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Tre cose

Se mi chiedessero (farò in modo che succeda), quali sono le tre cose che più hanno contato nella mia vita, risponderei senza incertezze: fascisti, omosessuali, ubriachi.

Non cose, dunque, ma persone, singole o collettive. Ve ne sono anche altre che hanno contato moltissimo, ma quelle tre di più, perché devo loro letteralmente la vita.

Prima vennero, in ordine di tempo anzi, prima ancora che nascessi, i fascisti.

Tutti gli anni, il 28 ottobre, essi celebravano la ricorrenza della Marcia su Roma, che aveva portato al potere nel 1922, come molti ricorderanno, Mussolini.

La sera del 28 ottobre 1924, a Verona, la mia mamma era molto preoccupata. Sapeva di manifestazioni antifasciste in città (quell’anno era l’ultimo in cui si potessero ancora fare, ma le squadracce in camicia nera spadroneggiavano impunite con armi e manganelli), e il mio papà, socialista militante, non era ancora tornato a casa. Senza notizie, senza telefono, man mano che le ore passavano, l’attesa si stava trasformando in angoscia.

Finalmente il mio papà rientrò, e la mia mamma scoppiò in singhiozzi.

Occorreva consolarla, e l’adrenalina paterna ammucchiatasi durante la giornata fu prontamente trasferita alle manifestazioni amorose.

Dopo nove mesi esatti, il 28 luglio 1925, io venni al mondo.

Seguirono, qualche anno dopo, gli omosessuali, anzi, un omosessuale.

La scena è cambiata. Siamo a Venezia, in un’estate di fine anni Venti o giù di lì. Mamma e papà si stanno godendo con una comitiva di amici qualche giorno di vacanza estiva sulla grande spiaggia sabbiosa del Lido.

Un fotografo ambulante propone una foto ricordo e suggerisce un divertente quadretto: le signore in costume in piedi su una branda di legno, gli uomini attorno ad omaggiarle e il bambino (io), infilato sotto il lettino. La comitiva prontamente si dispone, ma un giovanotto interviene, mi prende per un braccio e, gentilmente ma fermamente, mi trascina via. Un attimo dopo, sotto il peso delle sorridenti bellezze balneari, la branda crolla. Sono salvo per miracolo. Anni dopo, la mamma, rievocando il fatto con un brivido, mi rivelerà che il mio salvatore era un “diverso”.

Ultimi arrivano gli ubriachi. Ora sono grande, posso anch’io bere il vino e, con loro, ne bevo parecchio, anche per consolarmi di essere molto lontano da casa. Faccio parte di un gruppetto allegro, che passa le serate d’inverno (dell’ultimo inverno di guerra), all’osteria trincando, cantando, scherzando con le ragazze, talvolta litigando con qualcuno per questioni da ubriachi. Ma a notte fonda mi càpita spesso di aiutare rischiosamente qualcuno degli amici, e gli amici degli amici, a varcare il fiume in barca con armi e bagagli pericolosi, lontano dalle sentinelle.

Nei giorni confusi della liberazione, mentre partecipo con la mia formazione partigiana alla conquista della città in cui vivo, uno dei litiganti d’osteria d’un’altra squadra mi riconosce, mi grida rancorosamente “traditore”. I suoi compagni, che non mi hanno mai visto e non sanno chi io sia, mi spianano contro mitra pistole fucili. Quelli del mio gruppo, impegnati in una via vicina, ignorano quel che mi sta accadendo. Ci vuol poco, in quel frangente, soprattutto per uno che viene da fuori, a finire sparati.

Ma ecco che, al suono delle chitarre, vengono avanti cantando e ballando gli amici di sbronze, ancora ubriachi, ma stavolta per legittima felicità. Mi scorgono, mi abbracciano, conoscono tutti, rassicurano facilmente gli insospettiti e sono salvo.

Non parlatemi male degli omosessuali e degli ubriachi, per favore. Vi concedo di farlo, ma senza esagerare, dei fascisti.