Storie

Note a Storie

STORIE BREVI

Dopo l’esordio con il brevissimo La verità, mi dilungai in storie che buttai giù senza pensare alla lunghezza, scrivendo quello che mi passava per la testa. Ne vennero fuori brodi lunghi che poi ‒ acquisita non so bene come qualche rudimentale nozione sulle parole grosse dei meccanismi e delle strategie narrative ‒ cercai di sfrondare, ripulire abbreviare badando molto alla chiarezza. Lungo queste note si accenna qua e là alle fonti delle regole alle quali ho tentato a un certo momento di ispirarmi (certe frasi di Hemingway in Festa mobile e poi nel Mestiere di scrivere e nei racconti di Carver …e in altri esempi che andavo pescando nelle mie disordinate letture). Tracce di queste “fonti” sono sparse in giro dentro nelle storie stesse (o in qualche altro scritto, forse nelle Svarianze?) e non so qui sui due piedi ritrovarle. Mi ricordo che da qualche parte ho riportato il “presto dentro e presto fuori” di Carver, sottolineando che non si riferiva a uno sbrigativo congresso carnale. Non mi si chieda poi di dire cosa avevo in testa mentre scrivevo questa roba, perché per quanto mi sforzi non mi viene in mente niente: vuoto assoluto.

A un certo punto, qualche anno fa, la mia preoccupazione per il breve deve essere molto aumentata, tanto che mi portò a raccogliere, sotto il titolo Esistere, 33 storielle (il 33 era un numero che allora ricorreva in certe altre cosette che facevo), che pareva interessassero l’editore genovese del Canneto. Non se n’è poi fatto niente ma conservo l’elenco della sequenza, per quel che può valere. Una data approssimativa, anzi tarda, di riferimento ce l’ho: un ritaglio dal Domenicale di 24Ore del giugno 2013, intitolato Pensare in breve, pensare in bene, ma rileggendolo ora (2018) mi accorgo che si riferisce solo alle antologie di aforismi ed epigrammi, che è tutta un’altra storia di brevità.

Ho conservato nella spiega che segue le suddivisioni con i titoletti dei “capitoli”, che ho aggiunto nel mio tentativo-smania di rimettere un po’ d’ordine al casino. I numeri tra parentesi, accanto ai titoli dei racconti, sono quelli dell’elenco cronologico che ho cercato di mettere assieme.

Cosa so?

Qui ci sono alcune cose dei miei anni d’infanzia e adolescenza, ultimando con Profezia, dove ero già moroso con Laura. Che io trascurai (tradii?) col mio lavoro quando ci trasferimmo a Genova, dove la lasciai sola in una città sconosciuta con i figli da allevare (li allevò benissimo). Fin che non ne poté più e venne la crisi, che durò fino a quando decisi finalmente di trasferirmi a Milano.

Motoscafi

Storia lunghetta riciclata da una vecchia più lunga intitolata Il motoscafo. La faccio più lunga ancora ricopiando alcune considerazioni in merito che scrissi nel ’93.

“Qui rischio di cadere (e perché no?) nella trappola dei ricordi d’infanzia. Del resto, se uno si mette in testa di raccontare storie di vario genere e con registri diversi, la poetica dei perduti anni verdi non può mancare dal repertorio. Lo spunto del Motoscafo lo conservavo in una vecchia traccia di racconto (in testa c’era proprio scritto: “trama”).

L’avevo battuta a macchina sulla carta da bozze dell’ufficio ANSA di Verona nelle ore notturne del ’50-51, mentre aspettavo dalla telescrivente le corrispondenze della guerra in Corea e le ultime notizie da riassumere al telefono alle redazioni dei giornali delle province vicine non ancora tele- collegate.

Quella trama testimonia quanto fossi caduto in fondo alla buca patetica degli anni verdi (intanto Parise spiazzava tutti col Ragazzo morto e le comete, il padre adottivo a Vicenza gli cercava preoccupato un posto all’Arena aVerona, e lui veniva a sfogarsi da noi all’ANSA degli sfottò dei “colleghi” veronesi.).

Come rielaborare oggi quella traccia della mia infanzia evitando di ricascare nella trappola? E di non cadere contemporaneamente anche nell’altra trappola del bozzettismo? Forse la maniera giusta era di “datare” la storia suggerendo il clima politico dell’epoca.

Nella primavera del 1935 facevo la quarta elementare. Era un momento d’attesa non solo in Italia ma in tutta l’Europa. Una pausa di falsa tranquillità prima della tempesta. Il mondo stava prendendo la rincorsa per il gran tuffo nella tragedia che avrebbe insanguinato il decennio a venire.

In marzo c’era stato l’annuncio del riarmo della Germania, in spregio al trattato di Versailles. In aprile era venuta la condanna della violazione: prima a Stresa (tutti ospiti di Mussolini, che cercava di fare l’ago della bilancia) e subito dopo alla Società delle Nazioni. La Gestapo era già al lavoro: rapi un giornalista antinazista tedesco (ed ebreo) di nome Jacob, che si era rifugiato in Cecoslovacchia e che fu poi decapitato per dare l’esempio (ma qualche anno prima i sovietici avevano dato un altro esempio col rapimento a Parigi di un leader dei “bianchi”).

In autunno entrai in quinta e Mussolini invase l’Etiopia. La primavera del ’35 era il momento giusto per far navigare in un catino il mio piccolo motoscafo fabbricato in Giappone. Dove i militari stavano facendo benissimo la controparte orientale dei nazi-fascisti nel preparare il peggio. Mi è parso che il clima politico italiano e internazionale nell’aprile del ’35 andasse benissimo per ambientarci la mia microstoria di provincia. Poche allusioni dovevano bastare a porre i fatterelli narrati nella giusta atmosfera d’attesa di altri più gravi eventi: vittoria nel ’36 del Fronte Popolare in Francia e  Spagna (e subito dopo qui guerra civile); proclamazione da noi dell’Impero e consolidamento del consenso per il fascismo; asse Roma-Berlino; adesione dell’Italia al patto anticomintern Germania-Giappone (quest’ultimo sempre  più minaccioso in Oriente); fondazione in Cina di una repubblica comunista; inizio della grande purga in URSS.

In Italia poi era giunta al culmine nel ’35 la campagna contro le parole straniere (lo dice De Mauro e qualcosa mi ricordo anch’io). A rischio di scopiazzare Lessico famigliare e Libera nos a Malo, mi è venuto in mente di inserire nella storia parole francesi e americane (come finestra su libertà e modernità) ed espressioni ebraiche che circolavano nella mia famiglia e che testimoniano la nostra origine (il nonno le pronunciava un po’ sul serio e un po’ per prendere in giro – lui ateo e socialista – la mentalità da ghetto e la meschinità da borghesucci benpensanti, e spesso simpatizzanti fascisti, di molti dei suoi ex-correligionari). E ancora qualche deformazione dialettale, a contrasto con il lusso pretenzioso della casa ricca e con le falsità retoriche del fascismo. Tutto questo doveva essere appena accennato e non so se ci sono riuscito.

