Storie

Svarianze
Gustave Doré

Una volta, da ragazzo, contemplando affascinato le illustrazioni di Gustave Doré per la Bibbia (specialmente Giuseppe che spiegai sogni del Faraone nella sala del trono, tra colonne ‒ appunto ‒ faraoniche e pareti gremite di geroglifici, oppure Salomone che riceve la regina Saba tra mirabolanti palazzi, per non parlare dell’esercito egiziano che annega nel Mar Rosso), a me veronese venne di pensare: chissà che scene straordinarie avrebbe saputo inventare il Nostro per le opere in Arena, per l’Aida ambientata nell’antico Egitto.

Doré, dunque, popolare scenografo teatrale. A tanti anni di distanza, l’idea mi suona ancora azzeccata, mentre sfoglio le 43 tavole che l’artista francese disegnò per la famosa edizione londinese (1870) del The Rime of the Ancient Mariner diSamuel Taylor Coleridge.

Ma anche grande costumista, quel Doré. Egli rivestì fantasiosamente di panni medioevali i personaggi del poemetto, secondo il gusto neo-gotico e preraffaellita in voga all’epoca della pubblicazione (che richiama a noi italiani la ben più modesta Partita a Scacchi giacosiana, se non addirittura la trucibalda Cena delle Beffe di Sem Benelli). Un falso medioevo (poi me ne resi conto), che arriva a travisare in certe tavole, per sovrabbondanza di spettacolarità, il senso misterioso della romantica Ballata del Vecchio Marinaio, sul destino dell’uomo e della sua colpa, al di là del magico e dell’irrazionale.

La vocazione teatrale dell’artista francese appare evidentissima, per esempio, nell’immagine in cui The Death Ship nears (la nave morta s’avvicina): i marinai ammucchiati a prua del barco vagante nei mari australi, invece di guardare verso il sole, nel cui bagliore si staglia l’altro sinistro vascello che avanza, hanno tutti le facce girate inspiegabilmente verso destra, come fossero rivolti a un boccascena, per essere visti da un pubblico di spettatori.

Doré aveva già pronto per la bisogna, per ogni situazione e avventura da evocare in immagini, un suo sperimentato e impareggiabile armamentario teatrale. Non solo costumi per protagonisti, comprimari e comparse, ma arredi e attrezzi scenici, praticabili, fondali. Un ricco repertorio di albe, tramonti, chiari di luna e cieli tempestosi, mari calmi o terribilmente furiosi, favolose luminescenze, apparizioni fantastiche e altri effetti da cyclorama. Tutto usato magistralmente per dar vita volta per volta alle mille scene-madri della Bibbia, della Divina Commedia, dei balzachiani Contes drôlatiques, del Don Chisciotte, dell’Orlando Furioso, delle Favole di Perrault (forse la sua opera migliore). Già nel Gargantua¸ uno dei primi lavori, il ventiduenne Gustave aveva mostrato di possedere, oltre ad uno stupefacente e innato talento visionario nel disegno, anche un gusto del capriccio e una raffinata vis comica, perfettamente aderenti allo spirito rabelaisiano. Altro grande successo, anche commerciale,fupoi London: A Pilgrimage (Londra: un pellegrinaggio, libro realizzato in collaborazione con il giornalista William Blanchard Jerrold), che mise in luce un’ennesima bravura dell’illustratore: ritrarre i diseredati, denunciandone drammaticamente (teatralmente) miserie e sofferenze. Tanta bravura da scandalizzare i benpensanti britannici con le molte tavole nelle quali l’autore aveva reso evidente ‒ in modo troppo crudo, secondo loro ‒ la situazione (peraltro davvero tremenda) di degrado nei quartieri poveri della capitale inglese.

Autodidatta e precocissimo, Gustave-Paul Doré (1832-1883) illustrò ben 160 volumi e raggiunse una straordinaria popolarità. In realtà, noi non guardiamo i suoi disegni, ma le riproduzioni che abilissimi incisori ne avevano tratto, intagliando e interpretando magistralmente a rovescio, su matrici di legno (non di metallo), i segni le luci e le ombre degli originali.

Arte millenaria, quella xilografica, che trovò nell’Ottocento il suo maggior sviluppo in campo tipografico, specie dopo che Thomas Bewick aveva sostituito, alla fine del ‘700, il procedimento del legno di testa a quello tradizionale del legno di filo. Gli antichiincidevano su tavolette lignee tagliate seguendo il verso delle fibre che percorrono verticalmente il tronco. Lavoravano quindi il legno sul lato più tenero. Ora si poteva operare, invece, su tavole ricavate da sezioni trasversali del tronco, cioè su superfici molto più dure e compatte, che permettevano di utilizzare, anziché le sgorbie da legno, gli strumenti dell’incisione su rame, in particolare i bulini, semplici o a due e più tagli. Si poteva così ottenere un disegno molto fine, con sfumature ed effetti simili a quelli consentiti dal metallo, con sequenze di linee parallele sottilissime e fitte, più o meno incrociate. L’uso sapiente di questa tecnica fu esaltata al massimo nelle tavole che uscivano dal laboratorio di Doré, con esiti di grande suggestione e realismo, ai limiti del “pompier”.

L’artista aveva creato una vera e propria “bottega” xilografica, nella quale arrivò ad impiegare, sotto la guida dei formidabili H. Pisan e A.F. Pannemaker, una quarantina di collaboratori e allievi, tra i quali primeggiarono maestri provetti del “chiaro-scuro” come Piaud, Jonnard, Ligny e Monvoisin. I nomi degli esecutori figurano, in basso a destra, nella maggior parte delle illustrazioni, che Doré di solito firmava a sinistra. Parecchie tavole del The Rime recano, a destra, la firma di Jonnard. Artigiani-artisti di cui, con l’avvento dei perfetti ‒ ma anonimi ‒ procedimenti fotomeccanici, s’è persa una tradizione d’eccellenza.