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Japan

Forse avrete sentito parlare di un cavallo di nome Japan.

Aveva quarantadue code, quattro natiche e sedici paia di occhi, ma una sola zampa. E per quell’unica zampa era considerato un mostro!

Non però dal suo padrone, colonnello della Guardia, ufficiale di vecchio stampo. Per lui, Japan non aveva nulla di mostruoso. Anzi, era un animale di proporzioni perfette.

Ogni mattina all’alba, Japan e il colonnello facevano lunghe galoppate nei boschi fino ad una freschissima fonte. Qui, dopo averlo dissetato, l’ufficiale baciava Japan sull’affilato, nobile becco.

Japan, naturalmente, era oggetto di scherno da parte degli altri cavalli della Guardia. Vanitosi e crudeli, essi non concepivano che un cavallo potesse avere più di dodici code, più di sei paia di occhi e, soprattutto, meno di due zampe.

Non passava giorno senza che i perfidi cavalli non lo tormentassero. Deridevano le sue code sovrabbondanti, i suoi occhi in più, la zampa che gli mancava. E lo punzecchiavano dolorosamente con i loro becchi corti e sgraziati.

Sensibile come tutti i mostri (o piuttosto come tutti coloro che sono considerati tali), Japan soffriva acerbamente di quelle offese. Ma il buon carattere e la tendenza alla rassegnazione, tipica in molti diversi, lo portavano a non replicare. Si limitava a sospirare piano, mentre dai suoi trentadue occhi spuntavano altrettante lacrime.

Bastava, tuttavia, che l’artiglio del padrone si posasse delicatamente sugli aculei della criniera, per poi scendere ad accarezzare qualcuna delle code, ed ecco che la sua pena cessava. Egli si sentiva allora felice come nei giorni emozionanti delle parate.

Fu appunto durante la grande parata di maggio che Japan ebbe occasione di mostrare a tutti che le sue tanto derise imperfezioni erano, in realtà, doti eccezionali.

Japan, quel giorno, anzi, quella notte (le parate a quei tempi si facevano di notte per evitare che il luccichio delle armi spaventasse troppo la folla, non ancora avvezza ai nuovi terrificanti strumenti di morte); quella notte, dunque, Japan era particolarmente eccitato.

Il colonnello, per l’occasione, gli aveva personalmente inchiodato sulle due groppe ossee le più belle coperte di plastica rossa che avesse potuto trovare, orlate di passamaneria dorata; poi, infiocchettate le quarantadue code con i classici ciuffi di capelli strappati ai nemici e impeciati di miele selvatico, come voleva la tradizione, aveva infilato sulla zampa fremente di Japan una lunga calza di seta nera da generale, con la prescritta giarrettiera.

L’ufficiale s’era accuratamente rasato le grandi orecchie puntute, s’era dipinto col rossetto le molte cicatrici, s’era appeso alle sopracciglia le medaglie delle tante campagne di guerra ed era balzato tintinnando in sella.

Non appena Japan aveva sentito l’amato padrone serrargli saldamente i fianchi nella calda morsa delle otto gambe pelose, unte con cura di grasso di balena, aveva come sempre drizzato il capo e arcuato il collo. Erette fieramente le quarantadue code, s’era portato con l’andatura più marziale al posto che gli spettava, innanzi agli altri cavalli.

Il superbo animale, che avanzava saltellando maestosamente sulla sua zampa, giunto davanti al palco delle autorità volse la testa, più per curiosità che per deferenza.

La sua vista acutissima, moltiplicata dalla tanto derisa sovrabbondanza d’occhi, gli permise di notare, con sorpresa, qualcosa che era sfuggito a tutti. Il comandante supremo, nel sollevare di scatto l’artiglio in un rigido saluto, aveva mostrato di avere la giubba sbottonata all’altezza del terzo occhiello, così da lasciar intravedere le scaglie del torace.

La gravissima infrazione era evidentemente sfuggita anche all’aiutante di bandiera, cui sarebbe spettato il compito, secondo il regolamento militare e, più ancora, in ossequio alle inflessibili leggi dell’onore, di estrarre il pugnale e di piantarlo senza indugio nel petto del comandante, squarciandoglielo. Strappatone il cuore, avrebbe dovuto divorarlo ancora palpitante. Poi, rivolta la lama contro il proprio ventre, si sarebbe dovuto suicidare sul corpo del suo capo.