Personaggi ambienti oggetti episodi sono quasi tutti veri ma presi e mescolati da ricordi e contesti diversi dell’epoca. Per esempio, il frigidaire e l’automobile di lusso Marmon (entrambi di produzione americana). L’auto era il modello S Roosevelt prodotto dalla Nordyke Marmon & Co. di Indianapolis nel 1929. Fu la prima “otto cilindri” al mondo venduta al di sotto dei mille dollari ($ 995). Il nome era ispirato non a Franklin D. ma a suo cugino repubblicano Theodore Roosevelt, presidente USA dal 1901 al 1909. Fu uno degli ultimi modelli prodotti dalla Marmon, che chiuse nel ’33 a causa della crisi. Auto e frigorifero appartenevano effettivamente al più caro amico e compagno di scuola di mio padre, completamente estraneo alla storia raccontata (i sedili erano in realtà di panno e non di pelle crema). Il motoscafo del mio compagno di scuola Pietro esisteva veramente. Ho aggiunto i particolari del motore basandomi anche sull’esistenza a quell’epoca di un propulsore da 9cc. per aeromodelli, chiamato Brown Junior, prodotto a partire dal 1934 dalla Junior Motors Corp. di Filadelfia. Mi sono informato: all’epoca era acquistabile a Milano e poteva benissimo essere stato regalato ad un bambino ricco di Verona.

Lo chauffeur (una delle parole condannate da una Commissione dell’Accademia d’Italia) è invece figura totalmente inventata. Mettere nella storia un personaggio definito da un francesismo (e con un doppio significato: al tempo delle locomotive a vapore, chauffeur voleva dire anche “dongiovanni” cioè “scaldatore di donne”), mi è servito (spero) a suggerire un mondo di borghesi ricchi con i loro piccoli snobismi resistenti a qualsiasi campagna di purismo linguistico, e con vizi nascosti. Un mondo che assegnava un attributo francese a un baldo giovanotto di campagna. Non certo raffinato ed elegante come i drivers dei disegni di Alex Raymond per l’Agente Segreto X-9 dell’Avventuroso (uscito nel ’34). Dato che indossa la camicia nera (forse come alibi per i padroni).

E poi lo chauffeur (nella dizione veronese sciofér e non sofér come in Meneghello) mi è servito a preparare la battuta finale del nonno.

Inventata è anche la figura della mamma di Pietro (in realtà una brava signora molto religiosa). Ho preso a modello una bella donna molto leggera, che aveva per amante un gerarchetto locale (e che poi lasciò il marito, amico di mio papà avvocato e suo cliente per le pratiche di separazione).

Mio nonno leggeva quotidianamente una delle poche copie di un giornale francese in vendita a Verona (con un paio di giorni di ritardo). Mi ricordo due testate: Le Temps e Le Matin. A quanto mi pare di ricordare, il Temps era moderato. Indubbiamente più serio e senza fotografie, secondo il modello del Times d’oltremanica. E con titoli discreti: massimo due colonne. Credo che fino al ’35 il nonno leggesse il Temps, considerato una specie di giornale ufficioso. Sono andato a documentarmi e, stupefacente, non ho trovato traccia digitale di questo giornale in Francia, ma solo di un quotidiano ginevrino con la stessa testata degli anni ‘90. Eppure, ho ancora presente la voce del nonno quando pronunciava la parola Temps e ne ho trovato copie alla biblioteca Sormani di Milano. Ho poi scoperto che il Matin era un giornale di destra nazionalista e antisemita, divenuto estremista negli anni ‘30 e pagato da Mussolini (e probabilmente anche dai nazisti). Ho sfogliato le annate ’35-36: metteva in prima pagina grandi fotografie con croci uncinate e fasci littori, Mussolini Hitler e Goebbels. L’ultima pagina era riservata alle foto e lì si scatenava. Quando non arrivò più in Italia il Temps, il nonno ripiegò sul Matin, che in qualche modo gli continuò tra le righe ad assicurare ancora per qualche anno un certo spiraglio sull’Europa “democratica”. Ho scelto il numero del Temps di venerdì 19 aprile ’35, che porta la notizia del Consiglio straordinario della Società’ delle Nazioni. Verosimilmente, domenica 21 aprile (Natale di Roma!), la copia del 19 era disponibile a Verona.

Servirà tanta pignolaggine? Mah. Comunque sia, nella primavera del ’35 i fatti politici furono quelli: un punto su cui non ho avuto bisogno di inventare niente (scritto nel marzo 1993 e poi aggiornato).

POST SCRIPTUM – (settembre ’94). Ho letto solo adesso Il male oscuro di Giuseppe Berto e ho pensato che se avessi conosciuto prima questo bellissimo libro non avrei scritto Il motoscafo. Poi ho riflettuto: Meneghello e la Ginzburg li avevo pur letti, senza per questo rinunciare a scrivere…”

La Trottét

La storiella dice già tutto, una nota sarebbe inutile. Quel po’ di francese sgrammaticato che so l’ho appreso svogliatamente da quella cara e bruttissima vecchietta. La caricatura che un giorno mi venne di farle mentre dormicchiava durante una lezione, a distanza di tanti decenni mi pare somigliantissima. Ne ho incollato in calce una fotocopia, che continua a lusingarmi.

Profezia

Qui andiamo sempre nell’autobiografico. Grosso modo è successo proprio come nel racconto. La profezia c’è stata davvero o meglio ha purtroppo rispecchiato abbastanza quello che è avvenuto nella realtà mia e di mia moglie. Continuo dunque a interrogarmi perplesso, come faccio nella storia, se tutto era già previsto in partenza o se il buon senso mi dovrebbe dire che non poteva andare altrimenti. In fondo dovrei chiedermi: come faceva quell’indovino ad avere delle idee così chiare (e in fondo prevedibili da un buon intuito) su come sarebbe andata a finire.

Speriamo che

Dove la speranza era quella di scapolarmela dalla guerra. Nel ’43 ero giusto di leva e dopo l’8 settembre dovetti scegliere tra fascisti e partigiani. Verona era il principale caposaldo dei neri e lì mio padre era noto come antifascista e per di più mezzo ebreo provvisoriamente discriminato, ma tenuto in gran sospetto. Lui mi disse scegli e io, gran fifone, trovai modo di imboscarmi in un “battaglione di lavoratori” disarmati che con pala e picco scavavano macerie e trincee. Sarò stato un vigliacchetto, ma ciò non toglie che io mi assolva un po’ pensando di aver contribuito così a salvare mio padre, che venne imprigionato due volte dalla polizia, ma il fatto che suo figlio non si fosse schierato contro fu un elemento a favore del suo rilascio. Con la mia pala fui portato in giro fin nelle Marche a scavare. Quando il fronte cedette io riuscii a scappare, ma invece di nascondermi da qualche parte (non sapevo dove), finii col tornare a piedi a Verona, dove mio padre mi diede del coglione, ma ormai era fatta. Dopo un po’ mi ripresentai e fui mandato in Piemonte a badare alle barche di un traghetto sul Po. Il posto dov’ero era pieno di partigiani e a un certo punto feci qualche prudentissimo passo per passare con loro. “Resta dove sei”, mi dissero,” ci servi di più se ci aiuti a far passare quello che ci interessa”. E così fu, fino al momento finale, quando partecipai, con la 14a Divisione Autonoma, alla liberazione di Casale Monferrato e poi di Torino (senza sparare un solo colpo). A Torino restai fino al 15 maggio a fare “servizio d’ordine” partigiano, poi il nostro reparto fu sciolto e con 5000 lire di liquidazione tornai fortunosamente a Verona, dove appresi che i miei erano salvi e che il papà era stato nominato sindaco.

