione di conoscere né escursioniste né pigre. E meno che mai ragazze con il fiato puzzolente, caro avvocato,

Bravo! Così si risponde alle domande impertinenti, approva sorpreso il professore, mentre l’ingegnere stringe la mano al giovanotto.

Siamo comunque arrivati alla sua fermata, dice l’avvocato con voce di rimpianto. E la ragazza scende dopo i soliti saluti e la finzione che ci dobbiamo rivedere. Non so come, non le ho chiesto nemmeno il nome e non le ho dato il mio. Dal finestrino la guardo che si allontana, quella bella bocca, con un passo da escursionista…

Un momento, lo interrompe l’ingegnere, come facevi a vederle la bocca mentre se ne andava? Non avrai guardato qualche altra cosa?

No, vi sembrerà strano, ma io pensavo solo alla bocca, conferma l’avvocato.

Il professore tace e sembra riflettere. Poi chiede: Tutto qui?

Aspettate, risponde l’avvocato, il treno riparte e quattro studenti irrompono chiassando nello scompartimento. Una ragazzotta sistema il suo zaino gonfio di libri di scuola vicino alla mia sacca.

Cazzo, che puzza di piscio di gatto, questa sacca! E’ sua? E mi guarda.

Anch’io la guardo, e mi viene da ridere.

Perché ride?

Perché da quando sono salito sul treno stamattina non ho fatto altro che chiedermi da dove veniva questa puzza. Arrivi tu e subito scopri che viene dalla mia sacca. Complimenti.

Mi alzo, tiro giù la sacca e l’annuso. Non c’è dubbio, viene proprio da lì. La butto sul pavimento, la spingo col piede nel corridoio. Poi spalanco il finestrino e finalmente l’aria fresca turbina nello scompartimento.

Dovevo giustificarmi con quegli studentelli? Raccontargli tutta la storia? Sì, gliel’ho raccontata. La puzza, il barbone, la ragazza che accusava il barbone (che poi non era un barbone), il marinaio che non si sa cosa fosse, il conduttore che accusava il marinaio. Ho omesso la bocca e la puzza del fiato, naturalmente. Parlavo come se volessi impartire ai giovani una lezione, rifilargli un apologo sugli equivoci, sulla verità. Parole al vento. Sorridevano, solo per cortesia. E’ chiaro che mi consideravano un imbranato.

Beh, non mi sembra che sbagliassero troppo, dice l’ingegnere.

Avrei voluto vedere voi, ribatte l’avvocato. Ho ripreso a leggere il giornale, mi sentivo molto frustrato. Lo so cosa avrei dovuto veramente dire. Che per me la puzza del gatto era un fatto secondario. Che io avevo in mente soltanto la bocca, quella bellissima bocca. Tanto bella da farmi dimenticare il fiato che ne usciva.

E la tua sacca? Come mai quella puzza di orina?, domanda Luigi.

Bravo, questo è il problema di fondo, approva l’ingegnere. Oggi ci stupisci, Gigetto.

Già, doveva essere successo quella mattina, quando sono uscito di casa, spiega l’avvocato. Mi ero accorto che non avevo preso certe carte. Sono tornato dentro in fretta lasciando la sacca davanti alla porta. Questione di pochi secondi. Tornato fuori, ho visto scappare un gattaccio guercio che gira sempre nel mio giardino in cerca di avanzi. Dev’essere stato lui.

Certo. Avrà preso la tua sacca per qualcosa che occupava abusivamente il suo territorio, dice il professore, e l’avrà subito marcata col suo pennarello di piscio, per appropriarsene, includerla nel suo reame.

Ho dovuto poi lavare e rilavare la mia sacca con i detersivi e le candeggine, e poi esorcizzarla con i deodoranti. L’ho annusata a lungo, a occhi chiusi, per controllare. E mi veniva in mente quella bocca, quant’era bella.

Sì, cancellando tutto il resto, hai ragione, conclude il professore. Leva il bicchiere. Beviamo alla memoria, che sa rimuovere (e nascondere sotto il tappeto), le verità che non ci piacciono. Tutti brindano, e bevono.

Stavolta, dice l’avvocato a Gigetto, ti autorizziamo a essere triste.