Ma nulla di tutto ciò sarebbe fortunatamente avvenuto, almeno quella volta.

Japan, con l’agilità consentitagli dall’unica zampa, compì uno scarto fulmineo verso il palco. Allungò la bella testa e manovrando provettamente l’uncino posto all’estremità del becco, eseguì la stessa operazione d’ogni mattina, quando aiutava il suo colonnello ad indossare l’uniforme: ricollocò, in una frazione impercettibile di secondo, il bottone nell’asola della divisa luccicante del comandante supremo.

Vi fu, sul palco, un attimo di disorientamento.

Il gesto di Japan era stato così rapido che nessuno aveva in effetti potuto vedere nulla, ma la sensazione che qualcosa d’insolito – di terribilmente insolito – fosse accaduto, fece correre a tutti un brivido lungo le creste delle schiene irsute. I notabili sul palco, tuttavia, erano sin troppo esperti delle cose del mondo – del loro crudele mondo – e l’attimo dopo tutto era tornato alla normalità.

Anche la folla che fronteggiava il palco aveva ondeggiato. Evidentemente qualcuno aveva intuito (nella folla c’é sempre qualcuno che intuisce), ma era stato subito eliminato sul posto dagli uomini dell’occhiuta polizia segreta, disseminati tra gli astanti e pronti ad agire senza lasciar traccia.

La sfilata proseguì come se nulla fosse avvenuto.

Conclusa la parata, i cavalli fecero ritorno in caserma, Japan sempre in testa.

Poiché nessuno, ufficialmente, aveva visto nulla, non vi furono rimproveri, né punizioni. Il gesto di Japan era stato, anzi, consapevolmente o no, apprezzato da tutti, e particolarmente da tutti coloro che contavano. Non solo da chi doveva la vita a quell’atto fulmineo, ma anche da quanti (ed erano la maggioranza) mostravano ormai un’insofferenza sempre meno celata per gli antiquati regolamenti militari e per un codice d’onore a dir poco superato.

Elogi non potevano comprensibilmente venire. E difatti non vennero. Ma il giorno stesso Japan fu trasferito in una stalla nuova e singola, riscaldata e con doccia calda, mentre il suo padrone ricevette, come dono anonimo, quattro paia di scarpette di tulle e un paralume di pelle quasi bianca, senza traccia di scaglie o di peli.

I furbi capirono subito da che parte tirava il vento e che ora, per salire, bisognava attaccarsi alle code di Japan.

E siccome Japan di code ne aveva quarantadue, gli amici non mancarono certo al nostro eroe, che si vide trasformato, da un giorno all’altro, in un personaggio di spicco, in un cavallo di successo.

I primi a sollecitarne l’amicizia, divenuta preziosa, furono proprio gli altri cavalli della Guardia, mossi più che dal calcolo, da un rovesciamento di giudizio. Il disprezzo si era mutato in una sorta di ammirazione. Che in breve divenne smania di emulare colui che era divenuto il nuovo modello per tutti.

La sera, i cavalli non rientravano mai nelle loro stalle senza essere prima sfilati davanti a Japan saltellando goffamente su una sola zampa (ora il massimo dello chic) e sforzandosi di attrarne in qualche modo l’attenzione.

Molti esibivano finte paia di occhi, che usavano dipingersi accanto a quelli veri, nel grottesco tentativo di assomigliare un poco al modello. Poi i cavalli, biascicando nei tozzi becchi il pastone di segatura e sangue, si addormentavano. E facevano tutti lo stesso sogno: la grande sfilata, il palco delle autorità, il comandante in capo con la giubba sbottonata e loro che, volteggiando su una sola, agilissima zampa, allacciavano in un lampo il bottone nell’asola con un lungo, lunghissimo, elegante becco affilato terminante ad uncino, mentre sul volto leporino dell’aiutante di bandiera, già pronto a estrarre il pugnale, si disegnava un’espressione di indicibile stupore.