Gli episodi d’ispirazione delle sette storielle sono tutti veri.

Sono le contraddizioni

Il titolo riassume tutto sommato il senso delle cose che vado qui raccontando: rapporti con figli (anzi con un figlio) e con gli altri, faccende quasi patetiche su un’amica disabile, storie di animali come sempre in bilico di coscienza.

Due ovetti bianchissimi

Per chi leggesse (ma chi leggerà?) questa storiella, ho buttato giù un appunto, che qui ricopio, quasi più lungo, accidenti, della storiella. Rivolto prima di tutto a me stesso e poi ad eventuale beneficio d’unlettore virtuale che provasse un senso di insoddisfazione per quanto la storiella non dice. Non dice per mio deliberato proposito o perché non sono stato capace di dire? Un po’ sì e un po’ no.

Lo spunto è naturalmente autobiografico. Una coppia dei tanti (troppi) piccioni che popolano la piazza prospiciente la mia casa, è venuta davvero a covare sul mio balcone. Depositandovi due piccole uova bianchissime, che ho scoperto in tutto il loro tenero candore la volta che ho potuto guardare dentro nel nido, abbandonato un momento dal piccione di turno alla cova, andato probabilmente a cercar cibo.

Ho lasciato che la cova si protraesse fino al volar via di uno dei piccoli (l’altro era morto, e l’ho dovuto togliere dal nido di sotto al pullo vivo e ancora implume, perché ormai puzzava), non solo per curiosità ma anche, forse, per la forma di rispetto della natività, evento naturale e istintuale, che all’essere umano inurbato e normalmente emotivo quale anch’io più o meno sarei, appariva raro e affascinante.

Una volta deciso di trarne una storiella, mi sono dovuto preliminarmente documentare. Lo faccio sempre, sia come riflesso della mia antica professione di giornalista, sia per quel senso di insicurezza che mi porto dentro, e che cerco appunto di compensare documentandomi.

In mancanza di testi ornitologici, sono ricorso alle risorse universali di Wikipedia ed è lì che ho scoperto che la mia avventuretta era tutt’altro che rara, era anzi banalissimamente normale.

E questo è uno dei punti sui quali ho costruito il semplice abbozzo di personalità del protagonista: il “padrone di casa” che scopre nella sua proprietà degli “abusivi”, ma lascia che continuino la cova perché lo ritiene un evento eccezionale da esibire allo stupore degli amici.

Quando apprende che la cosa è tutt’altro che rara, viene meno il motivo narcisistico di fondo che lo muove ad ospitare gli intrusi. E lascia spazio alla preoccupazione per le multe salate inflitte a chi infrange le disposizioni comunali anti-piccione (che ho letto, incollate sui muri di Lavagna). Il nido ora è solo un impiccio di cui bisognerebbe liberarsi.

Ma a questo punto il protagonista scopre i due “ovetti bianchissimi”, che lo turbano per le loro forme pure e nette, in contrasto con lo sporco squallore del nido, il quale tuttavia gli ricorda la “povertà” esemplare del presepe. E in più, gli ovetti assomigliano in modo impressionante aidoni pasquali per lui bambino, e anche a quelli che regalava alle nipotine, quand’erano piccole. Sensazioni che non emergono, o che lascio appena affacciare alla sua coscienza, ma che dovrebbero agire oscuramente come fattori conflittuali.

Schiacciare gli ovetti con la punta della scarpa, il più lontano possibile dal proprio ego, immagina il “padrone”, ma se invece del tuorlo ci fossero già gli embrioni o addirittura i feti in formazione, che forse si muovono? Il raccapriccio sembra fermare il protagonista.

Ma sarà così? Il piccione sul palo aspetta che il nemico uccida o rinunci. Anche il lettore dovrà restare in sospeso, o decidere le scelte del protagonista.

Dare al lettore il minimo delle informazioni essenziali per tentare una soluzione affidata a lui stesso. Questo era il mio intento, sull’esempio dei migliori narratori non solo moderni. Sono andato troppo in là nel “levare”? Ho esagerato nel seguire le regole copiate dai grandi? Non ho lasciato spazio ai buoni sentimenti?

Secondo me, il “padrone di casa” ne ha pochi, o non ha abbastanza cuore per farli emergere. E’ un egocentrico e un vile: non uccide perché non ha nemmeno il coraggio “naturale” di farlo.

Restano (almeno) un paio di problemi: sapere se l’incertezza finale è un buon finale, e se i dati che ho tralasciato manchino per una mia incapacità di gestire una storia in modo psicologicamente più complesso.

Gesti

Non ho saputo trovare un titolo migliore per questa piccola sequenza di cinque storielle di vario genere.

La memoria

Titolo fin troppo ovvio per certe cose viste o da rivedere fissate in foto. Avrei voluto avere la ferrea memoria del giovane Hem. Ma sono sempre stato come lo stesso Hem più vecchio, dopo che l’elettrochoc gli spazzò via i ricordi.

Fotografie perdute

Riciclata da una storia troppo lunga. Due o tre delle Fotografie perdute (che credevo perse, come quella della mamma col grande cappello), poi le ho però ritrovate.

Chissà

Anche qui un titolo generico che vorrebbe dire tutto di cose incerte che sperano in una qualche soluzione reale o immaginaria.

La Verità

Fu il mio primo brevissimo (100 parole) racconto “da grande”. Lo scrissi per un concorso di Repubblica del 1991 (fu pubblicato sul supplemento Tutto Milano tra i primi cento racconti selezionati). Era basato su uno spunto del 1986, ripescato in un mio libretto di appunti-diario.

Ambientai la storia a Milano – come prescritto dal concorso – stavolta nella “sala massima” della biblioteca comunale di Palazzo Sormani.

La bibliotecaria grassa esisteva veramente. Anche la colonna alla quale è appoggiato lo scaffale della Treccani c’è ancora. Dietro non c’è però lo spazio per il vano in cui dovrebbe apparire la Verità ignuda.

Il concorso fu vinto da un racconto che parlava di uno che ammazza l’amata uscita di casa con una smagliatura alla calza destra e tornata con la stessa smagliatura ma sulla gamba sinistra.

Mi ricordo che ragazzino andavo in solaio a sfogliare vecchie raccolte di riviste letterarie di mio padre. In un certo numero (probabilmente delle Grandi Firme di Pitigrilli, la prima serie degli anni ‘20 o primi ‘30, proibita ai minori, con bella impaginazione déco), lessi un racconto di non so chi sull’identico tema. Però quel marito non ammazzava la moglie. Aveva pensato che la donna contestata avrebbe potuto trovare mille scuse plausibili (il pedicure, ecc.). L’uomo non aveva detto niente. Si era limitato fatalisticamente a raccontare la storia ad un amico. Ho cercato la rivista in biblioteca ma la collezione era lacunosa e non sono riuscito a ritrovare il racconto. Che era molto più raffinato di quello del vincitore del concorso di Tutto Milano.

Un bellissimo giallo

Cose che – ma solo a mio giudizio – avrebbero a che fare con l’Arte.

Scolpire

Lo scultore è addirittura Arturo Martini, amico di mio papà. Lo vidi all’opera nel 1939 nella tenuta di S. Giacomo al Vago, a Vago Veronese, sulla statale per Venezia, pochi chilometri da Verona. La tenuta, un bellissimo parco con al centro l’ottocentesca Villa Milani e la chiesa di S. Giacomo incorporata, apparteneva ai fratelli Bartolo e Ignazio Battiato, ricchi e famosi collezionisti e mecenati di origine siciliana. Nel 1951, prima di morire ed essere sepolti a Vago, essi donarono parco, villa e scultura all’Istituto Don Calabria di Verona.

La statua S. Giacomo Maggiore è oggi nei Musei Vaticani. La esposero una volta in una mostra a Milano e io ebbi un grande successo con alcuni amici appassionati d’arte, ai quali rivelai il perché dei buchi tappati da tasselli nella schiena del santo.

ALTRE STORIE

Sotto questo titolo ho ammucchiato storie lunghe o meno che non sapevo dove altrimenti infilare.

Su niente, gratis

Fuga acrobatica dal Cimitero Monumentale

Basato su un episodio realmente accadutomi (1986?) nel Cimitero di Verona. Sono rimasto chiuso dentro una domenica a mezzogiorno e sono “evaso” dalla parte di dietro scavalcando ben due muri (di cui uno molto alto), usando la tecnica adottata da Gulliver per visitare il palazzo dell’imperatore di Lilliput (che per precisione si chiamava Golbasto Momarem Evlame Gurdilo Shefin Mully Ully Gue – cap.3 pag. 28 ed. Millenni Einaudi). Il successo della mia evasione mi ha molto gratificato.

Laboriosa e lugubre la ricerca di documentazione su morte tombe cimiteri ecc. Sono partito subito con un incipit che ricorda la “Spigolatrice” di Mercantini. Difatti m’era venuta l’idea di dare alla storia un tono da “ballata del cimitero” o da “danza della morte”, figuriamoci. Descrivendo la mia fuga come allegoria o metafora (cosa non si fa per una metafora) di una mia vittoria (provvisoria) sulla casa della polvere (Gilgamesh). Partendo sempre con la solita presunzione, avevo pensato di fare un racconto in endecasillabi (!) ma mi sono presto fermato, impelagandomi nei concetti e nei versi e nelle incertezze su come proseguire. Però il tentativo mi è servito in qualche modo, perché ho utilizzato (in parte) i linguaggi del materiale documentario e tecnico che andavo raccogliendo per una prosa ironicamente un po’ ritmata (e pomposa), mi pare molto diversa dal tono secco che più tardi mi sono imposto. Sia come sia.

Una buona intenzione era di metterci dentro tutto quello che pensavo della morte e della vita (che mi sono accorto essere, stringi stringi, solo qualche banalità o scopiazzatura), e dei sentimenti che provavo per i miei defunti (rimorsi, rimpianti ecc.), con rischiose escursioni nei problemi della Fede e del Nulla. Tutto molto approssimativo, per la solita assenza di un minimo di pensiero diciamo filosofico e/o di nozioni non elementari sul tema.

Per rimediare ho cercato di cavarmela con qualche furbo accenno qua e là per dare l’apparenza che so quello che penso e scrivo.

Non è che non abbia cercato volonterosamente di raccogliere in giro notizie e di sfogliare libri in biblioteca. Ho fotocopiato o trascritto varie cose ma al momento di usarle non sapevo da che parte pigliarle e come farle stare insieme. Butto giù qui un elenco per aver sottomano le fonti alle quali ho cercato di abbeverarmi, gonfiandomi la pancia di concetti ma restando con la gola secca (e presto dimenticando tutto, come sto constatando ora, rileggendo):

– Il Cimitero Monumentale di Verona, del frate Bernardino Barban, con prefazione di Don Giuseppe Chiot (che è poi davvero il “conversore infallibile” di quella poesia al letto di morte di mio padre). Il Chiot aveva assistito, in carcere e all’esecuzione, Ciano e gli altri traditori del Duce al Gran Consiglio, fucilati proprio a Verona nel ’44. Opuscolo scritto nel 1928 e superato (molte statue ornamentali sono andate distrutte durante la guerra o sono state tolte successivamente) ma tutto sommato utile anche per attingerci qualche frase “da preti”;

– ll Cimitero di Verona, di Vincenzo Pavan. Saggio scritto per il catalogo di una mostra sui cimiteri dell’Ottocento (trovato alla biblioteca di Castelvecchio).

– La tentazione del Nulla – Giardini della memoria per un eterno oblio, di Maurizio Bottacin, altro saggio nello stesso catalogo. Sempre nel catalogo c’era una bibliografia che mi sono ricopiata.

Ho consultato anche, in biblioteche a Verona e Milano: – Freud (Lutto e malinconia) – Ariès (Storia della morte in Occidente) – Thomas (Antropologia della morte) – Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte) – Becker (Il rifiuto della morte).

Ho rubacchiato qua e là qualche concetto. Molto utile mi è stata la lettura della voce Morte nell’Enciclopedia Einaudi (E.E.) dove ho trovato una sintesi delle cose dette da tutti questi signori e da altri (bibliografia impressionante). Se l’avessi letta prima mi sarei risparmiate tante ricerche a tentoni. Lì ho trovato tutto il “profondo” che avrebbe potuto servirmi se avessi meno confusione nella testa.

Per certe descrizioni (i leoni) e per controllare altre cose mi sono servito della mia Verona del Simeoni revisionata da Zannoni. Scoprendovi qualche errore banale sui nomi di battesimo degli scultori (accademici) che hanno lavorato per il cimitero. Mi ha fatto perdere tanto tempo specialmente un Poli (che il Simeoni chiama Cesare), autore degli altorilievi delle tre consolatorie resurrezioni nel vestibolo dell’ingresso principale. Però, sotto le sculture c’è scritto chiaramente “G. Poli”. Difatti il Barban lo chiama Giuseppe Poli. Mi sono intestardito stupidamente e sono andato alla biblioteca di Castelvecchio a consultare l’Algemeine Lexicon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart. Un’opera in tanti volumi di Ulrich Thieme e Felix Becker edita a Lipsia da E. A. Seemann nel 1933. Loro confermavano stranamente il nome Cesare Poli, aggiungendo che era anche l’autore dei fregi neoclassici sulle metope dei frontoni della facciata e dei pantheon (se ho tradotto bene il senso del tedesco). Invece il fraticello Barban dice che i fregi sono opera di allievi del Poli. Come ulteriore referenza sullo scultore, il Lexicon indica un articolo della Illustrazione Italiana del 1886. Sono andato a leggerlo a Milano alla Sormani e ho visto che un Cesare Poli era anche l’autore del leone rimesso in quell’anno sulla colonna di Piazza Erbe. Il primo leone (del 1524) era stato abbattuto e distrutto per ordine di Napoleone nel 1797 (quando Verona era stata occupata dai Francesi dopo l’insurrezione delle Pasque veronesi), insieme a tutti i simboli in terraferma della Repubblica di Venezia. Il Cesare Poli era indicato come “giovane scultore”.  Come poteva esserlo nel 1886, se nel Lexicon risultava nato nel 1816 e sposato a Firenze a 21 anni nel 1837? Poi ho letto la firma di chi aveva dato queste notizie al Lexicon e mi si è illuminata la mente: era stato l’incorreggibile pasticcione Raffaello Brenzoni, figlio di vecchi amici di famiglia. E ho avuto la prova che le accuse di inattendibilità che avevo sentito circolare a suo tempo su di lui non erano frutto dell’invidia di topi di biblioteca suoi concorrenti. Insomma: i Poli erano due: Giuseppe e il giovane Cesare (forse suo figlio?). Tanto tempo sprecato per una curiosità stupida e credendo a una bibbia tedesca dell’arte.

Tutto questo per dire delle sciocchezze che può commettere un inesperto che si mette a consultare libri. Però devo aggiungere che a tante ricerche su questi Poli mi ha spinto anche la speranza di trovare una qualche parentela tra mia nonna materna (che si chiamava Poli Martina) e un altro rinomato scultore Poli che avevo sentito nominare a Stromboli come bisnonno di una napoletana stramba e insabbiata (come tutte le persone che ho frequentato a Stromboli). Quel bisnonno Poli, di cui non riesco a ricordare il nome (di sicuro né Cesare né Giuseppe) sarebbe stato – secondo la pronipote – aiuto di Gemito a Napoli e avrebbe collaborato (negli anni ’80 dell’Ottocento) alla realizzazione della statua divertente ed estrosa di Carlo V con il dito imperiosamente imposto (e poi rifatto perché spezzato), davanti al Palazzo Reale di Napoli. Però mia nonna era bresciana e con quei Poli (Giuseppi, Cesari o napoletani) credo proprio che non avesse niente a che fare.

Scorrendo il testo della storia segno alcuni punti concettosi:

presenti-assenti: l’ho preso dal Bottacin e dall’E.E. (che precisa: i morti sono assenti ma non inesistenti). Volevo toglierlo perché lo usano tutti, compreso G. Zampa nella prefazione alle poesie di Montale, ma poi l’ho lasciato;

gesti apotropaici: altra banalità, ma necessaria, che c’è da varie parti, compreso Dorfles;

piccolo hotel con una stella: è il Cimitero ebraico di Verona. Mio nonno era tanto indifferente alle cose della religione che non si curava nemmeno di dove sarebbe stato sepolto (credo che pensasse di essere stato battezzato segretamente da piccolo dalla madre cattolica, come deve avermi detto una volta la mia mamma). ll nonno usava dire “Me n’andarò a l’albergo dei du’ leoni” che era il modo in cui i veronesi chiamano il loro cimitero;

– i leoni che dormono della grossa sono quelli all’ingresso, copie ingrandite (eseguite da Francesco Pegrassi) di quelli del Canova per il sepolcro di Clemente XIII in San Pietro;

– turbare l’ordine…: è preso un po’ da Eliot (Canto d’amore di J.A.Prufrock) e un po’ da Gide (I sotterranei del Vaticano);

 – sono Lazzaro…: ancora dal Prufrock;

Hooper-il-Pastore è quello del “velo nero” di Hawthorne;

– la foto che trattiene…: è da E.E. (mi pare anche dalla Camera chiara di Barthes);

sarei-soltanto-per-sopravvivere: non poteva mancare l’Heidegger (preso leggiucchiando con grande sforzo l’Introduzione ad H. di Vattimo;

 – un Cyberdio quantistico… riassume un concetto letto in una recensione a Dio e la scienza di Jean Guitton, ansioso di aggiornare la teologia alla fisica corrente;

il prete-filosofo è mons. Giuseppe Zamboni docente alla Cattolica, allontanato dal tremendo padre Gemelli perché accusato di filosofare troppo gnoseologicamente, con cedimenti all’idealismo (notizie tratte da un articolo dell’Arena per l’uscita del ponderoso Corso di gnoseologia pura elementare zamboniano, rimasto inedito per mezzo secolo);

Emilio Salgari: morto suicida a Torino e sepolto a Verona sua città, proprio accanto a mio padre;

– il balletto di preti: ci fu davvero attorno al letto di mio papà morente all’ospedale, con il già ricordato don Chiot, più don Balbinot simpatico cappellano delle carceri, più il vecchissimo don Bassi parroco di S. Anastasia, e finalmente don Ferrari, parroco di S. Giorgio, parrocchia di casa mia, più vari anonimi frati e suore;

 – Foscolo: ebbe ispirazioni sepolcrali dal Cavaliere Pindemonte (così lo chiamava l’Ugo nelle sue lettere), del quale sono andato a leggermi gli anticipatori (ma modestissimi) Cimiteri nonché Sepolcri. La lapide, che c’è a Verona sulla casa di via Leoni dove l’Ippolito morì, recita: “poeta mesto e gentile…finì tra queste mura la vita che il Foscolo disse virilmente modesta”. L’Ugo aveva effettivamente scritto in una lettera che il Cavaliere era “di virtù virilmente modeste”;

possibilità…impossibilità ecc.: altra frase da Essere e tempo citata da Vattimo nella introduzione a Heidegger;

– l’Ecclesiaste: il molto appassionato commento di Ceronetti complica vieppiù l’affascinante e misterioso Qohélet;

mutazioni tanatomorfiche ecc: le ho pescate nella Treccani alla voce “cimitero” insieme alle nozioni sull’altezza delle mura di cinta;

fasto verminoso – nobile sentiero Poltergeist: in un racconto cimiteriale non potevo non citare il Gadda della Cognizione, la meditazione buddista e un classico del paranormale come il film di Tobe Hooper (lo stesso cognome del pastore col velo!), inventato e coprodotto da Steven Spielberg;

santo Francesco col solo fiato…: naturalmente dai “Fioretti”. Per le altre cose francescane mi sono scorso gli Ordini e Congregazioni religiose di Mario Escobar;

–  e quanto al Nulla…: qui mi confermo epicureo (quando sarò’ morto non ci sarò più e allora la morte non mi riguarda);

beviamo al riposo dell’anima!: così finisce il racconto Al cimitero di Cechov, con il brindisi di un vecchio attore alcolizzato. Finale che mi piace molto non solo perché è un’altra citazione ma anche perché mi consente di concludere questa storiella antiquata con un punto esclamativo, alla maniera dei racconti di Melville e di altri amati autori dell’Ottocento.

P.S. Tutta questa sfilza di citazioni non può non rimandarmi preoccupato a quel “poeta” dell’Aleph di Borghes (altra citazione), che farciva i suoi componimenti di – appunto – citazioni dotte e inutili e non dava alcuna importanza al fatto straordinario di avere in cantina uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti. “La sua attività mentale – dice Borghes – è continua, appassionata, versatile e del tutto insignificante”.

Emilio e un ready-made del ‘700

Sono sempre stato un fan di Sterne e del suo Tristram. Così buttai giù agli inizi degli anni ’90 per la rivista Meta una specie di saggetto sul tema della “pagina di marmo”, che uscì nel 1991 con questo titolo, purtroppo con gravi refusi e sbagli nella sequenza delle illustrazioni.

La cosa non mi andò giù e nel 2006 mi si presentò l’occasione di rimediare: l’amico Massimo mi introdusse alla rivista ravennate Il lettore di provincia, e io trasformai il pezzo in una storiella-saggetto che intitolai: Emilio e un ready-made del Settecento. Poi, su suggerimento di Massimo, aggiunsi il sottotitolo Un percorso di lettura, che giustificava la sua presenza in una rivista di saggistica. Fu pubblicata, ma anche stavolta, accidenti!, con sbagli nella disposizione delle illustrazioni.

Emilio compare anche in parecchie altre storie, è un po’ protagonista, abbastanza autobiografico.

Perché Emilio? Viene subito in mente Rousseau, e penso che non sarebbe difficile trovare, nelle pagine del suo famoso libro, pezze di giustificazione più o meno educative. I letterati sono bravissimi ad arrampicarsi sugli specchi. Ma credo che c’entri poco. Mi andava il nome e stop.

Indagini incrociate su niente, gratis

Mi sono divertito a scriverla cercando di prendere in giro le storie di fantasmi, imitando cialtronescamente lo stile – diciamo così – hard boiled rassegnato-malinconico di Chandler-Marlowe.

Telestorie

L’idea nasce con Puppy e si trascina nelle altre storielle, un paio delle quali non mi soddisfano e vorrei rivedere, quando e se ne avrò voglia. Mi riferisco soprattutto a Treno Trino, che mi è venuto in mente guardando, fuori dal finestrino del mio vagone fermo in stazione a Milano, dentro nei finestrini di un altro treno, fermo sul binario accanto. Dovrebbe avere il ritmo di una comica muta, se riuscissi a ricrearlo.

Cos’è successo a Puppy

Primo “racconto da (tele)camera”. Scritto in forma di abbozzo per sceneggiatura, come per un breve telefilm. Basato su un mio spunto del 1974.

POST SCRIPTUM (dopo la pubblicazione su ll Racconto – Febbraio ‘94).

Avevo mandato Puppy alla nuova rivista subito dopo che ne avevo sentito parlare alla radio da Guido Almansi. Silenzio per tanti mesi e mia rassegnazione. Invece improvvisamente mi arriva la telefonata del caporedattore, signorina Urbani, che me ne annuncia l’uscita! Nel frattempo, io avevo fatto qualche piccola modifica e sono andato apposta in redazione a Milano a portare il testo definitivo e ho avuto assicurazione che avrebbero apportato le correzioni. Invece è uscito il vecchio testo. Peccato ma insomma meglio di niente. Colpa mia che non avevo pensato di sottolineare nel nuovo testo le varianti.

Tutte le donne che hanno letto sinora il racconto mi dicono in sostanza: “lo trovo buono (qualcuna addirittura molto bello) ma sono rimasta sconcertata. Che una persona così semplice e pulita (come sembri tu) possa avere idee tanto morbose“. Il bello è che questa reazione accomuna sia le normali lettrici sia quelle “addette ai lavori”, che dovrebbero sapere: primo, che l’idea del racconto non è tanto “morbosa”; secondo, che il narratore deve identificarsi in qualche modo con i personaggi e con la loro vicenda, se vuol raccontarla efficacemente (ma non vuol dire che sia morboso anche lui, vedi – che so – Thomas Mann).

Dovrei spiegare alle signore che l’idea del racconto mi è venuta nel 1974 leggendo (mi pare proprio su Repubblica) una delle tante denunce delle femministe sulla donna-oggetto vittima della mentalità maschilista. Mi sembra di ricordare che stavo in treno (so che si era nel ‘74 perché gli appunti che ho buttato giù allora su un bloc-notes aziendale erano insieme a qualche altra annotazione datata). Letto l’articolo, mi sono chiesto: che situazione-limite potrei immaginare per rappresentare in modo esasperato e grottesco le fantasie e la psicologia maniacal-immatura di uno stupratore (cioè del personaggio esemplare ed “eroe” del maschilismo)? E mi è venuta in mente la solita bambola, come oggettualizzazione estrema della donna (anzi della donna-bambina), e poi la figura “morbosa” ma imbranata del papà al tavolo della cucina quotidiana.

Mi pare curioso e strano che nessuno – uomo o donna – abbia sinora avvertito il sottofondo ironico-grottesco della storia ( o forse era un’ironia troppo in fondo alla grotta, e là è rimasta?).

POST-POST SCRIPTUM (dopo una telefonata ricevuta il 28 aprile ‘94): ero molto avvilito dopo essermi sorbito una strapazzata anche da Kiky Carmi (sostenuta da Eugenio) a proposito di Puppy. Kiky era scandalizzatissima e in sostanza mi ha detto: vergognati di aver scritto una “cosa pornografica” del genere. Se non sapevo che l’avevi scritta tu l’avrei subito buttata nella spazzatura. Più andava avanti con le critiche e più si incazzava. E inutili erano le mie caute giustificazioni. Aggiungeva che i caratteri dei personaggi non erano ben definiti, però li trovava tutti molto antipatici (e questo mi diceva che avevo colto nel segno: dovevano risultare antipatici). Sosteneva poi che il racconto si interrompeva senza concludere (ma questo era intenzionale!). Diceva infine di trovare la storia, oltre che sgradevole, insignificante e inutile da raccontare.

Poteva essere colpa mia, che non ero riuscito a farmi capire?

Però, da tutto quello che diceva, criticando in totale personaggi e storia, risultava che in realtà aveva capito benissimo. Tanto bene da rifiutare tutto. Rifiuto che, secondo me, era il frutto del suo moralismo prude, della sua educazione di “ragazza per bene”.

Riflettei: a me non interessava il rifiuto di una storia in quanto sgradevole, ma l’accettazione del significato di una storia sgradevole. Conclusi che dovevo aver sbagliato qualcosa.

Ma ecco che tre giorni dopo (mi sono segnato la data), a risollevarmi dall’avvilimento mi arriva un messaggio nella bottiglia. Telefono alla rivista per sapere se è uscito il numero successivo, che non riesco a trovare in edicola. Mi risponde la Urbani in persone ed è stupitissima di sentirmi (telepatia?) perché le ha appena telefonato una signora (dalla provincia di Livorno!), che ha molto apprezzato il mio racconto e vuol entrare in contatto con me. E mi dà il numero. Telefono subito a questa signora, che si chiama Adriana Chiaromonte e sta a Campiglia Marittima. Mi fa molti complimenti e dice che è incaricata da un piccolo editore di Milano di cercare autori da pubblicare e io potrei essere tra questi. Mi invita a mandarle i miei racconti. Lunga telefonata simpatica: è una vecchia signora che ha il “mal d’editoria”. L’editore è un criminologo, il prof. Gianvittorio Pisapia (figlio del Pisapia famoso non mi ricordo di che ma l’ho sentito più volte nominare). Restiamo d’accordo che le manderò le mie storielle non appena rimesse a posto.

Sono contentissimo e gratificato ma poi mi viene il dubbio che il Pisapia sia uno che stampa a pagamento per allocchi che smaniano di vedersi pubblicati.

Il dubbio viene fugato un mese dopo da una seconda telefonata della signora. Mi dice che i racconti vanno bene ma il Pisapia ha qualche difficoltà. Devo stare comunque tranquillo: l’editore è sempre interessato a pubblicare scrittori nuovi. Ci vuole un po’ di pazienza. A mia domanda specifica mi rassicura: non devo tirar fuori una lira. Sarà anzi lui che mi darà eventualmente qualcosa. Poco ma mi darà. A me basta che mi stampi. Pare che il Pisapia sia un bravo piazzista. E’ riuscito a vendere persino una decina di copie di un volume di carteggi tra due personaggi di cui non ricordo il nome…

Morale: porto a Milano al Pisapia i racconti pronti, lui li manda a una tizia (mi pare a Padova?).

Dopo un po’, mi telefona: venga a riprenderseli, non vogliono saperne “di questa roba”. Pare che li considerino volgari e brutti. Amen.

Coincidenze (ovvero momenti sincronici di felicità)

Qui tentai di prendere in giro la famosa teoria di Jung sulle “Coincidenze significative” e “sincronistiche” che peraltro, come ho scoperto recentemente, molti hanno preso e continuano a prendere sul serio, tra cui, tanto per dirne due, un cervellone quale fu il Nobel Wolfgang Pauli (v. la biografia L’equazione dell’anima di Arthur I. Miller), e attualmente lo psicoterapeuta (naturalmente di area junghiana) Robert H.Hope, che ha scritto per Mondadori Nulla succede per caso. Libri che ho letto con molto interesse, mentre non ho letto, come avrei dovuto a suo tempo, il saggio di Jung sulla sincronicità come principio di nessi acausali. Ma io tendo a leggere non i testi originali in cui si enunciano le teorie, ma quelli che cercano di riassumerle per i somari. Non mi ricordo più come mi venne in mente nel 1995 lo spunto della storiella, ma me l’avrà suggerita qualche articolo di giornale.

Naturalmente dovrei chiedermi perché sbeffeggio le idee di Jung (però, via, è divertente) avendo presente quello che dico (di cose veramente sperimentate da me) in Profezia.

Storie per quattro

Ho riunito sotto questo titolo alcune mie prime cose, che non mi soddisfacevano e che ho accorciato (spero che ora funzionino, e forse ne aggiungerò qualche altra). Se le raccontano a turno tre “narratori”, mentre uno che non sa raccontare si limita ad ascoltare.

Aggiungo qui alcune parti (rivedute) di annotazioni scritte nel 1994 (io tendo a conservare tutto, anche quello che non serve più), a proposito della prima versione delle storielle poi riciclate. Come sono nate, e le fonti di certe citazioni, di cui potermi pavoneggiarei.

Ziozulù

Parte da una vicenda vera di mio zio Aldo fratello di mia mamma. Nato nel 1915, fu chiamato Aldo in onore del fidanzato della mamma (cioè di mio papà, allora in armi nella prima guerra mondiale). Era altissimo e davvero con caratteristiche negroidi. Mio nonno (paterno) lo prendeva sempre in giro dicendogli: dovresti andare con gli Zulù. Quello è il tuo posto. Difatti poi andò in guerra in Africa (seconda guerra mondiale) e finì prigioniero degli inglesi …in Zululand!

Una sua grande passione era la collezione di francobolli. Mise insieme delle raccolte pregevoli, “gestite” da vero professionista e da me molto ammirate.

Lo zio Aldo era un po’ bullo specie dopo che si trasferì a Roma dove fu impiegato nel Ministero dell’Africa Italiana, non so con che mansioni (diceva che lavorava all’ufficio, cifra ma temo che fosse una delle sue fanfaronate). Era anche un po’ fascista e fascisti erano del resto tutti gli zii materni (ma che dovevano fare? Erano stati educati da un padre padrone ex militare di capacità amatorie leggendarie, ex militare bassissimo, al quale la magniloquente retorica fascista serviva evidentemente anche a compensare i complessi di statura).

La nonna materna era religiosissima ed ebbe undici figli. Doveva essere stata molto bella in gioventù. Aveva ancora una bellissima carnagione rosea mentre una sua sorella (che vidi una volta a un funerale) sembrava una nera, davvero la Mammy di Via col vento. La bellezza di mia nonna si era trasferita alle figlie, alcune delle quali avevano qualche tratto afro-arabo. Mia madre aveva un bel corpo snello, un bel seno e splendidi occhi a mandorla. Le erano venuti, soleva dire, perché sua madre pregava sempre (a Nocera Inferiore dove allora abitava col marito maestro di banda militare), davanti a una Madonna bizantina. Mia zia Lina (morta in Brasile), era la più bella e dalle foto i caratteri afro-arabi risaltano. Mia cugina Daniela, figlia di Aldo, le assomiglia molto. Alta e con un bellissimo corpo, da giovane ha fatto la modella a Milano, dove ha poi sempre lavorato nel mondo della moda.

Nella storiella ho aggiunto varie cose ma la sostanza resta. Vera è la caduta dell’aereo (il giorno delle nozze, però mie) nonché la corrispondenza dello zio con il geometra. Che Ziozulù, a 78 anni, fosse cambiato, l’ho saputo dalla moglie separata, zia Afra (nome singolarmente africano!). La zia era più giovane di me ed era amica di mia moglie. Inventata è la sua altezza vertiginosa.

Le notizie sulla morfologia negroide le ho prese da Razze e popoli della terra di R.Biasutti. Una volta tutti accentavamo spensieratamente Zulu sull’ultima u. Che sia una parola piana è emerso dai giornali con le elezioni di Mandela. L’enciclopedia De Agostini dice ancora Zulù (ma tra parentesi riporta anche il “meno comune” Zulu).

Una bellissima bocca

L’avevo inizialmente intitolata Viaggio con puzze nella versione lunga, riciclata e opportunamente ristretta. Era la mia prima storia diciamo così “seria”, finita nel ’91, mentre pensavo di essere molto malato. Spunto tratto da una mia autentica esperienza di viaggio in treno. Ma è inventata la puzza della bocca, aggiunta a quella del gatto, per arricchire il contenuto aromatico della storiella.

In questo raccontino avevo cominciato ad abolire le virgole. Tentativo forse patetico di trovare un mio stile di raccontare in prima persona, avendo in mente esempi eccelsi come il Mr. Alfred Jingle del Circolo Pickwick e l’io narrante di Celine (però loro mantengono le virgole: ho cercato di imitare da entrambi lo stile a singhiozzo con le frasi brevi).

Abolire le virgole era per me un tentativo di disarticolare le frasi rendendole più secche e meno “curate”. Favorendo anche la dimensione del “colloquio interiore”, che finisce sempre per esserci in qualche modo, quando c’è di mezzo un io narrante (non parliamo per carità di flusso di coscienza, che è roba da letteratura “alta”).

Cactus

Anche lo spunto parte da un episodio vero. Raccontatomi dalla protagonista stessa: la (ex) suocera di mio figlio Marco.

La citazione di Rousseau l’ho letta sulle pareti del sedicente più antico (come da iscrizione all’ingresso) caffè-ristorante letterario parigino: Le Procope di rue de l’Ancienne Comédie (vi si mangia davvero molto bene, naturalmente). La frase sul mistero e sulla sua soluzione è invece – ovvio – dal Borges dell’Aleph (La scrittura del dio).

I dati sulle piante grasse li ho presi da un manuale di C.B. Fusi e per la (vaga) localizzazione geografica ho consultato l’enciclopedia De Agostini.

Della distinzione tra somiglianza e relazione d’identità parla Foucault in Le parole e le cose (pag.83) sotto il titolo “L’immaginazione della somiglianza” e fa parte di tutto il “racconto” che il filosofo fa sull’evoluzione del concetto di segno e sulla sua funzione, spaziando dal periodo arcaico, in cui valeva la legge della “somiglianza” tra le parole e le cose (tra il segno e la cosa rappresentata), al periodo classico in cui (dal XVIII sec. con la Logica di Port Royal), comincia a valere la legge della “rappresentazione” (non c’è più bisogno che il segno assomigli alla cosa, ma basta che la “rappresenti”). Tutto va nuovamente in crisi all’inizio del XIX secolo quando entra in campo qualcosa che non ho capito bene cosa sia (ci sarà’ certo di mezzo Kant). E qui viene fuori il fallimento della mia lettura superficiale di Foucault come conseguenza della mia ignoranza filosofica (forse causa della mia crisi è il fatto che la “rappresentazione” è diventata “discorso” e il “commento” ha ceduto il posto alla “critica”?).

La distinzione tra “somiglianza” e “relazione d’identità” è comunque una bella frase che suona bene qui come citazione colta in un contesto comico. Tanto per ricordarmelo in caso di emergenza, la distinzione la faceva Hume nel Trattato sulla natura umana, dove “poneva la relazione d’identità tra le ‘relazioni ‘filosofiche’, che presuppongono la riflessione, laddove la ‘somiglianza’ apparteneva per lui alle relazioni ‘naturali’, a quelle che esercitano costrizione sul nostro pensiero in virtù di una ‘forza calma’ ma inevitabile”’. Uhm.

Altra bella distinzione e quella tra “fallibilità assoluta e relativa”. Qui entra in ballo Popper e la sua teoria della “falsificabilità” (di un sistema scientifico) anzi entra in ballo la difesa della proposta di Popper da parte di un neopositivista-empirista logico del Circolo di Vienna: Carl Gustav Hempel. Secondo il quale la distinzione tra falsificazione assoluta e relativa è fondamentale per evitare malintesi nella discussione sulla natura della conoscenza scientifica. Ho beccato questa citazione in Popper e la filosofia della scienza di Arcangelo Rossi.

Infine, l’eustochia l’ho trovata in Simulazione e falsificazione di Benini e Torrealta e non ho resistito alla tentazione di infilarcela dentro. A rischio di annullare l’effetto “sprezzatura” ottenuto con le citazioni dell’avvocato, buttate là con la noncuranza del Maestro che sa tutto e ha capito tutto.

Storia del Coso

Questa me l’ha raccontata mio figlio Zeno. È un po’ una goliardata, ma accaduta veramente ad un suo amico. Sono contento di aver escogitato la soluzione Coso al posto di Stronzo, che mi ha consentito di limitare l’uso della (un tempo) parolaccia solo a quando ce vo’. Ho infiorato la storia di tanti dettagli immaginati e di qualche citazione. Rabelais innanzitutto: la parola scybalo l’ho presa da un elenco di termini stercorari snocciolati dal solito Panurge in Pantagruele (4, cap.67, pag.701 ed. Einaudi). Nella ed. Formiggini c’era scìbalo, ma ho preferitola versione con la y alla greca. Secondo la “breve dichiarazione” che trovai nel libro, scybalo vorrebbe dire “stronzo indurito”. Il mio vecchio dizionario greco Gemoll dice skùbalon: spazzatura, immondizia, escrementi (niente stronzi induriti) e segna come fonte addirittura il Nuovo Testamento. Ma nell’indice analitico dei temi biblici del N.T. non ho trovato voci scatologiche, ma solo escatologiche.

La scorreggia “che fece tremar la terra nove leghe all’intorno e l’aria ne fu corrotta” è ancora da Pantagruele (1, pag.139 ed. Formiggini). Da Gargantua (1, pag.31) ho preso il particolare del libro Vita di Santa Margherita applicato sul petto delle partorienti.

Del water “a feci visibili” mi parlò un’anziana venditrice veronese di articoli sanitari.

Per le considerazioni su sinterizzazione, estrusione e pressione ho completato i miei ricordi di vita siderurgica consultando l’enciclopedia della scienza e della tecnica di Mondadori, dove ho trovato anche ghiotte notizie sulla stipsi. A proposito dell’estrusione mi sono anche rammentato di una lettera che scrissi mille anni fa a Luciano Bianciardi per correggere un errore in un suo articolo apparso sul Giorno. Gli ricordai l’origine latina della parola (con citazioni da Cicerone ecc.) e aggiunsi: “anche gli stronzi si estrudono”. Cosa che evidentemente lo divertì perché mi rispose ringraziandomi.

SVARIANZE

Ho riunito sotto la voce Svarianze certe cosette prelevate dai miei appunti, diari, abbozzi di articoli, ecc. Credo che ne aggiungerò altre, quando le troverò o se mi capiterà di scriverne.

Negli anni ’90 pensai di preparare per la rivista Meta (che allora si pubblicava a Firenze), alcune storielle-saggetti sugli stereotipi del corpo. Ma il Circolo del Cinema di Verona mi chiese di scrivere qualcosa per il loro rinnovato bollettino mensile Filmese. Così decisi di orientarmi sugli stereotipi cinematografici, che offrivano tra l’altro in merito pretesti molto interessanti e divertenti. Mordersi lelabbra e Contare sulle dita erano i primi della serie. Ne feci diversi pezzi, poi lasciai perdere, quando il tema si esaurì (o meglio perché le ricerche da fare diventarono per me troppo complicate).

Cose

Cose l’ho messa provvisoriamente qui, ma non è il suo posto. È una lunga descrizione dei vari oggetti contenuti nella piccola teca appesa in cucina.

La mia idea era di farne un libriccino piccolissimo da appendere con un chiodino alla vetrinetta, a disposizione di ipotetici visitatori, che potrebbero, avendone voglia, consultarlo e documentarsi.

Potrei stamparmelo facilmente con il computer, se fossi capace (non voglio rompere le scatole una volta di più a mio figlio Marco, che saprebbe benissimo come fare).

FAVOLE

Negli anni ’60 misi nero su bianco alcune delle favolette che avevo raccontato ai bambini da piccoli. Un paio me le pubblicai da me (con miei disegni) sulla rivistina per i bambini dell’Italsider, che avevo inventato e diretto io (dubito che contino come pubblicazioni).

C’era una volta una Volta

C’era una volta una Volta è una sfilza di variazioni fraseologiche che coinvolgono la parola volta. È l’ultima favoletta che ho scritto.

Dovrebbe essere, come tante favole, illustrata, ma il tema è molto difficile. Ho provato (agosto 2014) a cambiare un po’ il testo sia per renderlo più chiaro (che cos’è una Volta?), sia per favorire i riferimenti illustrativi, ma non sono riuscito a inventarmi qualche disegno decente, anche semplicissimo, ridotto a pochi tratti lineari in bianco-nero.